OGGETTO: Missili supersonici in giardino
DATA: 13 Gennaio 2025
SEZIONE: Geopolitica
FORMATO: Analisi
AREA: Asia
Con la recente implementazione dell’arsenale di missili supersonici da parte di Taiwan, gli USA cercano di far ingolfare la superpotenza asiatica in un conflitto regionale per minarne l’affermazione sempre più evidente sul piano internazionale. Ripetendo la mossa strategica della guerra russo-ucraina il Pentagono mira al divide et impera nello scacchiere geopolitico per paralizzare i suoi avversari egemonici in confronti militari.
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Come ricordato recentemente da Gabriel Honrada su Asia Times, la politica internazionale statunitense si dibatte nel dilemma di comprendere cosa fare del colosso asiatico che minaccia di gettare un’ombra sull’unipolarismo a stelle e strisce senza impelagarsi in escalation atomiche dannose per entrambe le parti, sfruttando “la provincia ribelle” dell’isola di Formosa. Nella fattispecie gli americani, con i robusti e costanti finanziamenti a Taipei (si ricordi che solo Biden ha stanziato 576 milioni di dollari che nel 2025 arriveranno alla cifra monstre di 898), stanno rendendo possibile all’esercito taiwanese la costruzione di missili supersonici a lunga gittata Ching Tien in grado di colpire le infrastrutture cinesi vitali, tutelando i loro interessi nelle società di chip della zona a cui hanno vietato accordi economici con i cinesi e facendo pressione sulla repubblica popolare. Il disegno USA, ispirato da Mahan e Spykman come consigliava su Foreign Policy il professor H. Brands, consiste nel tenere occupato il dragone cinese per impedirgli la presa degli stretti marittimi fondamentali per il passaggio delle merci nel Mar Cinese Meridionale che si tradurrebbe nella possibilità della talassocrazia americana. Per questi pionieri della geopolitica, infatti, correggendo la dottrina di H. Mackinder non si trattava di controllare la Heartland affacciata sul Mediterraneo, il Medio Oriente, l’Asia meridionale e la Cina, quanto di padroneggiare il Rimland, la fascia costiera che abbraccia l’Eurasia che permetterebbe di ottenere dal mare la supremazia sulla “isola-mondo”.

Ora facendo leva su politiche di apertura verso la federazione russa marginalizzando Pechino (come si era tentato di fare negli ultimi decenni offrendo il patto atlantico ai russi seguendo l’idea originaria di Mackinder di dividere gli avversari sulla strada dell’Inghilterra) ora frammentando la galassia sovietica (la più antica dottrina geostrategica di Zbigniew Brzezinski) aprendo le porte commerciali al gigante cinese negli anni Novanta per garantire alle aziende americane sbocchi economici floridi, gli Stati Uniti hanno sempre cercato di soffocare l’emergenza di possibili rivali.

Come notato dal vicepresidente della federazione russa Dmitrij Medvedev su International Affairs tempo fa, Taiwan in quest’ottica causa instabilità e divide il campo avversario coltivando il nazionalismo fanatico taiwanese che si crede scollato dall’identità storico-culturale cinese con pratiche analoghe a quelle degli ucraini rispetto ai russofoni. Infatti, come sottolinea Medvedev, se nel secondo dopoguerra nel Paese furono avviate massicce campagne di sinizzazione forzata, dopo essersi legata a doppio filo con gli Stati Uniti Taipei impose violentemente il dialetto cinese parlato sull’isola (Taiyu) con pratiche xenofobiche e razzistiche volte a fabbricare artificialmente un’identità aliena alla cultura cinese. Lo scopo della classe dirigente locale, laggiù come nel Donbass, consisteva nel promuovere ferocemente un etnonazionalismo aggressivo per cementare il separatismo dalla madre patria cinese contando sui cospicui aiuti economici promessi dalle élite occidentali. Su questa scia l’analista geopolitica L. Ruggiu concorda sul fatto di ritenere l’isola di Formosa un avamposto americano stretto tra le ambizioni statunitensi di controllo della regione in funzione anticinese e i loro interessi economici dipendenti dalle expertise tech dell’industria taiwanese, non esitando a definire Taiwan un pupazzo. In questo senso Taipei permette di giustificare ideologicamente il white burden americano (l’ideale occidentalista di portare la civiltà e la democrazia nel resto del mondo) ed è funzionale agli interessi di modernizzazione tecnologica e cattura di choke points strategici per il transito delle merci nel Pacifico.

Roma, Gennaio 2025. XXIII Martedì di Dissipatio

La mostrificazione della repubblica popolare cinese sfruttando le vessazioni al popolo oppresso taiwanese (che viene santificato ed elevato a martire simbolico per meglio far fruttare il bisogno di identificazione nel pubblico) asseconda così la narrativa americana che vuole depotenziare sul suo stesso territorio un paese che rapidamente sta sorpassando l’economia e il capitale tecnologico USA mettendone a rischio la cifra di superpotenza nel prossimo futuro. Significativamente, scriveva Vladislav Surkov in un articolo per Rossija v global’noj politike del 2018, tutto questo spinge la federazione a ricercare una strada autonoma allontanando le grinfie occidentali che minacciano di balcanizzarla, rompendo con le fantasie eurocentriche e cercando invece un proprio sviluppo secondo i valori maturati nella sua storia. Venuta meno la possibilità di una “casa comune europea” come proponeva Gorbačëv, agli europei non rimane che fare autodafé del loro peso politico sul piano internazionale e farsi andare bene di essere schiacciati sotto lo stivale americano che lotta disperatamente per la propria supremazia.

Se lo scopo dell’amministrazione americana ai tempi della rivoluzione colorata di piazza Maiden consisteva nel legare a sé un pezzo di mondo ex sovietico storicamente intrecciato con la storia e la cultura russa per tentare di far implodere il gigante eurasiatico dall’interno accaparrandosene poi le risorse, la visione strategica rimane la medesima. Il disegno preciso che si fa strada dietro le azioni apparentemente irrazionali di sostegno costoso a questi paesi nei grandi spazi geopolitici altrui non rasenta la follia ma la logica spietata di chi vuole impiegare tanto Kiev quanto Taipei come pedine sacrificabili. Ora come allora, le eminenze grige americane guardano al gigante cinese con timore, aspettandosi il sorpasso inesorabile, e armano l’isola di Formosa (o paesi confinanti con storie complesse alle spalle nel caso ucraino e degli staterelli baltici) giocando in anticipo sulla “trappola di Tucidide” che li condanna a cercare il conflitto per scongiurare il proprio declino.

Dall’altra parte della barricata, però, la Cina da un lato ha accresciuto considerevolmente il suo know how tecnico-industriale per reggere l’urto con le economie capitalistiche sue avversarie, mentre sul piano internazionale con la Belt and Road Initiative si è fatta apripista di una politica di cooperazione e mutuo aiuto alternativa al soft power occidentalista. Smentendo le narrazioni ideologicamente connotate che la volevano come una potenza ostile dedita a intrappolare nel debito le economie fragili dell’Africa, Pechino ha cancellato debiti, investito in infrastrutture pubbliche in stati che mancavano di tutto, è riuscita nello storico risultato di strappare alla povertà assoluta milioni di milioni di persone, in altri termini ha saputo costruirsi nell’immaginario collettivo come potenza egemone credibile. Il gigante asiatico ha dato via così ad un “socialismo prospero”, un modello economico misto dove il partito centrale che può contare su una solida partecipazione dal basso (al netto di alcune limitazioni alla sfera della libertà che però d’altronde dipendono anche dalla tradizione culturale confuciana), e che effettua politiche di redistribuzione economica permettendo una buona mobilità sociale. Solo il tempo potrà dirci se gli americani riusciranno a non essere seppelliti dai loro errori e a recuperare egemonia nella lotta senza esclusione di colpi che verrà un domani oppure se come per molti imperi che li hanno preceduti saranno sospinti negli angoli bui della storia con le loro luci e le loro molte ombre.

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