OGGETTO: La tattica del cane pazzo non pagherà
DATA: 30 Ottobre 2024
SEZIONE: Geopolitica
FORMATO: Visioni
Tra il fumo dei carri armati e l’eco di antichi rancori, si muovono le pedine di un conflitto senza fine. Il potere si frantuma, la legittimità sfuma; la violenza, ora regolata ora disordinata, disegna confini sfocati. Nelle stanze del potere israeliane, si calcolano mosse e si ignorano cause, mentre il tempo stesso sembra ripiegarsi su guerre già viste, risoluzioni mai arrivate.
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Nel XVII secolo, sull’Europa spazzata dalle guerre di religione, germinò la pianta dello Stato moderno. Esso può dirsi ontologicamente tale quando in possesso, fra altre peculiari caratteristiche, anche del monopolio legittimo della violenza. Il potere di conservazione dell’ordine sociale e legale, infatti, non può essere scomposto e conteso da famiglie nobili titolari di eserciti personali impiegati a difesa di feudi, né da mercenari acquartierati in una città; da quel momento le dispute private non potranno più risolversi con i duelli, e i moti di repubbliche secessioniste saranno sopiti col drenaggio di maggiori risorse economiche.

Questo potere si è nel tempo scisso lungo due direttrici spaziali: interna, attraverso la creazione di una forza di polizia che, rispettando le norme giuridiche, mantenga l’ordine a livello locale; dall’altra, esterna, in un esercito nazionale, di coscritti appartenenti allo stato-nazione, legittimato ad utilizzare la forza per la difesa dalle minacce esogene.

Episodi storici che rendono l’idea del monopolio legittimo della forza da parte dello Stato non mancano. Lo stesso Garibaldi fu vittima illustre. Nel 1862, il Generale, nel tentativo di riconquistare la città di Roma – ancora sotto l’egida del potere temporale della Chiesa -, aveva chiamato a raccolta le sue camicie rosse per replicare l’impresa nata due anni prima con lo sbarco a Marsala. Ma essendosi appunto costituto l’Unità d’Italia, le regole di ingaggio per un’impresa simile si erano capovolte. Il Regno Savoiardo aveva adesso un proprio esercito e il Re Vittorio Emanuele II, benché agisse con gli stessi fini di Garibaldi, non esitò a rivolgere i bersaglieri contro l’Eroe dei due mondi, che rimase ferito e sconfitto sull’Aspromonte.

Ancora, un’altra vicenda significativa, si è consumata durante la prima guerra combattuta da Israele contro gli stati arabi, nel 1948. Poco dopo la Dichiarazione di indipendenza dello Stato ebraico, membri del gruppo terroristico ebreo dell’Irgun, capeggiati da Menachem Begin – futuro primo ministro -, tentarono di far entrare clandestinamente nel porto di Haifa la nave “Altalena”, carica di armi, per proseguire la guerra contro il nemico. In quel contesto il primo ministro David Ben Gurion spostò una colonna dell’esercito regolare dal campo di battaglia per impedire alla nave di approdare. Fu chiara la volontà dell’esecutivo di dimostrare la supremazia autoritativa dello Stato nei confronti di un gruppo paramilitare che, pur combattendo dallo stesso lato della barricata, contravveniva ai principi classici dell’ordine di potere modernamente inteso.

Affrontando questo ragionamento per un’altra strada e ricollegandolo al presente della guerra in Medio Oriente, si può facilmente constatare quanto Israele stia utilizzando il proprio monopolio “legittimo” della violenza in maniera più che disinvolta.

Alle brutalità del 7 ottobre, ai 1.200 morti civili israeliani e alle nefandezze perpetrate dai miliziani di Hamas, Israele ha risposto con una violenza altrettanto belluina. Nessuna riflessione introspettiva è stata fatta, almeno pubblicamente, per comprendere i motivi, storici e psicologici, che hanno costituito le premesse dell’operazione «Tempesta di al-Aqsa». I carri armati di Tsahal hanno spianato la Striscia di Gaza, lasciando sul terreno oltre 40.000 vittime; per sconfiggere i terroristi di Hezbollah sono penetrati in uno stato indipendente (anche se poco sovrano) come il Libano, bombardandone la capitale; più in generale si sono imbarcati in una guerra infinita ed esistenziale detta «dei sette fronti», i cui esiti sono imprevedibili.

A fronte di una risposta dura, forse indispensabile, Israele – che in realtà è consapevole e conosce a fondo ogni cosa -, aveva la necessità di riflettere.

Domandarsi perché i milioni di dollari recapitati a Gaza dai paesi arabi del Golfo anziché essere utilizzati per lo sviluppo economico e infrastrutturale della Striscia – un lembo di terra cinque volte più piccolo della provincia di Isernia, chiuso da un muro di contenimento e sorvegliato a vista – siano stati cinicamente utilizzati per scavare tunnel ed acquistare razzi. Domandarsi se la figura di un uomo come Yahya Sinwar – l’ex sovrano di Gaza – nato in un campo profughi della Striscia, da una famiglia allontanata coattamente da un villaggio a cui è stato dato un altro nome, in altre condizioni di vita avrebbe avuto la necessità storica di esistere così come è stato conosciuto, di manifestarsi nelle forme di carnefice.   

Tutto questo la divisone etnica all’interno dello Stato ebraico e la sete inappagabile di sopravvivenza politica di Benjamin Netanyahu non lo permettono. La guerra dà stabilità interna, compatta frange eterogenee contro il nemico esterno. La tattica del «cane pazzo», che si muove con moto schizofrenico e a piena forza da un fronte all’altro spaventa, funge da deterrente alle potenziali ritorsioni di temibili nemici.

I moniti cosmetici, di pura facciata, da parte dei paesi europei; la furia tutta verbale, ma corretta da invii di armi da fuoco e protezione attraverso le portaerei, da parte degli Stati Uniti; l’ormai conclamata inanità delle Nazione Unite di ricondurre a diplomazia un conflitto; lasciano ad Israele una conduzione totalmente sfrontata della guerra nello scacchiere mediorientale.

Roma, Marzo 2024. XVI Martedì di Dissipatio

Se volessimo fare parallelismo un po’ spericolato, Hamas e tutto il cosiddetto «Asse della Resistenza» assomiglierebbero al bullo di classe, all’irrecuperabile “Franti” del Libro Cuore, sottoproletario e inossidabile cattivo – di cui nessuno, tuttavia, si preoccupa di capire perché lo sia così tanto -, e per questo viene ostracizzato; dall’altro avremmo un Israele che assomiglierebbe a quel primo della classe che dà le spallate ai compagni, anche di fronte ai professori poiché consapevole che il suo prestigio le garantirà comunque l’impunità. 

Resta il fatto che, come ritenuto da molti esperti, la tecnica della decapitazione dei leader e la guerra senza limiti condotta dallo Stato ebraico contro le organizzazioni terroristiche, porterà sì ad un vantaggio tattico sul breve periodo e ad una certa tranquillità transfrontaliera. Ma nell’arco di una decina d’anni una trappola strategica potrebbe emergere nelle forme di una nuova generazioni di guerriglieri e terroristi, ancor più agguerriti di quelli oggi sconfitti, perché nati e cresciuti nella terra del rimorso, dove le speranze nel futuro si interrompono al fucile e all’ideologia.

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