Durante gli anni della Seconda guerra mondiale, il pensiero del primo Jean-Paul Sartre trovava uno sviluppo tutto personale nel tentativo di rinnovare la psicoanalisi. La sua proposta evidenziava come la psicoanalisi di matrice freudiana presentasse un limite proprio nella sua componente più intima. Lo studio del passato dell’individuo, il pozzo dell’inconscio, l’archeologia della sua infanzia, non predisponeva il soggetto ad essere pronto ad affrontare il nuovo, le incertezze del domani. Certo, al tempo di Freud, le convenzioni della società borghese se deprimevamo l’io aggredendolo fin dalle fasi originarie dello sviluppo psichico, dall’altro lo incanalavano in binari talmente consolidati da rendere il suo futuro un orizzonte prevedibile, almeno quando si trattava dei suoi sviluppi sostanziali. Forse per questo motivo – si potrebbe dire di “costrizione ambientale” – le speculazioni psicoanalitiche del tempo non si posero il problema del rapporto dell’individuo col futuro.
Non è d’altra parte un caso se Pindaro, nel V secolo a.C., in un verso delle sue poesie, alluse agli uomini definendoli «Creature di un giorno [epámeroi]». Col termine “effimero” il poeta non alludeva alla vita troppo breve dell’uomo, piuttosto al fatto che esso fosse esposto al limite che gli impedisce di sapere cosa gli accadrà il giorno seguente: l’esperienza ci insegna che la vita è segnata da una instabilità che l’uomo è incapace di determinare anticipatamente e tantomeno di controllare. A questa constatazione si aprono due, antitetiche, possibilità di comportamento che l’essere umano usa per rapportarsi all’inconoscibilità del futuro. Una è la sfiducia, che porta come risposta quella di chiudersi al “presentismo”, alla sicurezza di tentare di perpetuare il più possibile i modi di vivere che già conosce, riducendo al minimo l’azione nei confronti delle scelte obbligate che la vita pone di fronte. La seconda è la sfida. Constatata la sicura inconoscibilità del domani, questo non scoraggia il soggetto, che lo va ad affrontare cercando di capovolgere lo svantaggio: se il futuro è inconoscibile significa che questo è pure contendibile, un campo completamente aperto alla possibilità di realizzare, almeno in parte, sé stessi.
Il Rapporto Censis 2024 mostra come il 51,8% dei giovani nella fascia di età compresa fra i 18 e i 34 anni dichiari di soffrire di ansia o depressione; lo stesso rapporto evidenzia che circa il 30% di essi ha consultato uno psicologo e che il 16,8% assume psicofarmaci. Oltre all’ansia e alla depressione i disturbi che emergono sono quelli legati al comportamento alimentare (anoressia e bulimia), al sonno, seguiti da attacchi di panico ed autolesionismo.
L’aumento di incidenza dei fenomeni depressivi odierni ha fra le concause anche l’incertezza del futuro vissuto come un’incognita troppo grande da sostenere. Il futuro viene pensato dalle giovani generazioni come un fardello molto più pesante di quanto non lo fosse per quelle precedenti in quanto le conducono a scontrarsi in pieno con quel mutamento – vero tratto distintivo del nostro presente – che sta vivendo la società: l’atomizzazione e l’individualizzarsi delle forme di vita.
Questo non significa che l’essere umano stia diventando asociale piuttosto, per cause sovrastrutturali – aumento del costo della vita, lavoro precario, utilizzo bulimico dei social –, tende a fare scelte individualiste. Le amicizie ci sono, le relazioni sentimentali restano ma non si evolvono in qualcosa di più: si evitano le scelte impegnative così come i vincoli a lungo termine. Le mille vicissitudini fanno del compagno o compagna non una certezza su cui affidarsi per acquistare una casa ma una presenza transitoria che mantiene il soggetto all’erta: l’appartamento viene condiviso ma è intestato solo ad un membro della coppia; i vincoli giuridici del matrimonio sono spostati avanti nel tempo o rigettati a priori per evitare oneri in caso di separazioni future. Ma il fenomeno non si riduce a questo.
Il presente e il futuro sottopongono il soggetto non a eventi traumatici riconducibili a un unico episodio ben evidente, piuttosto a una microfisica dei disagi, piccoli eventi che non piegano l’io nella loro azione singola ma lo erodono nella loro azione sinergica. Questi sono affrontati da un soggetto che agisce individualmente, che essendo atomizzato non li risolve all’interno di un orizzonte dialogico con persone di cui ha fiducia – la famiglia, il marito o la moglie – ma tutt’al più con altri “individui” con cui non ha legami “forti”. La conseguente labilità psicologica – proprio in quanto prova a trovare vie di fuga auto-dialettiche – fa del soggetto un ente sottoposto a cadere nella fragilità mentale, verso fenomeni depressivi o di altra natura.
Donald Winnicott, psicoanalista britannico, in uno scritto del 1949 dal titolo «L’infanzia Giulietta», cercava di spiegare – a partire dal dramma shakesperiano – le radici infantili del comportamento di Giulietta Capuleti, elevandola a modello dell’organizzazione autopoietica dello psichismo del soggetto adulto. Lo sviluppo infantile di Giulietta diviene paradigma di come il bambino inizia a rapportarsi col mondo, con ciò che sta al di fuori di sé. Il solo impegno – chiamato tecnicamente «compiacenza» – da parte del soggetto-bambino a realizzare i desideri dei genitori (o, in senso largo, il cosa gli “altri” o la società si aspettano da lui), annulla di fatto la sua spontaneità, generando un «Falso Sé», quindi una vita vissuta in senso meccanico e inautentico, con una personalità conformista e ridotta a puro schema. Così si esprime Winnicott:
Non che ogni adolescente, se sano, debba andare incontro alla tragedia. Ma ogni adolescente, nell’adeguarsi, in qualche misura, a ciò che la società si aspetta, perde non solo la piena ricchezza dell’amore, ma anche la pienezza della tragedia, e questo comporta la perdita della sensazione di vivere pienamente la propria vita. Il vantaggio della compiacenza è notevole, ma dipende, nell’adolescenza, dalla capacità dei genitori di incontrare a metà strada la spontaneità del ragazzo.
I genitori di Giulietta non potevano farlo perché non erano abbastanza in contatto con lei. […]
Si potrebbe dire, al contrario, e per equilibrio, che l’adolescente è nei guai se si adatta troppo bene a una base di compiacenza, sacrificando troppo la sua spontaneità […]. Un ragazzo o una ragazza di questo tipo rischia di essere accolta dal mondo come un esempio di educazione ben riuscita, di buon adattamento, di sanità mentale, di successo. Tutti, tranne lo psicoanalista, si sorprenderanno quando la protesta si tradurrà improvvisamente in crollo mentale […].
-D. Winnicott, L’infanzia di Giulietta, in D. Winnicott, Il sentimento del reale. Scritti inediti, Milano, Raffello Cortina, 2025, p. 39
L’elaborato suddetto, si incanala all’interno di un discorso più complessivo fatto da Winnicott e che è chiamato – in una recente raccolta di scritti inediti usciti per Raffello Cortina – «Sentimento del reale». Come scrivono le curatrici nella presentazione del volume:
Winnicott sceglie di utilizzare real, “reale”, e non reality, “realtà”. […] La realtà è quella fuori di noi, quella dell’esame freudiano, ossia il compito di distinguere gli stimoli interni da quelli esterni affidati all’Io. Ma è anche la “realtà interna”, a cui quella esterna si contrappone, abitata, tanto nella descrizione freudiana quanto in quella kleiniana, da meccanismi e istanze inconsce in qualche modo oggettivabili. Real, invece, per Winnicott è qualcosa che si sente. O non si sente. Sentirsi reali, feeling real, equivale a sentirsi se stessi, nei propri panni e nei propri pensieri, sentendo che le proprie azioni sono in qualche modo significative per sé; è una qualità del Vero Sé.
-S. Boffito e A. Ferruta, Presentazione. Dal primitivo al sentimento del reale: una selezioni di scritti inediti, in D. Winnicott, Il sentimento del reale, cit., p. 19
Il rapporto fra Vero Sé e Falso Sé risulta esiziale. Ma nella declinazione data dallo psicoanalista inglese si riduce, nonostante le distanze, ad una chiave di lettura ancora freudiana poiché le origini sono rilevabili nell’archeologia dell’infanzia, nel passato del vissuto.
Oggi non è necessario relegare in soffitta tali concetti ma trattarli con più duttilità, estenderli allo sviluppo del soggetto nell’adolescenza, alla sua costruzione come giovane adulto. Con i social è facile divenire attori di compiacenza delle aspettative altrui anche quando la fase dell’infanzia è superata. L’io divenuto secondo Byung Chul-Han «soggetto di prestazione», atomizzato, gareggia per sentirsi accettato dalla società e, annullando la sua spontaneità, diviene paradigma del Falso Sé: non agisce in modo attivo e personale sul futuro ma si condanna a divenire mimo delle aspettative degli altri.
La distopia del presente non si allontana poi di molto da un’aspra autoriflessione che fece quasi un secolo fa il filosofo René Daumal.
Uno specchio si presenta; la smorfia che riflette parla ancora in prima persona, e non ha certo meno ragione di farlo. Di fronte a me stesso, come di fronte al mio simile, mi presento con una maschera. Se questa maschera viene tolta, dietro c’è un’altra maschera e, anzi, strati di maschere, di trucchi, di ceroni, di smalti, di pitture.
-R. Daumal, Il rovescio della testa, in Il rovescio della testa, Milano, Adelphi, 2025, p. 70