Giù al Sud pare si decidano o si siano già decise le sorti dell’immediato futuro globale. Quale Sud, però? Quello degli Stati Uniti d’America, naturalmente. La guida, il faro, il cuore pulsante d’Occidente, la cui stella sempre meno luminosa solleva qualche sopracciglio a chi ne osserva le vicende. Al punto che se da quelle parti le cose non promettono bene, come capita di dire ormai anche al più ottimista dei commentatori, qui da noi, al contrario, regna una calma alquanto sospetta, un guardarsi interrogativo l’un l’altro che puzza tanto di provincia di un impero seriamente in crisi – in attesa di capire l’esito delle elezioni del 5 novembre e quali carte noi si abbia il permesso di giocare nel grande risiko delle relazioni internazionali.
Crisi di un paese, gli Usa degli ultimi anni, dilaniato da così tanti conflitti interni che si finisce per tacere, quando non dimenticare, quello che storicamente pare radicato fin dentro le viscere del suo corpo sociale, ben presente fin dai tempi della empresa descubridora di Colombo e, successivamente, della guerra civile tra Unionisti e Confederati (1861-1865): ovvero quello tra Nord e Sud. Il solo che, presto o tardi, ne decreterà la fine come nazione e, di conseguenza, come Impero.
È nel periodo che va dal 2012 al 2024 che la storia – intesa come comportamenti, modi di pensare, vecchi retaggi – ha ripreso a correre su quei binari che si credevano morti, e che, invece, preludevano alla manifestazione, ora ancora più violenta, di una rabbia tutt’altro che sopita, quella che Emily Dickinson definì nearness to tremendousness, la “vicinanza col tremendo”, figlia legittima di una sofferenza senza limiti.
All’incirca, da quando Barack Obama, dopo la prima storica vittoria alle presidenziali del 2008, ribadiva per altri quattro anni, con la forza dei voti e una sofisticata narrazione facente leva sul colore della pelle, quanto la Casa Bianca fosse l’approdo di tutte le minoranze. Adesso, così diceva il sottotesto della parabola obamiana, anche agli ultimi, i diseredati, coloro ai quali era stato tolto molto e dato pochissimo, era finalmente concesso di riscrivere il vecchio canovaccio del sogno americano, aspirando nientemeno che alla Casa Bianca: laddove i tempi infine cambiati, con la dylaniana The Times They Are A Changin’ inveratasi magicamente nella vita e nella carne degli americani del nuovo millennio – e al termine di un processo di secoli: da Abramo Lincoln al Civil Rights Movement di Martin Luther King, dall’attivismo di Malcom X alle Pantere Nere -, annunciavano l’ultima delle frontiere ideali: la sconfitta del razzismo. Vaste programme. Difatti «proprio allora l’America profonda, e inconfessata, risollevava la testa», sostiene Marco D’Eramo, giornalista e grande esperto di Usa, nel bellissimo I terroni dell’impero. Viaggio nel profondo Sud degli Stati Uniti (Marietti 1820, 2024): una raccolta per nulla invecchiata, tanto da meritare una nuova edizione, delle corrispondenze realizzate dall’autore nei primi anni Duemila come inviato del quotidiano Il Manifesto in quel sud ultrarazzista con le bandiere Dixie davanti casa a sventolare, oggi nuovamente egemone e molto distante dall’immaginario stantio cui siamo abituati di terra rurale e retrograda.
Se è vero che alcuni caratteri sono rimasti intatti fino ad oggi, essendo gli uomini e le donne di laggiù spesso impermeabili al mondo esterno, ai limiti di una rivendicata e orgogliosa differenza antropologica, tuttavia questo New South descritto nei reportage di D’Eramo – parliamo del Mississippi, della Louisiana, della Georgia, della Florida e del Texas, per intenderci -, a dispetto di quello scolpito nel marmo dei nostri stereotipi, risulta nettamente «contrapposto alla Rust Belt del nord, dell’est e del midwest (la “cinta arrugginita” degli stati industriali in declino)», in quanto modello di un capitalismo slegato dai lacci della burocrazia e da estendere possibilmente a tutto il paese, iper-competitivo proprio per il suo essere «paradiso antisindacale in cui emigrano tutte le grandi corporations (statunitensi, europee, giapponesi) per potervi godere l’illimitata libertà padronale, nonché esenzioni fiscali e incentivi monetari da sogno» (questa, in breve, la cosiddetta southern strategy, in evidente contrasto con le politiche maggiormente progressiste del Nord). Non a caso, già il premio Pulitzer Richard Wright, all’indomani della vittoria di Trump, aveva intravisto nel Texas peculiarità inedite e il trampolino metaforico di un mirabolante “futuro dell’America” tutta.
In Dio salvi il Texas (NR edizioni, 2019) l’autore tratteggiava infatti non senza ironia, con la consueta prosa impastata di memoir, saggio e giornalismo da vecchia scuola, i caratteri del “più controverso degli stati americani”, altrimenti chiamato Trumpland, terra di costruzione del consenso e contro narrazioni in cui il tycoon newyorkese da tempo assurto a leader politico indiscusso piantava la bandiera della propria vittoria. Qui, nel Texas raccontato da Wright, il lettore scopriva «uno stato in cui le minoranze sono già maggioranza, le città sono già liberal oltre che tra le più multiculturali degli Stati Uniti, il petrolio domina e condiziona l’economia» e, allo stesso tempo, una realtà tumultuosa fatta di controllo delle armi, Muro con il Messico, poche tasse (secondo il principio tutto americano “meno pago le tasse, più sono ricco e più posso dare”), crescita economica incontrollata ed enormi disuguaglianze – in una nazione dove un quarto della ricchezza nazionale è nelle mani di centosessantamila famiglie, dati alla mano.
Tornando al libro di D’Eramo, che del lavoro del giornalista americano può considerarsi parente stretto, nell’introduzione egli sottolinea un aspetto di questo nuovo Sud assai interessante, legato soprattutto alla psicologia profonda, alle strutture mentali e ai riflessi sociali dei suoi abitanti: «nella storia umana le guerre sono sempre raccontate dalla prospettiva dei vincitori: per restare all’ultima guerra mondiale, i soldati tedeschi e i giapponesi sono dipinti sempre in fosche e orribili tinte, mentre i militi alleati sono buoni, prodighi, o comunque molto, molto umani. Sempre dalla parte dei vincitori, tranne un caso, quella della guerra civile americana che è invece raccontata ritagliando la parte migliore, generosa e cavalleresca agli ufficiali del sud, mentre i nordisti sono dipinti come loschi e trucidi affaristi. Di questa vulgata l’esempio più memorabile è il film Via col vento. Ma questa tradizione è continuata ben oltre il 1939 (anno di uscita della pellicola) e si respira ancora nella dolciastra rievocazione, a ogni piè sospinto, del “plantation spirit”, lo spirito della piantagione di cotone il cui umanissimo padrone sarebbe prediletto dai suoi schiavi pronti a morire per lui». Una narrazione totalmente distorta verso cui le cronache dell’autore, per sua stessa ammissione, si pongono come antidoto necessario. Nondimeno la prova provata che le storie nate e cresciute dal basso, tramandandosi di generazione in generazione, ancora vive nelle relazioni intrafamiliari, sono infinitamente più potenti di qualunque racconto istituzionale, così come di ogni imposizione ex cathedra.
Specie in un paese dove la maggior parte dei cittadini ha in uggia quanto basta – per usare un eufemismo – lo Stato in tutte le sue forme e declinazioni. E allora si spiegano un po’ di più alcuni degli episodi successi in questi anni, dalla violenza delle polizie locali contro la popolazione afroamericana ai movimenti di resistenza sul modello di Black Lives Matter (si legga sulla questione razziale America bianca di Giovanni Borgognone, per approfondire: agile e significativo volumetto d’un paio di anni fa). Azioni e reazioni che hanno alle spalle un impianto fortissimo di racconti, di leggende cristallizzate nella memoria collettiva dure a morire anche al giorno d’oggi. Pertanto, se parliamo di storie, scritte o trasmesse oralmente – canale privilegiato, quest’ultimo, dal quale sono nati canti e musiche della tradizione come, ad esempio, il blues e gli spirituals -, il Sud degli Stati Uniti è, ed è sempre stato, da sempre terra d’elezione della miglior letteratura nazionale, luogo avito e approdo di scrittori del calibro di Mark Twain, John Steinbeck, William Faulkner, Flannery O’Connor, Harper Lee, Tennessee Williams e Truman Capote, per citarne solo alcuni. Campo di immaginazioni, utopie e incubi, paesaggio dove la natura dispiega la sua potenza devastatrice a scapito dell’uomo e viceversa, teatro di tutte le contraddizioni e tutte le storture possibili, che alla luce del sole diventano materiale da romanzo, oltreché arte del vivere e del sopravvivere.
Di questo, e molto altro, si occupa l’ultimo libro (in realtà anch’essa una riedizione) dello scrittore e musicista Seba Pezzani L’America di Jeffery Deaver e Joe R. Lansdale (Perrone, 2024), un percorso geografico, e insieme letterario e musicale, condotto con posa da romantico flâneur, che si apre sulla via del tabacco, nelle sterminate piantagioni del North Carolina e si chiude proprio con una chiacchierata a Nacogdoches, Texas, nella bella casa di Joe R. Lansdale, tra i più celebri scrittori di genere dell’America contemporanea (di cui tra l’altro lo stesso Pezzani è traduttore per l’Italia). In mezzo i blues e i ritmi creoli delle comunità nere del Mississippi e della Louisiana, le atmosfere dell’Alabama da Il buio oltre la siepe alle marce di Montgomery e Selma, le suggestioni rock n’roll della Memphis di Elvis Presley e il dramma del country man Hank Williams, fino agli incontri con alcune delle figure più interessanti del panorama culturale sudista come lo storico William Ferris e lo scrittore e avvocato Jeffery Deaver, autore del bestseller Il Collezionista di ossa. Seppur da un’altra prospettiva, non certo con la lente sociologica degli articoli di D’Eramo, anche il resoconto appassionato di Pezzani, tuttavia, comunica a suo modo le lacerazioni di un passato incancellabile, le tracce che di questo profondo Sud sono tanto drammatiche quanto peculiarmente motivo di fascino, nel quale «più che altrove, gli estremi si sfiorano, gli opposti si mischiano e i confini sbiadiscono».
Con la percezione di fondo che l’individuo in carne e ossa sia irreversibilmente solo al loro cospetto e, come tale, in grado di salvarsi o mollare la presa a seconda della forza di cui è capace. Viene in mente l’immagine con cui Sandro Portelli – uno che gli USA li ha amati e conosciuti come pochi in Italia – apriva il suo Taccuini americani tanti anni fa, scomodando addirittura, nella disamina dell’America allora guidata da Ronald Reagan, le assenti «auto a scontro» di Disneyland, l’ennesima metafora di un paese dove tutto è incomprensibile se lo si legge alla lettera, in quanto, a differenza dei nostri Luna Park, quelle macchinette correvano «ognuna sul suo privato, separato e sicuro binario» senza scontrarsi mai. Eccolo, dunque, il modello futuro cui ci saremmo presto conformati, il destino nostro e delle società che abitiamo oggi confusi: essere uguali ma separati. Con il compito preciso di accelerare il passaggio dal Nuovo Mondo alla desolazione dell’uomo abbandonato a sé stesso, condannandoci infine alla ferocia di una segregazione invisibile.