Nell’ultimo anno, il Consigliere alla sicurezza nazionale del Presidente Biden, Jake Sullivan, ha voluto inquadrare la politica estera dell’amministrazione Biden in una più ampia cornice ideologica e teorica. Cominciando con un discorso alla Brookings Institution – centro di ricerca importante e per tradizione vicino ai democratici – poi con un articolo su Foreign Affairs, Sullivan ha descritto una riformulazione della diplomazia economica americana. Secondo lui, gli USA hanno sostenuto la loro preminenza globale con una politica economica centrata sui loro interessi internazionali, a discapito della realtà internazionale. La politica di Washington vuole rafforzare il fronte domestico, per riunire un nuovo consenso a favore di una leadership globale, inevitabilmente costosa.
I commentatori, a caldo, hanno parlato di rivoluzione e hanno decretato la fine della globalizzazione neoliberista a guida americana. Appare probabilmente giusto suonare le campane a morto per il paradigma neoliberale così come l’abbiamo conosciuto. La riformulazione dell’amministrazione democratica segna probabilmente l’inizio di una transizione verso un modello ancora da definirsi, il cui bisogno si faceva sentire ormai da qualche tempo. A conferma di questo, sta il fatto che la svolta incarnata da Sullivan è più vicina di quanto molti vogliano ammettere al programma di Trump, e che entrambi intercettano una richiesta di ricalibratura dell’elettorato.
Tuttavia, è giusto chiedersi se questa sia veramente la rivoluzione copernicana che molti hanno sottolineato. Un modo per rispondere a questa domanda è ricollocare l’attuale cambio di passo in una prospettiva di lungo periodo. La mossa incarnata da Sullivan è solo l’ultimo di una serie di adattamenti che il governo americano ha operato per massimizzare la propria egemonia. Questa successione di svolte apparentemente epocali si inseriscono nell’inesorabile continua dialettica tra gli obiettivi strategici insiti nella traiettoria geopolitica, e le esigenze tattiche più immediate legate al bisogno di consenso di ogni leadership politica.
Si può suddividere la storia di questo dialogo in tre fasi principali. La prima inizia con l’affermazione del ruolo degli Stati Uniti dopo la Seconda guerra mondiale. Di fronte alla necessità di ricostruire il sistema economico internazionale, alla Conferenza di Bretton Woods si sono istituzionalizzate due direttive principali. Da un lato, l’America ha rotto con il protezionismo e ha abbracciato il libero scambio per sostenere la sua proiezione internazionale con il commercio. D’altro contro, il laissez-faire degli anni Venti e Trenta aveva portato alla grande depressione. Si decise quindi di mettere in pratica il modello promosso da John M. Keynes che consentisse l’intervento dello Stato per ovviare a fallimenti del mercato e, soprattutto, di contrazione economica. Su queste basi si legittimava lo Stato quale importante attore economico e la creazione di un generoso stato sociale, soluzione appropriata per la pacificazione delle società dei paesi industriali e rafforzare la credibilità del modello di sviluppo occidentale all’alba della guerra fredda.
La cosiddetta fase Keynesiana durò di fatto poco meno di un trentennio, fino ad entrare in affanno nella prima metà degli anni 1970. La crisi di quegli anni fu complessa e multidimensionale, ma ebbe manifestazioni marcatamente economiche, con inevitabili ricadute politiche e sociali. Le cause si possono riassumere in un tradimento dei precetti dell’economista britannico. In tutto l’occidente, la leva pubblica non fu soltanto uno strumento per ovviare a mancanze del mercato o a rallentamenti dell’economia, ma venne abusata e divenne uno strumento di creazione del consenso per i governi di allora, sia in Stati Uniti che in Europa. Queste politiche causarono profondi squilibri macroeconomici internazionali che si manifestarono poi con la stagflazione, un connubio inflazione e recessione. L’incapacità o, forse meglio, la mancanza di volontà dei governi di allora di affrontare le criticità accumulate tolsero credibilità credibilità al modello Keynesiano e resero necessaria una nuova cornice teorica – anzi ideologica – che governasse la politica economica del mondo capitalista, legittimando un raffreddamento dell’economia politicamente e socialmente molto costoso.
A cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta, gli Stati Uniti si trasformarono gattopardescamente per rafforzarsi – meno in profondità di quanto si crede e anche al prezzo di un aggiustamento doloroso – e poter così preservare la loro preminenza globale. Il neoliberismo funse da ideologia legittimante, una narrazione che identifica lo Stato come ultimo ostacolo al raggiungimento della prosperità individuale. Fece buon gioco agli USA, sia sul piano interno che internazionale. Dal punto di vista interno, la nuova ideologia, con aspirazioni dogmatiche, bene si sposava con una certa tradizione culturale dell’America profonda che guarda con sfiducia alla cosa pubblica, e fu incarnata con successo dalla politica, primo fra tutti, da Ronald Reagan. L’attacco al welfare, coniugato con la stretta monetaria del capo della Fed Paul Volcker, ebbe il merito di raffreddare la surriscaldata macchina americana, al prezzo di una profonda recessione, in cui fu trascinato gran parte del mondo. Le liberalizzazioni e i tagli alle tasse ebbero certo il merito di infondere dinamismo all’economia, portando al boom degli anni Ottanta. Tali politiche hanno anche liberato risorse per un vertiginoso aumento della spesa pubblica in ambito militare. Qui si cela una delle principali contraddizioni dell’esperienza reaganiana. L’espansione economica di quegli anni fu dopata dall’incremento del deficit di bilancio e dalla trasformazione del ruolo dello Stato (in quegli periodo si gettarono le basi per far diventare il ministero della difesa USA il primo datore di lavoro del pianeta).
Il boom degli anni Ottanta fu sicuramente utile nel costruire una narrazione centrata sulla santa trinità dei nuovi dogmi: tassazione ridotta, spesa contenuta, e deregolamentazione. Il trionfo di questo storytelling fu essenziale nell’espansione dei suoi precetti oltre i confini americani. Negli stessi anni, un gran numero di paesi in via di sviluppo e di paesi dell’Est dovettero far fronte a ripetute crisi per eccessivo indebitamento. L’apparente successo dell’esperimento neoliberale americano, attraverso cui si vinse l’inflazione e ristabilì la crescita, venne usato per imporre politiche di austerità ai paesi in difficoltà. Questo processo di espansione dei precetti del turbocapitalismo non avvenne per convinzione ideologica, ma perché gli effetti di quelle politiche erano funzionali agli interessi occidentali. Per quanto riguarda i Paesi indebitati del blocco sovietico, i costi sociali dell’austerità logorarono il consenso dei regimi, accelerando i meccanismi che avrebbero portato al 1989. Per quanto riguarda la crisi del debito del terzo mondo, le ricette della nuova ortodossia avrebbero risolto l’eccessivo indebitamento senza però consentire a una riforma del sistema economico internazionale a ingenti trasferimenti dai paesi industriali verso il Sud del mondo, come richiesto sin dagli anni Settanta.
Gli anni Novanta e Duemila sono l’epoca d’oro del nuovo paradigma, apparente unico vincitore della guerra fredda. La nuova ortodossia, istituzionalizzata nel «Washington Consensus», pervase senza ostacoli realtà lontane da Washington, in modo spesso strumentale più che inevitabile. Per fare un esempio, malgrado la convinta adesione alle nuove teorie di molti responsabili economici, la politica italiana operò una «svolta» neoliberista incompiuta, anche qui, non per convinzione ideologica, dato che sussisteva un margine di manovra, ma per scelta pragmatica, con lo scopo di «fare cassa» e non perdere il carro dell’integrazione europea. Scelta probabilmente giusta, che fu resa possibile, in Italia come altrove, dalla piena e convinta conversione della sinistra alla nuova religione economica. Da Clinton a Jospin, da Schröder a D’Alema portarono a compimento un procedimento graduale che era già cominciato negli anni precedenti, rompendo definitivamente con la tradizione statalista delle loro famiglie politiche. Basti ricordare che in Italia, furono i governi di centrosinistra a portare a compimento le privatizzazioni.
In molti credettero che si fosse trovata la soluzione di tutti i mali e che la storia fosse finita, avendo le società occidentali raggiunto lo stadio ultimo di sviluppo. Ma non era così. La crisi del 2008 e i suoi lunghi strascichi ruppero tutti gli equilibri che si erano venuti a creare. Le disuguaglianze e la deindustrializzazione delegittimarono l’intero sistema economico occidentale e la politica non fu in grado di uscire dagli schemi a cui si era ancorata, ne di apportare risposte ai problemi correnti. Questo accadde più o meno ovunque, ma soprattutto negli Stati Uniti, con il fallimento della presidenza Obama. L’amministrazione democratica rispose timidamente alla crisi economica, senza allontanarsi troppo dall’ortodossia. I numeri le diedero ragione visto che gli USA furono il primo paese a tornare alla crescita, con forza. Ma ampie fette della popolazione, non riuscirono ad agganciare la nuova espansione.
La narrazione neoliberale si era inceppata, e l’elezione di Trump ne fu la più plateale manifestazione. Gli americani chiedevano ricette nuove. I democratici lo hanno capito e, in continuità con Trump, stanno cercando di costruire nuove risposte. I contorni del nascendo modello non sono ancora chiari, ma le spinte contrarie al laissez-faire sono molte, come lo ha dimostrato l’amministrazione Biden con l’aumento vertiginoso dei sussidi a privati e imprese e una politica commerciale molto più aggressiva. L’obiettivo è chiaro, costruire una narrazione nuova che legittimi un sistema economico internazionale riformato, e che possibilmente sostenga l’egemonia americana.