Una visita di congedo al Quirinale, un saluto premuroso al personale d’ambasciata, un po’ di italiano dall’accento americano: così l’ambasciatore statunitense Eisenberg si è congedato da Palazzo Margherita, in Via Veneto. Giunge una nuova amministrazione a Washington e con lei una nuova strategia sullo scacchiere internazionale. Nuova, ma mai nuovissima, in quanto di veramente nuovo c’è solo ciò che è più antico mentre quanto afferma Antony Blinken, il nuovo Segretario di stato americano in forza all’amministrazione Biden nel discorso intrattenuto al senato in occasione della sua nomina, ci sembra l’eco dei discorsi di cinque anni fa. Il “falco democratico” è passato subito all’attacco di Cina e Russia, senza tralasciare minacce anche per l’Europa, figliol prodigo che fa accordi commerciali con Pechino, e per Berlino, se dovesse continuare con il progetto del gasdotto Nord Stream 2. Sostenitore dei raid contro Gheddafi e dell’intervento militare contro Assad, da autentico liberale interventista, ha lasciato intendere una politica estera pressante per gli alleati in un’ottica squisitamente anticinese. Con queste premesse, anche Roma attende un nuovo ambasciatore americano e con esso alcune avvisaglie su un eventuale riposizionamento.
Il mese scorso, a poca distanza dall’inaugurazione di Biden, l’Unione Europea firmava con la Cina un nuovo accordo per gli investimenti. I termini dell’accordo non sono ancora noti ma l’intenzione fra le righe è chiara: approfondire le relazioni commerciali innalzandone i principi per una maggior tutela del lavoro, dell’ambiente, e della qualità dei prodotti di scambio. L’Europa sta, dunque, perseguendo quel ruolo globale di “superpotenza regolatrice” (cosiddetto “Brussels Effect”) che si è ritagliata per sé, esportando e difendendo i suoi valori tramite la sua imponenza economica. Quattro anni di bastone e carota di Trump hanno spinto gli animi europei verso una strategia autonoma che non ammette più di “consultare” gli Stati Uniti prima di sottoscrivere un così importante accordo, come il consigliere per la sicurezza nazionale di Biden, Jake Sullivan, sembra richiedere. Il problema di Biden appare dunque abbastanza evidente: il continente per cui hanno lottato in due guerre mondiali, e per 75 anni dalla fine dell’ultima, conclude accordi commerciali con il suo maggior rivale. Per di più alle sue spalle, senza chiedere il permesso. L’Italia, per gli Stati Uniti, è in questo momento una torre di controllo decisiva sul Vecchio Continente.
E Roma rappresenta una posizione di peso nella strategia dei giochi, e il nuovo inquilino della Casa Bianca vuole abbandonare la politica di distacco dall’Europa dell’amministrazione precedente e riappropriarsi della sfera di influenza che reclama. Negli Stati Uniti, l’ambasciatore è nominato direttamente dal Presidente in carica. La nomina deve poi esser confermata dal Senato. Questi può essere rimosso in qualunque momento in quanto “serve a piacere del presidente” (“serve at the pleasure of the President”). Secondo l’American Foreign Service Association negli ultimi anni un 30% degli ambasciatori sono state nomine politiche mentre il restante 70% provenivano da una carriera diplomatica. Anche se molte nomine sono fatte per adeguatezza e capacità, esiste una discutibile quanto lunga tradizione di nomine ad ambasciatore dovute alle grandi donazioni per la campagna elettorale. In una registrazione del 1971, rilasciata decenni dopo come parte delle “Nixon Tapes”, registrazioni di conversazioni tra il Presidente USA e funzionari della sua amministrazione, il Presidente Richard M. Nixon avrebbe detto ad un capo dello staff della Casa Bianca che “anybody who wants to be an ambassador must at least give $250,000.”
Si è parlato di Anthony Luzzatto Gardner come uno dei nomi possibili. Classe 1963, nominato da Obama ambasciatore degli Stati Uniti presso l’Unione Europea dal 2014 al 2017, in un discorso al Senato nel 2013 affermò come uno dei suoi più importanti obbiettivi sarebbe stato quello di aiutare a concludere un ambizioso trattato transatlantico per il commercio e gli investimenti, ergo TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership per chi lo avesse scordato). Figlio di un precedente inquilino di Palazzo Margherita per conto del Presidente americano Carter, è cresciuto nel Bel Paese e parla bene l’italiano. Tuttavia, più insistentemente in questi ultimi giorni, Doug Hickey ha fatto parlare di sé. Cattolico, laureato al Siena College, l’università dei francescani a nord di New York, è un imprenditore tecnologico che conosce il fatto suo e nella Silicon Valley si dimena tra incarichi di amministratore delegato e presidente. Membro del consiglio di amministrazione di RFK Human Rights dal 2018, ha anche fatto parte dei consigli di amministrazione di Illy Caffe, Plug Power e Siena College. In precedenza, ha lavorato come Managing Partner di Hummer Winblad Venture Partners, una delle principali società di venture capital della Silicon Valley, per più di 10 anni. Prima di Hummer Winblad, Hickey è stato CEO di Critical Path, un fornitore leader di servizi di messaggistica per aziende di tutto il mondo. Hickey è stato pure presidente e amministratore delegato del Global Center, uno dei primi e più grandi fornitori di hosting web avanzato e distribuzione di contenuti su Internet. Dopo aver venduto Global Center a Frontier Communications nel 1998, è stato nominato presidente di Frontier Global Center e vicepresidente esecutivo di Frontier Communications Corporation. Hickey è stato anche presidente e amministratore delegato di MFS DataNet, uno dei maggiori fornitori di fibra ottica per le aziende globali. Nel settore pubblico è stato co-presidente delle finanze della California settentrionale per la campagna presidenziale del Segretario John Kerry. È stato anche membro del National Finance Committee per le campagne del presidente Obama nel 2008 e nel 2012, nonché co-presidente del California Finance Committee. Attualmente è membro del National Finance Committee per la campagna presidenziale di Joe Biden ed è uno dei fondatori di Innovators for Biden, nonché uno dei suoi principali finanziatori. Fu inviato come ambasciatore presso il Padiglione USA dell’Expo di Milano 2015 dal Presidente Obama.
Due figure calzanti nel contesto italiano, presenti nelle dinamiche europee o in quelle italiane, cattolici o mediatori, imprenditori o promotori di partenariati; cosa li accomuna? Sono due personalità che in qualche modo possono perseguire lo stesso obiettivo: arginare l’influenza cinese in Italia. Conoscono i rapporti commerciali e il futuro delle imprese, sanno dialogare, sanno imporsi e sanno decidere. Requisiti indispensabili per perseguire gli obbiettivi: impedire, ostacolare e, se indispensabile, troncare una maggior adesione di Roma alla nuova Via della Seta. La scelta di Hickey sarebbe una scelta di campo tecnologico. Del resto con l’insediamento della nuova amministrazione, è stato appena firmato un documento da ben 15 personalità, tra consulenti politici ed esponenti dei colossi tecnologici, che si intitola “Asymmetric competition: a strategy for China & technology” e vuole affrontare la sfida alla superiorità tecnologica americana lanciata dalla Cina. Tale superiorità è assunta come indispensabile al mantenimento di una superiorità economica e militare, senza la quale il modello democratico di vita americano verrebbe soppiantato.
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