Il senso di Helsinki per la guerra

I rumori ovattati dalle distese innevate non allontanano i pericoli incombenti di un rinnovato conflitto. Epigoni dei combattenti degli anni Quaranta, i finlandesi si preparano al peggio e, prima che il sole sorga, si accingono a difendere per l’ennesima volta la loro terra dal nemico di sempre, la Russia.

Rodrigo Duterte e l’ombra lunga della sua guerra

Le carceri nelle Filippine sono al collasso. Con il suo insediamento presidenziale nel 2016, Rodrigo Duterte ha dato il via ad una vera e propria persecuzione contro trafficanti e consumatori di droga. Al termine del suo mandato nel 2022, sono state confermate le morti durante operazioni antidroga di più di seimila persone, nonché l’arresto di circa 165.000 sospettati. Terzo Stato al mondo per sovraffollamento delle carceri, le Filippine si trovano di fronte ad un problema che rischia di mandare in tilt il sistema giudiziario e di macchiare l’immagine del paese a livello internazionale.

Stato e Impero tra Ankara, Gerusalemme e Teheran

Il Medio Oriente vive in una eterna aurora geopolitica sempre di là da mostrarsi compiutamente, radicata e stabile in un punto di fuga transitorio. In questo luogo ciò che non ha paura di mostrarsi è la Potenza e i suoi disegni, le sue violente linee di confine attraverso, e in cui, gli Stati lottano tra di loro e contro loro stessi, in un equilibrio costante tra due diverse concezioni di natura e di politica, tra la forma di un ordine statale e la sostanza di uno imperiale.

Missili supersonici in giardino

Con la recente implementazione dell’arsenale di missili supersonici da parte di Taiwan, gli USA cercano di far ingolfare la superpotenza asiatica in un conflitto regionale per minarne l’affermazione sempre più evidente sul piano internazionale. Ripetendo la mossa strategica della guerra russo-ucraina il Pentagono mira al divide et impera nello scacchiere geopolitico per paralizzare i suoi avversari egemonici in confronti militari.

L'editoriale

di Sebastiano Caputo

L’automazione della politica

La tecnologia, nell’arena politica, è la continuazione della guerra con altri mezzi. E il suo utilizzo, ai fini di sconfiggere un nemico politico o ancora, di rovesciare lo status quo, rischia di diventare una delle armi più potenti di sempre in mano agli esseri umani. Ad unire tre dei grandi pensatori del nostro tempo – lo storico israeliano Yuval Noah Harari, il filosofo sudcoreano naturalizzato tedesco Byung-chul Han e lo scrittore francese Michel Houellebecq – è proprio la capacità di mettere in guardia le nuove generazioni riguardo la mutazione cognitiva in corso, che è strettamente legata al complesso rapporto tra informazione, potere burocratizzato e progresso tecnologico. In questo modo esse vengono invitate a proteggere l’intelligenza, nonché l’esperienza umana - intrisa di dolore, sangue, merda, amore, connessioni, senso di appartenenza, ricerca di spiritualità e libertà di pensiero – di fronte alla violenza simbolica dei dispositivi di sorveglianza. Dai social media agli smartphone: dispositivi contenenti dati che, se finiscono nelle mani sbagliate, risultano compromettenti perché cancellano prima di tutto le sfumature e le complessità della vita.   Macchine che diventano macchinazioni, appunto. Con la “persecuzione tecnologica” ad uso e consumo giornalistico-giudiziario, se si tratta di colpire soggetti istituzionali o intere classi dirigenti, attraverso chat, forum privati o ancora e-mail e registrazioni vocali appartenenti al passato o al presente. Di questo passo infatti il processo di automazione in alcuni settori, dagli avvocati agli autisti, dai medici ai magazzinieri, andrà a colpire persino la politica. E non per ragioni di produttività, bensì per sfiducia della gente comune o delle grandi personalità della società civile nello scegliere la politica come professione. Con il rischio che la pervasività tecnologica nella vita privata, all’improvviso, possa trasformarsi in un incubo di dominio pubblico dettato dai tempi della strumentalizzazione. Delle due, l’una. O le classi dirigenti di domani saranno donne o uomini-macchina senza storia, senza passato, senza connessioni, senza identità, senza sessualità; oppure, nella società trasparente, i partiti politici si trasformeranno in vere e proprie società segrete per sfuggire alla società della sorveglianza (che Houellebecq invece definisce “neopuritana, igienista ed esangue”) e che, nelle parole di Shoshana Zuboff, prospera a spese della natura umana minacciando di distruggerla, esattamente come la società industriale ha prosperato a spese della natura e ora minaccia di distruggere la terra. Per ottenere dunque una segretezza che sia degna di questo nome,  i membri si preoccuperanno attivamente di proteggere tutto ciò riguarda la società stessa, anche a costo di inventare nuovi codici cifrati, crittografati, linguistici o alfabetici per comunicare. Del resto, come scriveva il filosofo tedesco Georg Simmel: “L’interazione umana è condizionata dalla capacità di parlare, ma modellata dalla capacità di tacere”. Se è vero che l’informazione è potere, è ancor più vero, in un’epoca digitale e infocratica, che il silenzio resta la più avanzata e alta forma di comunicazione per la conquista del potere. In altre parole, se l’utilizzatore finale delle meraviglie odierne ha la capacità di fare cose straordinarie, specie se paragonate con quelle di appena una quindicina di anni fa, di quanto sono mutate le possibilità del potere centralizzato? Questa soggiaciente paranoia è il vero motore dietro la volontà di formare entità nascoste dal visibile. Il cui scopo ultimo non è sovvertire o cospirare, ma semplicemente quello di proteggere i suoi membri. E magari, in tal senso, arrivando a concepire un linguaggio nuovo, riferimenti unici e di valore solo per pochi, al riparo dalla macchina dell’uniformazione. Tanto mostruosa, quanto efficiente.
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Interviste

a cura di Alessandro Iurato

«Rifarei tutto così come l’ho fatto, non mi pento delle mie scelte». Intervista a John Kiriakou, un tempo talentuoso agente della CIA, oggi è attivista e denuncia gli abusi del governo e dell’intelligence USA

Le agenzie americane dedite alla sicurezza nazionale sono una delle maggiori forze politiche al mondo. Per quanto siano segrete però le loro tecniche e missioni spesso vengono a galla, grazie ai racconti dei loro agenti. In Italia non se ne sente sostanzialmente parlare – male, malissimo. Oggi intervistiamo uno dei più importanti whistleblowers americani.  John Kiriakou è stato prima analista e poi agente di collegamento della CIA, dal 1990 al 2004, impegnato nella sconfitta del terrorismo rosso in Grecia e poi capo delle operazioni antiterroristiche nel Pakistan infestato di jihadisti. Uscito dalla CIA ha informato l’opinione pubblica americana sulla tortura praticata senza limiti negli interrogatori ai membri di Al Qaeda, tra cui Abu Zabaydah, arrestato nel 2002 dallo stesso Kiriakou. Il governo americano lo ha perciò perseguitato ed incarcerato.  -Ci racconti il mestiere dell’analista alla CIA, quando negli anni Novanta si occupava di Medio Oriente e Iraq in particolare.  La funzione dell’Agenzia era quella di scovare segreti e fornire informazioni alla leadership statunitense. Uso il passato, perché oggi la CIA è un’organizzazione paramilitare. L’analista doveva raccogliere ed elaborare tutti i dati e le voci che poteva lui stesso trovare, e che venivano forniti dagli agenti dislocati all’estero. I contenuti dei rapporti mandati dagli agenti erano classificati in base all’importanza ed al destinatario: le notizie più delicate passavano prima per le scrivanie dei vertici, e magari ci rimanevano, mentre agli analisti erano dedicate informazioni di livello più basso. Il nostro era un lavoro di redazione e di persuasione all’interno dell’Agenzia.  Quest’ultimo punto va sottolineato. Per l’analista persuadere significava tendere inevitabilmente alla costruzione di narrative. Quindi, finiva per male interpretare le informazioni che riceveva e indossare i paraocchi per proteggere una storia costruita per mesi. Se poi si inseriscono nell’equazione le necessarie accortezze politiche, i fallimenti dell’intelligence erano frequenti e non possono sorprendere: alla CIA non riuscimmo a prevedere la caduta dell’URSS o chi avrebbe succeduto l’Ayatollah Khomeini. Un mio collega era stra-convinto che Saddam Hussein avrebbe invaso solo settori di frontiera del Kuwait, allo scopo di prendere dei pozzi petroliferi; portò avanti questa storia perfino quando l’intero esercito iraqeno era stato mobilitato al confine. Con quell’errore la sua carriera fu compromessa.  -Dopo anni da analista lei decise di diventare ufficiale di collegamento. Nel 1999 fu mandato in Grecia, dove la missione principale era sgominare il terrorismo rosso.  Gruppi terroristici di ispirazione marxista piagavano la Grecia da molto. In particolare sceglievano come obiettivi persone come me – agenti dei servizi e personale d’ambasciata degli Stati Uniti e della Gran Bretagna. Il primo assassinio compiuto dal gruppo più pericoloso, l’Organizzazione 17 Novembre, fu nel 1975 e costò la vita a Richard Welch, CIA Chief of Operations ad Atene; ci furono due tentati omicidi nei miei confronti, e mentre ero in Grecia fu assassinato Stephan Saunders, inviato militare dell’ambasciata britannica.  I Greek files nel quartiere generale della CIA erano un incubo: montagne di carta che non conducevano a niente. L’Organizzazione era straordinariamente brava a non lasciare tracce utili alle investigazioni, aveva una struttura amorfa e faceva uso di moltissimi fiancheggiatori. Era impossibile infiltrarci. Cercammo di seguire gli espulsi per eccessivo fervore o violenza dal Partito Comunista, possibili leve dei terroristi, ma nulla: assieme alle autorità greche brancolavamo nel buio. Alla fine il gruppo fu sgominato nel giugno 2002 per caso: un membro della cerchia interna, convinto di stare per morire dopo un incidente con una bomba, vuotò il sacco. Erano sostanzialmente solo cinque persone, oramai in là con l’età.  Roma, Gennaio 2025. XXIII Martedì di Dissipatio -Da italiano sono colpito dalle date. In Italia un simile fenomeno terroristico si era sostanzialmente esaurito a metà anni Ottanta, e per quella data le forze dell’ordine italiane sembravano perlopiù in controllo.  La diversa longevità risiede in una serie di fattori. Intanto, in Europa Occidentale ci fu cooperazione poliziesca, dai tedeschi a caccia della RAF agli italiani; ciò mancò nel caso greco. Poi, il Partito Comunista greco non era stato reinserito nella vita politica democratica come quello italiano. Aveva tratti di semi-clandestinità, e la Grecia atlantista degli anni Sessanta era nata da una guerra civile dove i comunisti erano stati sconfitti. L’ultimo episodio repressivo nei confronti dei comunisti greci, e in verità diretto all’intera società greca, era stato quello dei Colonnelli, dal 1967 al 1974. Il vero punto cruciale era comunque l’omertà e la collaborazione silenziosa della popolazione greca, ancora scottata dalle ingiustizie subite. In Italia la principale reazione al terrorismo fu di repulsione e paura; gruppi come le BR convinsero solo pochi fanatici che l’edificio statale potesse crollare, sfiduciato dalla popolazione. Il terrorismo greco invece aveva origine in una dittatura che mancava di supporto popolare e aveva lasciato molti greci desiderosi di rivalsa. La popolazione tollerava il terrorismo rivolto ai macellai del regime e agli anglosassoni, reputati responsabili per l’incubo dei sette anni.  -E gli Stati Uniti erano effettivamente responsabili per il golpe.  Sì, ma non la CIA. Lo stato americano era già, e ancora più oggi è composto da molte agenzie potenti, spesso in competizione l’una con l’altra. Si finiscono per fare cose nonostante la forte opposizione di parte dell’apparato. Headquarters era contraria ad un colpo di stato in Grecia. All’epoca Gust Avrakotos, leggendario agente dell’Agenzia in Grecia, disprezzava profondamente i Colonnelli, i quali tra l’altro gli mentirono sulle loro intenzioni poche ore prima del colpo di stato. Furono Casa Bianca e Dipartimento di Stato, spinti personalmente dal Presidente Johnson, a sostenere il golpe a danno di un paese stabilmente alleato agli Stati Uniti.  -Se la sfiducia nei confronti dello stato motivò il terrorismo greco dopo il 1974, come mai non risorse dopo il tremendo colpo inferto dalla crisi del 2007 – 2015? Perché era crollato una sorta di schema piramidale dal quale tutti ricevevano i benefici. Negli anni Ottanta Andreas Papandreou governò con la forma più disfunzionale di socialismo keynesiano, e il patto sociale greco non mutò troppo dopo l’entrata nell’Euro. Il paese viveva al di sopra delle proprie possibilità, e quindi i greci non poterono ritenersi innocenti quando il castello di carte crollò con le rivelazioni sulla manipolazione dei conti pubblici. Non era presente quella rabbia nei confronti di un gruppo di banditi e torturatori, che avesse agito contro il volere di gran parte dei cittadini.  -Domanda forse banale: come mai il terrorismo è così importante? Che fosse dopo l’11 settembre, o dopo l’attentato alla stazione di Bologna, il terrorismo catalizza enormi quantità di attenzioni e narrative – per poi alla fine scoprire che i terroristi erano solo un manipolo di persone, nani in confronto a colossi come la CIA.  Il problema del terrorismo è che è una grande X. Dal punto di vista di una agenzia di sicurezza bisogna presumere che si stia vedendo solo la punta dell’iceberg e che il disordine possa diffondersi come un incendio boschivo. Bisogna intervenire con piena forza per comprendere il fenomeno e immediatamente distruggerlo. Alla CIA e in tutta Europa si temeva che i terroristi greci fossero connessi con gruppi quali la RAF tedesca, insomma che potessero essere parte di un network internazionale. Oppure, quando Al Qaeda compì uno dei suoi primi attentati diretti agli Stati Uniti (una bomba a Riyadh che uccise soldati americani nel 1995), in sostanza non avevamo idea di chi fossero questi. Dopo gli attentati dell’11 settembre il Congresso sommerse di denaro le agenzie di sicurezza e gli diede poteri speciali, allo scopo già solo di capire cosa fosse accaduto. L’intera CIA, me compreso, mollò quello che stava facendo per riparare al suo fallimento di intelligence. E alla fine si scoprì che Al Qaeda era molto più piccola e debole del previsto, solo una particella nell’ecosistema jihadista.  -Le è mai capitato di collaborare con colleghi italiani?  Sì, soprattutto dopo l’11 settembre. Il mondo dei servizi fu sconvolto, e gli alleati degli Stati Uniti si mossero in aiuto. Alla CIA si aprì una politica di completa collaborazione con gli alleati. Una settimana dopo gli attentati ero ancora impegnato sul fronte greco, e mi diressi da Cofer Black, direttore del Centro Antiterrorismo e all’epoca dotato di poteri straordinari. Volevo interrogare dei greci emigrati in Italia per scoprire qualcosa sui membri del Gruppo 17 Novembre. Dato il budget virtualmente illimitato e la fiducia nei miei confronti, Black mi mandò senza fare troppe domande. La disponibilità da parte italiana fu completa, e intervistai i nonnetti greci che cercavo. Purtroppo la pista si rivelò infruttuosa.  -Lei si racconta da ex-agente della CIA. Per quanto scriva e parli con orgoglio dei propri successi da spia, la sua posizione attuale nei confronti dell’Agenzia e dell’intero mondo di Washington è molto negativa.  Ero convintissimo di star servendo il paese, di star facendo la cosa giusta. Ho poi assistito dall’interno alla nascita dell’Enhanced Interrogation Program, ovvero all’ingresso ufficiale e legalizzato della tortura nelle pratiche della CIA e della DIA, a partire dal 2002. Nacque a causa della presenza di persone di scarsa levatura morale in posizioni chiave (José Rodriguez o Dick Cheney), ma anche dalla carta bianca che ha caratterizzato il periodo della guerra al terrorismo: le normative sulla sicurezza divennero oggetti mistici con i quali violare ogni altro principio dell’ordinamento interno e internazionale. Io mi rifiutai di partecipare al programma, e successivamente decisi di agire per fermare la pratica. Tutti i sentieri di auditing istituzionale erano impraticabili, e quindi scelsi la stampa. Ne ho pagato le conseguenze. La mia vita è diventata un inferno: sono stato perseguitato dall’FBI, che cercava di costruire reati per mandarmi in prigione. Ho passato quasi due anni in cella, dal febbraio 2013, per aver passato informazioni alla stampa sotto l’Intelligence Identities Protection Act. Fui processato da principio come colpevole, non avevo speranza di evadere l’Eastern District of Virginia. Questo era il trattamento riservato ai whistleblower sotto l’amministrazione Obama. Oggi sono un attivista e giornalista, mi guadagno da vivere facendo sapere al mondo cosa ho visto e cosa mi sia accaduto.
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Interviste

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«Rifarei tutto così come l’ho fatto, non mi pento delle mie scelte». Intervista a John Kiriakou, un tempo talentuoso agente della CIA, oggi è attivista e denuncia gli abusi del governo e dell’intelligence USA

«Oltre alla CIA erano proprio le alte gerarchie militari le più contrarie alla gita in Iraq del 2001. Mi ricordo lo sgomento generale da parte di quasi tutti gli addetti ai lavori. Si sentivano poi follie su una possibile invasione dell’Iran… Avevano deciso pochi potenti, e non potevamo fare altro.»
«Rifarei tutto così come l’ho fatto, non mi pento delle mie scelte». Intervista a John Kiriakou, un tempo talentuoso agente della CIA, oggi è attivista e denuncia gli abusi del governo e dell’intelligence USA

«Il vero Mostro di Firenze, se non è morto, è ancora in libertà». Un caso da riaprire secondo Pino Rinaldi

«Il libro nasce dalla volontà di raccontare e dare voce a quello che fu il lavoro svolto dal generale Nunziato Torrisi, che seguì il caso insieme a Mario Rotella dal 1983, in qualità di tenente colonnello del Nucleo Operativo dei Carabinieri di Firenze. Torrisi partecipò al caso perseguendo quella che viene comunamente chiamata la "pista sarda" e - negli anni che passò a Firenze - raccolse indizi, prove e testimonianze che poi riportò nel suo "Rapporto Torrisi". Un documento di 173 pagine che racconta una storia ben diversa da quella comunemente accettata.»
«Il vero Mostro di Firenze, se non è morto, è ancora in libertà». Un caso da riaprire secondo Pino Rinaldi

«Lasciando lavorare gli scienziati si può giungere a una rivoluzione storica». Iskren Vankov, la voce delle startup che lavorano alla fusione nucleare

«ENI sta effettuando investimenti significativi, sia attraverso Commonwealth Fusion Systems che nel progetto ITER, focalizzandosi su un modello basato su grandi impianti centralizzati, che si differenzia dai nostri approcci. Le istituzioni pubbliche hanno iniziato a riaprire il dibattito sul nucleare, con particolare attenzione alla fissione tramite i reattori modulari di piccole dimensioni (Small Modular Reactors). Tuttavia, la fusione è stata inclusa nei più recenti documenti di pianificazione energetica, sebbene con prospettive orientate sul lungo periodo.»
«Lasciando lavorare gli scienziati si può giungere a una rivoluzione storica». Iskren Vankov, la voce delle startup che lavorano alla fusione nucleare

«L’assenza di canali di dialogo politico aggrava le incomprensioni fra l’Iran e il resto del mondo». L’ex Ambasciatore a Teheran Mauro Conciatori sulle mosse iraniane

«Oggi per l’Iran il quadro di deterrenza è stravolto. Con l’arco territoriale dell’asse di resistenza spezzato in più punti, Teheran non può più alimentare una seria minaccia militare ai confini di Israele. Quanto alla dotazione missilistica, il 26 ottobre scorso ha subito un pesante bombardamento di Israele, che sostiene di aver significativamente danneggiato sia lo stock esistente, sia le capacità di reintegrarlo, sia quelle di produrre il carburante necessario ad alimentarlo. Teheran smentisce, ma certo è che una rappresaglia a questa incursione non l’ha ancora azzardata.»
«L’assenza di canali di dialogo politico aggrava le incomprensioni fra l’Iran e il resto del mondo». L’ex Ambasciatore a Teheran Mauro Conciatori sulle mosse iraniane

«Egli viene da una corrente ideale che ha creduto nella missione della Romania come mediatrice tra Occidente e Oriente». Maurizio Stefanini sulla vita di Vintilă Horia

«È la storia di un esule romeno, di un grande scrittore perseguitato dal totalitarismo comunista, che dopo aver scritto uno dei suoi libri più importanti e decisivi (simbolo della sua dissidenza intellettuale e politica) viene colpito da uno spregevole processo mediatico di disinformazione la cui regia è affidata alla Securitate. Un processo di disinformazione (nelle sue logiche ancora molto attuale) che lo portò ad un progressivo isolamento intellettuale e alla rinuncia di Horia e alla mancata consegna del Premio Goncourt.»
«Egli viene da una corrente ideale che ha creduto nella missione della Romania come mediatrice tra Occidente e Oriente». Maurizio Stefanini sulla vita di Vintilă Horia

Confessioni

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Le due vocazioni di Corrado Calabrò

«Non è una conciliazione la mia, è una coesistenza. Convivo da sempre con il mio doppio. È come se i miei emisferi celebrali avessero un funzionamento alternato: uno è teso alla razionalità organizzativa e dimostrativa, l’altro fa affiorare dal profondo (anche dall’inconscio) emozioni, percezioni che ci erano sfuggite. Il diritto è impegno intellettuale e civile, ma “la letteratura, l’arte sono la confessione che la vita non ci basta” - ha scritto Pessoa.»
Le due vocazioni di Corrado Calabrò

Le Grandi firme

di Enrico Raugi

La tattica del cane pazzo non pagherà

Nel XVII secolo, sull’Europa spazzata dalle guerre di religione, germinò la pianta dello Stato moderno. Esso può dirsi ontologicamente tale quando in possesso, fra altre peculiari caratteristiche, anche del monopolio legittimo della violenza. Il potere di conservazione dell’ordine sociale e legale, infatti, non può essere scomposto e conteso da famiglie nobili titolari di eserciti personali impiegati a difesa di feudi, né da mercenari acquartierati in una città; da quel momento le dispute private non potranno più risolversi con i duelli, e i moti di repubbliche secessioniste saranno sopiti col drenaggio di maggiori risorse economiche. Questo potere si è nel tempo scisso lungo due direttrici spaziali: interna, attraverso la creazione di una forza di polizia che, rispettando le norme giuridiche, mantenga l’ordine a livello locale; dall’altra, esterna, in un esercito nazionale, di coscritti appartenenti allo stato-nazione, legittimato ad utilizzare la forza per la difesa dalle minacce esogene. Episodi storici che rendono l’idea del monopolio legittimo della forza da parte dello Stato non mancano. Lo stesso Garibaldi fu vittima illustre. Nel 1862, il Generale, nel tentativo di riconquistare la città di Roma - ancora sotto l’egida del potere temporale della Chiesa -, aveva chiamato a raccolta le sue camicie rosse per replicare l’impresa nata due anni prima con lo sbarco a Marsala. Ma essendosi appunto costituto l’Unità d’Italia, le regole di ingaggio per un’impresa simile si erano capovolte. Il Regno Savoiardo aveva adesso un proprio esercito e il Re Vittorio Emanuele II, benché agisse con gli stessi fini di Garibaldi, non esitò a rivolgere i bersaglieri contro l’Eroe dei due mondi, che rimase ferito e sconfitto sull’Aspromonte. Ancora, un’altra vicenda significativa, si è consumata durante la prima guerra combattuta da Israele contro gli stati arabi, nel 1948. Poco dopo la Dichiarazione di indipendenza dello Stato ebraico, membri del gruppo terroristico ebreo dell’Irgun, capeggiati da Menachem Begin – futuro primo ministro -, tentarono di far entrare clandestinamente nel porto di Haifa la nave “Altalena”, carica di armi, per proseguire la guerra contro il nemico. In quel contesto il primo ministro David Ben Gurion spostò una colonna dell’esercito regolare dal campo di battaglia per impedire alla nave di approdare. Fu chiara la volontà dell’esecutivo di dimostrare la supremazia autoritativa dello Stato nei confronti di un gruppo paramilitare che, pur combattendo dallo stesso lato della barricata, contravveniva ai principi classici dell’ordine di potere modernamente inteso. Affrontando questo ragionamento per un’altra strada e ricollegandolo al presente della guerra in Medio Oriente, si può facilmente constatare quanto Israele stia utilizzando il proprio monopolio “legittimo” della violenza in maniera più che disinvolta. Alle brutalità del 7 ottobre, ai 1.200 morti civili israeliani e alle nefandezze perpetrate dai miliziani di Hamas, Israele ha risposto con una violenza altrettanto belluina. Nessuna riflessione introspettiva è stata fatta, almeno pubblicamente, per comprendere i motivi, storici e psicologici, che hanno costituito le premesse dell’operazione «Tempesta di al-Aqsa». I carri armati di Tsahal hanno spianato la Striscia di Gaza, lasciando sul terreno oltre 40.000 vittime; per sconfiggere i terroristi di Hezbollah sono penetrati in uno stato indipendente (anche se poco sovrano) come il Libano, bombardandone la capitale; più in generale si sono imbarcati in una guerra infinita ed esistenziale detta «dei sette fronti», i cui esiti sono imprevedibili. A fronte di una risposta dura, forse indispensabile, Israele - che in realtà è consapevole e conosce a fondo ogni cosa -, aveva la necessità di riflettere. Domandarsi perché i milioni di dollari recapitati a Gaza dai paesi arabi del Golfo anziché essere utilizzati per lo sviluppo economico e infrastrutturale della Striscia – un lembo di terra cinque volte più piccolo della provincia di Isernia, chiuso da un muro di contenimento e sorvegliato a vista - siano stati cinicamente utilizzati per scavare tunnel ed acquistare razzi. Domandarsi se la figura di un uomo come Yahya Sinwar – l’ex sovrano di Gaza – nato in un campo profughi della Striscia, da una famiglia allontanata coattamente da un villaggio a cui è stato dato un altro nome, in altre condizioni di vita avrebbe avuto la necessità storica di esistere così come è stato conosciuto, di manifestarsi nelle forme di carnefice.    Tutto questo la divisone etnica all’interno dello Stato ebraico e la sete inappagabile di sopravvivenza politica di Benjamin Netanyahu non lo permettono. La guerra dà stabilità interna, compatta frange eterogenee contro il nemico esterno. La tattica del «cane pazzo», che si muove con moto schizofrenico e a piena forza da un fronte all’altro spaventa, funge da deterrente alle potenziali ritorsioni di temibili nemici. I moniti cosmetici, di pura facciata, da parte dei paesi europei; la furia tutta verbale, ma corretta da invii di armi da fuoco e protezione attraverso le portaerei, da parte degli Stati Uniti; l’ormai conclamata inanità delle Nazione Unite di ricondurre a diplomazia un conflitto; lasciano ad Israele una conduzione totalmente sfrontata della guerra nello scacchiere mediorientale. Roma, Marzo 2024. XVI Martedì di Dissipatio Se volessimo fare parallelismo un po' spericolato, Hamas e tutto il cosiddetto «Asse della Resistenza» assomiglierebbero al bullo di classe, all’irrecuperabile “Franti” del Libro Cuore, sottoproletario e inossidabile cattivo - di cui nessuno, tuttavia, si preoccupa di capire perché lo sia così tanto -, e per questo viene ostracizzato; dall’altro avremmo un Israele che assomiglierebbe a quel primo della classe che dà le spallate ai compagni, anche di fronte ai professori poiché consapevole che il suo prestigio le garantirà comunque l’impunità.  Resta il fatto che, come ritenuto da molti esperti, la tecnica della decapitazione dei leader e la guerra senza limiti condotta dallo Stato ebraico contro le organizzazioni terroristiche, porterà sì ad un vantaggio tattico sul breve periodo e ad una certa tranquillità transfrontaliera. Ma nell’arco di una decina d’anni una trappola strategica potrebbe emergere nelle forme di una nuova generazioni di guerriglieri e terroristi, ancor più agguerriti di quelli oggi sconfitti, perché nati e cresciuti nella terra del rimorso, dove le speranze nel futuro si interrompono al fucile e all’ideologia.
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