Solo coloro che possono vedere l’invisibile possono compiere l’impossibile. Chissà se i vertici degli 007 italiani al tempo di Giorgia Meloni – da Giovanni Caravelli a Bruno Valensise, rispettivamente direttori dell’Aise e dell’Aisi, passando per il capo del DIS Elisabetta Belloni – trascorrono qualche ora del loro tempo a navigare sulle grandi piattaforme. Da Amazon Prime a Netflix, da Now ad Apple TV, scoprirebbero che è tutto un fiume di serie televisive sul mondo dello spionaggio, una più sorprendente dell’altra.
Ora, per la prima volta nella storia, con realismo e senza troppi effetti speciali, sembrerebbero le stesse grandi agenzie di intelligence ad avvallare questa nuova strategia comunicativa con l’obiettivo di avvicinare le nuove generazioni a una professione tradizionalmente avvolta nel silenzio. Ed espandere dunque il raggio di azione del reclutamento, in particolare nella società civile. Tutto è cominciato con la straordinaria serie statunitense Homeland in cui i nemici della CIA vengono rappresentati meravigliosamente, quanto eroicamente, dallo sceneggiatore Gideon Raff. Lo stesso che ha scritto qualche anno dopo The Spy, sulla vita di Eli Cohen, spia israeliana del Mossad infiltrata nella Siria degli anni Sessanta. Nello stesso solco, i francesi hanno prodotto Le Bureau des Légendes che vede come protagonista Mathieu Kassovitz nelle vesti di un agente operativo della DGSE (l’equivalente della nostra AISE) che solo dopo la prima stagione ha scatenato un boom di candidature nei servizi segreti d’Oltralpe. Infine, gli inglesi, si sono presentati con Slow Horses, un adattamento per lo schermo dei romanzi di Mick Herron, forse il miglior prodotto di genere spy-thriller da molto tempo a questa parte. Un gruppo di agenti dell’MI5 “bruciati” e figli di un Dio minore, che vengono relegati nel “Pantano”, una struttura parallela al Secret Intelligence Service di Vauxhall Cross, capeggiata da un gigantesco Gary Oldman.
Un vecchio altissimo funzionario del DIS diceva sempre alle nuove reclute la seguente frase durante i mesi di formazione: “Dovrete conservare la serenità di fare delle cose buone, non raccontarle, poi un giorno vi ritroverete davanti ad amici che vi diranno: ‘io sono diventato sindaco, io sono diventato professore, io ho scritto un libro…’, mentre e voi rimarrete degli anonimi meravigliosi”. Ma a fronte di come agiscono le altre agenzie di intelligence nel mondo, perché l’Aise o l’Aisi non producono la loro grande serie televisiva? Per quali ragioni non mettono in mostra le grandi missioni interne e all’estero di questi agenti meravigliosi tra i migliori al mondo, tutelando il loro anonimato? Se è vero come, diceva l’Ammiraglio Fulvio Martini, ex direttore del SISMI, nome in codice “Ulisse”, che le spie “non sono né James Bond, né Superman, ma gente che crede e ha creduto nella missione che aveva da svolgere”, è ancor più vero che la nostra storia spionistica, già dal primo Novecento, come oggi, pullula di grandi narrazioni individuali e collettive.
Di recente il Dipartimento delle Informazioni per la Sicurezza (DIS) ha firmato un accordo con il Ministero dell’Istruzione e del Merito (MIM) per lanciare un progetto nelle scuole che si chiama “I come Intelligence” con l’obiettivo di accompagnare gli studenti delle scuole superiori a esplorare la storia, il linguaggio, i protagonisti e l’organizzazione dei Servizi Segreti italiani, oltre alle principali minacce del mondo contemporaneo. E allora anziché sui pannelli, forse queste immagini non andrebbero portate sullo schermo?
L'editoriale
di
Sebastiano Caputo