L’Italia senza satira

La morte di Giorgio Forattini diventa simbolo della fine della satira come voce critica: in un’Italia rassegnata e distratta, il riso non ferisce più il potere ma lo alimenta. Dalla corrosione di Luttazzi e Ricci alla leggerezza dei meme, la risata si è svuotata di senso, ridotta a puro anestetico sociale privo sia d'indignazione che di pensiero.

Effetto Mamdani

Laddove in passato le alte sfere del Partito Democratico statunitense sono riuscite ad inquadrare la propria base in una struttura organizzativa a rigida vocazione gerarchica, neutralizzandone di volta in volta le istanze più spinte in favore di un moderatismo da molti percepito come letargico, la schiacciante vittoria di Zohran Mamdani dimostra in maniera plastica l’efficacia di un approccio bottom up, spontaneo e grassroots nel promuovere una linea politico-ideologica per diversi aspetti agli antipodi dell’ortodossia liberal.

Ostaggi della cultura di massa

Attraverso Masscult e Midcult, Dwight Macdonald già sessant'anni fa smascherava la cultura di massa come esito della produzione autoreferenziale moderna, dove ogni forma, pensiero e desiderio si riducono a consumo. Nel suo testo (ripubblicato nel 2018 da Piano B Edizioni) mostrava come la società contemporanea, fagocitata dal piacere e dalla distrazione, abbia dissolto l’arte, la coscienza e l’individualità in un eterno ciclo di simulazione, consenso e alienazione collettiva.

Il baricentro tedesco

La crescente fragilità dell’Unione Europea ridefinisce gli equilibri continentali, con una Germania che, tra potenza industriale e disciplina fiscale, tenta di affermare una nuova centralità strategica. Mentre Londra consolida l’asse nordico e Parigi appare indebolita, Berlino si prepara a guidare la trasformazione militare ed economica dell’Europa post-Brexit.

L'editoriale

di Sebastiano Caputo

Le chiavi del tempo

Il Vaticano è una forza celeste che può spingersi laddove nessuna potenza di terra o di mare può farlo. È il privilegio di agire per conto di Dio, o meglio di essere depositari di un potere spirituale che consente ad ogni Pontefice di camminare sui fili ad alta tensione della storia senza dover rendere conto alle geometrie del consenso. Solo il Conclave ne è sigillo e profezia. Non esiste infatti calcolo geopolitico, strategico o ideologico a dettare le regole dell’elezione del Successore di Papa Francesco. La forza del mistero – avvolto da un rito millenario che avrà inizio il 7 maggio nella Cappella Sistina - sta proprio nella capacità di sparigliare qualsiasi pronostico o scenario.  Più che intravedere la continuità o la discontinuità di un Papato, o ancora la sfida tra “progressisti” e “conservatori”, occorre pertanto invertire le coordinate dello spazio e del tempo: cioè la capacità della Chiesa Cattolica di proiettarsi in una dimensione mai esplorata finora. Già da qualche anno, il Pontificato di Bergoglio aveva tracciato rotte inedite e “atemporali” di evangelizzazione: a partire dalle periferie del mondo fino ai confini dell’esistenza. Tutto questo attraverso le antiche e le nuove forme dell’infinito: dall’arte alla tecnologia. Un sentiero insidioso che unisce la bellezza universale e un deserto interstellare da attraversare senza paura. Il Cardinale José Tolentino de Mendonça, portoghese di Madeira cresciuto in Angola, già prefetto al Dicastero per la Cultura e poeta, la definirebbe una “teologia dell’immaginazione”. Se in questa fase storica è iniziata la competizione delle grandi potenze di terra e di mare nella conquista di “nuovi spazi” fisici e virtuali (dall’universo al sottosuolo), la nuova postura della Santa Sede invece potrebbe collocarsi in un’altra corsa: quella per il tempo. Quindi su tutt’altro terreno di gioco. In un mondo che corre velocissimo e si misura in Borsa, in megabyte, in chilometri quadrati. Una postura di lungo periodo che la stessa Cina, pur sfidando gli Stati Uniti per l’egemonia globale, conosce fin troppo bene e da tempi non sospetti. Si dice infatti che il go sia il gioco di strategia più antico al mondo e nasca proprio “nell’Impero di mezzo” circa 2.500 anni prima di Cristo. A differenza degli scacchi, lo scopo è quello di accerchiare l’avversario anziché buttarlo fuori dal goban (la scacchiera). Persino Henry Kissinger lo aveva ampiamente citato per comprendere il progresso strategico della Repubblica Popolare Cinese in politica estera. Da qui l’urgenza da parte della Santa Sede, in particolare tramite il Cardinale Pietro Parolin, di trovare un accordo provvisorio con le autorità di Pechino. Cioè sfidarle sul loro terreno. E forse, in vista del Conclave, è proprio verso Oriente che occorre guardare. Per competere col cosiddetto “secolo asiatico” serve un Pontefice che abbia tutto il tempo per attraversare il tempo.
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Interviste

a cura di Francesco Subiaco

Guillaume Tabard (caporedattore Le Figaro): «Ci sono stati dei gollisti dopo De Gaulle. Non ci saranno macronisti dopo Macron.»

Di fronte alla crisi del macronismo la Francia vive un momento ricco di incognite politiche, finanziare e sociali. Dall'emergenza della finanza pubblica al problema dell'instabilità dei governi fino ai nodi della questione sociale si assiste ad una fase estremamente complessa e ricca di incertezze. Come ha confermato da ultimo la sospensione della riforma delle pensioni proposta dal primo ministro Lecornu che seppure con questa tattica è riuscito a sventare le mozioni di sfiducia delle opposizioni ha però reso più incerto il futuro del contrasto al deficit e dei centristi stessi. Ma cosa sta avvenendo tra le pieghe della società francese e quale sarà il futuro delle destre? Ne parliamo con Guillaume Tabard, caporedattore del quotidiano Le Figaro e tra i migliori editorialisti della stampa transalpina, che nei suoi ultimi libri ha indagato i nodi e le "maledizioni" della destra, oltre a mostrare vizi e virtù del tecnocentrismo del Presidente della Repubblica. Tra le sue ultime pubblicazioni "La malédiction de la droite – 60 ans de rendez-vous ratés" (Tempus Perrin, 2022) e "Macron – La Révolution infructueuse" (Robert Laffont), mentre in Italia ha pubblicato "Maïti. Resistenza e perdono" (Itaca edizioni). -Dottor Tabard, di fronte alla crisi francese, molti hanno evocato un ritorno all'instabilità della Quarta Repubblica. Secondo lei, stiamo assistendo a una crisi del sistema istituzionale o semplicemente a una crisi del paradigma centrista? La crisi del "paradigma centrista" è evidente. Emmanuel Macron, nel 2017, era riuscito a far vincere per la prima volta nella storia della Quinta Repubblica una forza centrale divenuta maggioritaria. Ma quella forza si è nel frattempo sbriciolata: sul piano elettorale, alle ultime legislative, e sul piano del leadership, frammentandosi. Da Gabriel Attal a Édouard Philippe, nessuno di coloro che oggi ereditano il macronismo politico si definisce più macronista. È una crisi del sistema istituzionale? È ancora troppo presto per dirlo. Quel che è certo è che la Quinta Repubblica si fonda sul principio maggioritario — e oggi, una maggioranza non esiste più. Detto questo, la Quinta Repubblica ha resistito all'alternanza (nel 1981), alla coabitazione (nel 1986), alle dissoluzioni, al quinquennato e alla comparsa di forze radicali di massa come La France Insoumise e il Rassemblement National. Vedremo se saprà resistere anche alla polverizzazione dell'offerta partitica. -In un suo eccellente articolo, lei ha scritto che la Francia sta attraversando un "momento orwelliano della vita politica". Cosa intendeva dire? Orwell, in 1984, mette in scena dei binomi paradossali: "La guerra è pace", "La libertà è schiavitù", "L'ignoranza è forza". Anche questa fase politica è costellata di contraddizioni simili. La prima è che, per rispondere alla richiesta di rottura, Emmanuel Macron ha nominato nuovamente lo stesso Primo ministro. Lo si vede anche sulla questione delle pensioni: coloro che hanno presentato la mozione di censura – LFI e RN – volevano la fine della riforma delle pensioni... un risultato che hanno ottenuto però i socialisti! All'interno dei Repubblicani, Bruno Retailleau e Laurent Wauquiez giocano su fronti opposti. Insomma, tutti i punti di riferimento della politica francese sembrano confusi. -In questo contesto, come valuta la sospensione della riforma delle pensioni proposta dal Primo ministro Lecornu? E che opinione ha dell'influenza crescente del Partito socialista di Faure? È un segnale spettacolare ma, a mio avviso, irresponsabile. Sul piano dei contenuti, innanzitutto, perché l'urgenza è garantire il finanziamento delle pensioni, non certo di aggravare ulteriormente il deficit. Sul piano politico, poi, perché quella riforma era l'unica vera misura realizzata durante il secondo quinquennato di Emmanuel Macron, che così finisce per smontare ciò che di buono aveva costruito. Per lui si tratta, quindi, di un'umiliazione. Tanto più che oggi capitola davanti a un partito, il PS, che rappresenta appena il 10% dell'Assemblea nazionale. -Molti hanno criticato la nomina del Primo ministro Lecornu dopo le sue dimissioni a seguito del primo tentativo fallito. Come valuta il ritorno di Lecornu e quale futuro intravede per lui? È stata una scommessa audace, quasi una provocazione verso l'opposizione. Bisogna però riconoscere a Sébastien Lecornu una certa abilità: è riuscito, nonostante tutto, a evitare la censura. Si può dire che sia solo tempo guadagnato, che nulla sia risolto nella sostanza. Ma questo margine di respiro, almeno fino al voto del bilancio previsto per dicembre, rappresenta già un piccolo successo per il suo esecutivo. Roma, Giugno 2025. XXVIII Martedì di Dissipatio -Un recente sondaggio Ifop ha mostrato che il 52% dei francesi desidera un governo di coalizione di destra. Secondo lei, quali sono gli ostacoli e i limiti che impediscono la formazione di una coalizione di centrodestra come in Italia? In Francia persiste una sorta di "diga", eretta dalla sinistra sotto François Mitterrand e accettata da Jacques Chirac, nei confronti del Rassemblement National, presentato come "estrema destra" — definizione che il partito stesso contesta — e dunque escluso da quello che viene chiamato "arco repubblicano". La realtà, però, si sta evolvendo. Da un lato, LFI sta prendendo il posto del RN nel ruolo di forza "fuori dall'arco repubblicano"; dall'altro, il RN ha raggiunto un livello elettorale – oggi stimato fra il 30 e il 35% – che lo rende una forza ineludibile. Per ora, soltanto Éric Ciotti, ex presidente dei Repubblicani, ha aperto alla costruzione di un'alleanza - che potremmo definire - "all'italiana". LR continua a rifiutarla. Ma, specularmente, anche Marine Le Pen non crede nell'"unione delle destre". Anche perché una parte consistente del suo elettorato proviene dalla sinistra. -Nelle ultime settimane, figure come Édouard Philippe e Gabriel Attal hanno preso le distanze, in modi diversi, dal Presidente della Repubblica. È il segno di un rinnovamento post-macroniano del centro o di un'implosione del blocco comune? È il segno che Emmanuel Macron non è riuscito a organizzare una forza politica destinata a durare dopo di lui. Ci sono stati dei gollisti dopo De Gaulle. Non ci saranno macronisti dopo Macron. Poiché il capo dello Stato è divenuto molto impopolare, chi ambisce a succedergli non vuole essere identificato con lui. Anzi. -Nel suo saggio "La malédiction de la droite – 60 ans de rendez-vous ratés" (Tempus Perrin, 2022), lei analizza le occasioni mancate, le evoluzioni e gli auto-sabotaggi della destra francese negli ultimi sessant'anni. Che bilancio traccia della situazione attuale della destra? La destra gollista aveva recuperato un po' di credibilità tornando al governo un anno fa. E Bruno Retailleau, fino ad allora quasi sconosciuto ai francesi, era diventato il ministro più popolare. Tutto ciò sta ora andando in pezzi. Soprattutto, in un anno di governo, la destra non ha ottenuto né imposto nulla: né sull'immigrazione, né sull'Algeria, né sull'assistenzialismo. E questo è stato il suo principale fallimento. Non le resta molto tempo per ricostruire un'offerta politica competitiva, tanto più che, ancora una volta, i Repubblicani si crogiolano nelle guerre personali... Da ultima quella tra Laurent Wauquiez e Bruno Retailleau. -Pensa che il bilancio auspicato da Lecornu possa essere realizzato? E quali sarebbero le conseguenze se ciò non avvenisse? Questa è la nuova incognita. Lo sapremo solo al termine del percorso parlamentare, tra due mesi. Ciò che è certo è che il PS continuerà a pretendere enormi concessioni da parte del governo. E pertanto alla fine, i deficit verranno ridotti solo marginalmente. -Nel 2021 lei ha scritto "Macron – La Révolution infructueuse" (Robert Laffont), uno dei migliori ritratti dell'era macroniana. Come giudica oggi lo stato del macronismo, a poco più di un anno dalle presidenziali del 2027? Cosa resterà del macronismo? È una grande domanda. Il Presidente voleva riconciliare la Francia, ma l'ha ulteriormente divisa. Voleva riformarla, ma oggi è paralizzata. Voleva rinnovare la vita politica, ma questa è ormai esausta. -Infine, parliamo dell'Italia. Come valuta l'evoluzione del conservatorismo "all'italiana" di Giorgia Meloni? Dopo la sua elezione, in Francia è stata molto criticata: in molti denunciavano il ritorno del fascismo. Oggi appare, invece, chiaramente come la leader più solida dell'Unione Europea. Ha risollevato l'Italia e la sua coalizione ha portato al vostro Paese una stabilità politica che non conosceva da tempo. C'è di che far ingelosire la Francia!
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Interviste

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Guillaume Tabard (caporedattore Le Figaro): «Ci sono stati dei gollisti dopo De Gaulle. Non ci saranno macronisti dopo Macron.»

Cosa sta avvenendo tra le pieghe della società francese e quale sarà il futuro delle destre? Ne parliamo con Guillaume Tabard, caporedattore ed editorialista politico del quotidiano "Le Figaro", che nei suoi ultimi libri ha indagato i nodi e le "maledizioni" della destra, oltre a mostrare vizi e virtù del tecnocentrismo del Presidente della Repubblica, Emmanuel Macron.
Guillaume Tabard (caporedattore Le Figaro): «Ci sono stati dei gollisti dopo De Gaulle. Non ci saranno macronisti dopo Macron.»

Il sonno dell’Europa e il risveglio delle civiltà. Le prospettive di Sergio Vento sul rapporto transatlantico e l’ordine internazionale

«Viviamo in un'epoca in cui molte leadership politiche sono contraddistinte da debolezze estreme che vengono mascherate da roboante velleitarismo. Una impostazione a cui spesso si aggiunge un alto grado di improvvisazione e impreparazione delle élites globali.»
Il sonno dell’Europa e il risveglio delle civiltà. Le prospettive di Sergio Vento sul rapporto transatlantico e l’ordine internazionale

Lamberto Dini: «Penso che in Ucraina più che una pace avremo un armistizio sul modello coreano. Ma Zelensky segua Trump.»

«Credo che Kiev dovrebbe agire in sintonia con l’azione del presidente USA senza contrastare i suoi orientamenti, ma dotandosi di sano realismo. Anche perché senza Washington la stessa azione dell’Ucraina non ha futuro.»
Lamberto Dini: «Penso che in Ucraina più che una pace avremo un armistizio sul modello coreano. Ma Zelensky segua Trump.»

«C’è da rileggere in maniera approfondita la storia della Repubblica, è fondamentale per capire quali siano stati gli autentici Statisti.» Il punto di vista privilegiato di Vincenzo Scotti

Esponente di spicco nei governi Andreotti IV, V, VI e VII, Cossiga I e II, Spadolini I, Fanfani V, Craxi I, Amato I, più una parentesi con Forlani dal 1980 al 1981. Più volte ministro e sottosegretario in diversi dicasteri, dalla Farnesina all’Interno, sino al Lavoro e ai Beni culturali, nel 1984 è stato sindaco della sua città. Fu sette volte ministro, e ha attraversato quasi indenne la Prima e la Seconda Repubblica ritornando al governo con Berlusconi da sottosegretario nel 2011.
«C’è da rileggere in maniera approfondita la storia della Repubblica, è fondamentale per capire quali siano stati gli autentici Statisti.» Il punto di vista privilegiato di Vincenzo Scotti

«L’Italia è un gigantesco ed ipertrofico Stato pontificio.» L’intervista a Fabrizio Rondolino

«Anziché liberarcene, con l'Unità d'Italia lo abbiamo nazionalizzato. Dalla Roma dei papi abbiamo ereditato le due principali caratteristiche del nostro Paese, i due tumori maligni che l'hanno ridotto a quello che è: la tenace convinzione che corruzione e inefficienza siano le sole modalità possibili della vita pubblica, e l'abitudine a baciare la pantofola di chiunque possa concederci un favore o un'assoluzione.»
«L’Italia è un gigantesco ed ipertrofico Stato pontificio.» L’intervista a Fabrizio Rondolino

A cosa servono le città

Le città (e in particolare le metropoli contemporanee) non sono realmente il frutto di pure necessità sociali, storiche e tecniche, il cui sviluppo è gestito dagli uomini. Le città sono delle entità viventi inorganiche, che tramite la loro accumulazione e gestione di informazioni, dati, codici, simulazioni, speculazioni e controllo sugli uomini stessi rendono questi ultimi dei meri componenti della programmazione urbana e del loro sostentamento.

La natalità come ideologia

Dalla biopolitica della razza ai bonus del consenso: il potere continua a misurare la vita come variabile economica e simbolica, trasformando la maternità in dispositivo di appartenenza più che di generazione. Il calo delle nascite non è una crisi demografica, ma una crisi d’immaginazione: abbiamo moltiplicato i modi di sopravvivere, dimenticando il significato del nascere.

Fenomenologia della bomba atomica

Dal 24 febbraio 2022, l’invasione russa dell’Ucraina ha riportato la paura atomica al centro del mondo. La deterrenza si è trasformata in assuefazione, la minaccia nucleare in linguaggio geopolitico. Tra nuove dottrine, tensioni in Asia e Medio Oriente e il rischio di errori umani, l’umanità vive sull’orlo del baratro. Con il Doomsday Clock a 89 secondi dalla mezzanotte, l’apocalisse è tornata pensabile, quasi quotidiana.

Confessioni

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Giuseppe De Rita

Grande esponente di quella silenziocrazia italiana e ricercatore sociale tra i più acuti, capace di auscultare le mutazioni e fibrillazioni delle tante oligarchie italiane: Giuseppe De Rita è il maggior conoscitore della fenomenologia delle fisiologie e patologie della società italiana. Un maestro di pensiero e metodo che nella sua attività di fondatore e presidente del Censis ha raccontato e mostrato come nessun altro il nostro Paese tramite le considerazioni generali dei suoi rapporti, oltre che tramite testi straordinari (di Francesco Latilla e Francesco Subiaco)
Giuseppe De Rita

Golden power: il caso Unicredit

L’evoluzione del Golden Power riflette la crescente centralità dello Stato nella tutela della sicurezza economica nazionale. Il tentativo di acquisizione di Banco BPM da parte di UniCredit evidenzia le tensioni tra esigenze di sovranità e libertà d’impresa, mostrando come i poteri speciali, nati per proteggere interessi strategici, possano al contempo incidere sull’autonomia del mercato e ridefinire i confini dell’intervento pubblico in economia.

Il malato d’Europa è oltralpe

La legge di bilancio incombe, e Macron tira a campare. In attesa della prova elettorale del 2026 e delle presidenziali 2027, si rinnova la fiducia al Primo Ministro uscente, con la speranza che le decisioni del prossimo biennio non lascino spazio a forze crescenti che potrebbero far cambiare il vento anche dalle parti dell’Eliseo. L’Italia insegna, stare all’opposizione conviene più che governare.

L’Essequibo a un passo dal baratro

Georgetown, notte tropicale. Le luci giallastre dei moli si riflettono sull’acqua torbida dell’Atlantico, mentre le sagome delle petroliere ExxonMobil attendono al largo. Da quelle stive colme di greggio nasce la nuova ricchezza della Guyana, piccolo Stato ex colonia britannica che in pochi anni è passato dall’anonimato geopolitico a diventare la potenza emergente dell’energia sudamericana. Ma a poche centinaia di chilometri, oltre il fiume Essequibo, Caracas sogna la riconquista. Oggi, nel cuore dell’Amazzonia, il Sudamerica rischia di aprire un nuovo fronte di guerra.

Le Grandi firme

di Enrico Raugi

Anatomia di due rivoluzioni novecentesche

Antonio Gramsci aveva mutuato il concetto di «rivoluzione passiva» dall’opera di Vincenzo Cuoco sulla rivoluzione napoletana del 1799. Quest’ultima non si era accesa a seguito di una scossa tellurica proveniente dalle classi subalterne. A scompaginare l’ordine monarchico borbonico erano state le armate giacobine discese in Italia due anni prima. I francesi avevano trovato il popolo partenopeo sprovvisto di coscienza di classe, passivo ed ostile, proprio in quanto ai loro occhi la rivoluzione rispondeva ad un’istanza non richiesta, essa era stata “importata”, per non dire imposta. Lo scollamento fra la classe intellettuale, che plaudì lo sconvolgimento politico, e la gran massa popolare, che non capiva i motivi di un tale tumulto e che, in qualche modo, si trincerò dietro alla convinzione antica secondo cui «un male conosciuto è meglio del nuovo», favorì in pochi mesi il tramonto della Repubblica napoletana e la restaurazione dei Borboni. Gramsci utilizzò - a ragione – questa lente per interpretare allo stesso modo la stagione del Risorgimento. Le classi popolari italiane, ancora lontane dalla possibilità di istruirsi, impermeabili ai fatti dalla grande storia che si stava compiendo sotto i loro occhi, subì passivamente la cosiddetta «funzione Piemonte». Ossia quella strana forma di rivoluzione che fu condotta dall’alto, portata a compimento dalla cavalleria savoiarda, con il consorzio di un nobile intellettuale come Cavour, il cui acume strategico aveva reso possibile il sogno dell’Italia unita sfruttando una finestra temporale favorevole nella bisca della politica europea. Per questo “difetto genetico” – più di un secolo dopo - l’Italia poteva ancora apparire nelle parole di Francesco Cossiga un paese «incompiuto». Questa breve e parziale disamina introduttiva serve a sottolineare il senso negativo che il concetto di rivoluzione passiva implica. Ovviamente esiste la polarità opposta. Una rivoluzione che – gramscianamente – ha visto l’attiva e determinante partecipazione del popolo, alleato con la classe media, intellettuale o borghese, nel rovesciamento di un sistema politico in favore di uno nuovo. La storia del Novecento ha visto due episodi di questo tipo portarsi a compimento: l’uno nella prima metà, l’altro nella seconda. E queste epopee non si sono potute compiere senza i loro “eroi”. Questi lessero correttamente la situazione sociale, politica ed internazionale che si trovarono di fronte, riuscendo a capitalizzarla in un momento rivoluzionario che, successivamente, li immortalò nella storia. Si tratta di Lenin per quanto riguarda la Rivoluzione d’Ottobre (1917) e la nascita dell’Unione Sovietica, e dell’Ayatollah Ruhollah Khomeini per la rivoluzione che porta il suo nome (1979) e che diede vita al regime teocratico in Iran.  Se nella Rivoluzione francese – attiva – l’azione giacobina-popolare aveva, nelle parole di Gramsci, spinto in «avanti la classe borghese a calci nel sedere», trovandone alla fine un’alleata contro la resistenza delle vecchie classi aristocratiche; la stessa questione, nella pratica delle rivoluzioni del Novecento, si pose in termini affatto diversi. Riprendendo il pensiero di Lenin: «Si trattava di comprendere il metodo della funzione egemonica del movimento operaio, capace di promuovere l’iniziativa rivoluzionaria e, al tempo stesso, di “tradurre” nella propria cultura nazionale «una data fase della civiltà».    L’azione dei ceti subalterni, nella lotta al rovesciamento di un re, dinastia, clero, feudatari, notabili o proprietari terrieri che fossero, avrebbe dovuto essere di carattere dirigenziale, la borghesia e la classe media sarebbero stati sì alleati ma col rango di gregari. Il rovesciamento dell’ordine politico nella Russia del 1917 aveva trovato l’innesco nel potere detonante della Guerra mondiale. In quell’occasione le masse, ancora poco coscienti della loro forza ma indirizzate dalla guida di Lenin, ebbero ragione contro la stessa teoria marxista. Questa vedeva il governo del proletariato e la successiva cancellazione dello stato e delle classi come una forma di potere che poteva costituirsi solo dopo il passaggio, intermedio, dallo stato borghese. Nel caso russo invece la profonda arretratezza economica e sociale dell’impero rendeva l’ipotesi di uno stato remunerato dallo sviluppo industriale e fondato sulla proprietà privata ancora lontanissima.  Gli eventi narrarono infatti un’altra storia. Il governo provvisorio costituitosi dopo la caduta dei Romanov, durante la Rivoluzione di febbraio, non era stato in grado né di uscire dalla guerra né di risolvere l’annosa questione agraria. Pertanto, contro di esso, si compattò un’alleanza fra componenti sociali accomunate dal fatto di vivere in condizione di estrema indigenza e sfruttamento. Queste, specificamente, erano tre. La classe operaia dei complessi industriali - circoscritti alle sole città di Mosca e Pietroburgo -, che trovarono la loro organizzazione nei soviet; l’immensa massa dei contadini legati all’Obščina, i quali rivendicavano il possesso della terra; nonché i milioni di soldati, perlopiù di origine contadina, che avevano sperimentato le aberranti condizioni di vita nell’esercito zarista e che possedevano le armi. La condizioni d’esistenza della Rivoluzione d’Ottobre sono note e rinvenibili in ogni buon manuale scolastico; utile è focalizzare l’attenzione sulle condizioni simili ma peculiari che scatenarono la rivoluzione nell’Iran degli Shah, di come Khomeini fu, alla stregua di Lenin, un vero rivoluzionario, in grado di mobilitare le masse per instaurare un potere di nuovo tipo. Registrati su bayramcosmopolitica.it La figura di Khomeini cominciò a rendersi nota a partire dal 1962-3 quando lo Shah Reza Pahlavi incanalò l’esuberante sviluppo economico innescato dalla rendita petrolifera nelle riforme della cosiddetta rivoluzione bianca. Lo sviluppo in senso moderno-occidentale dell’Iran voluto dal sovrano ebbe la conseguenza di creare una ristretta borghesia parassitaria che non reinvestiva i suoi profitti in patria, creando fortissime sperequazioni economiche. Un altro dei punti toccato dalla riforma era l’avvio di una campagna di alfabetizzazione di stampo laico della popolazione, che di fatto inibiva la secolare funzione del clero sciita all’insegnamento in scuole e madrase. Il conservatore religioso Khomeini passò all’attacco frontale della monarchia fomentando la popolazione ad atti di disobbedienza, tenendo fede all’idea che l’identità sciita facesse un tutt’uno con identità iraniana, a discapito di qualsiasi forma di secolarizzazione. Condannato all’esilio in Iraq Khomeini delineò la sua dottrina politica, nota col nome di velayet-e faqih. Con essa teorizzava il diritto del clero a governare. Si trattava di una rottura storica con la stessa tradizione sciita: fino a quel momento il clero si occupa della cura spirituale dei fedeli, delle attività di insegnamento, fino alla gestione della giustizia, ma al fianco del potere secolare; riconoscendo da sempre una delimitazione di campo definita con i rappresentanti dell’esecutivo. Sebbene fino ad un momento prima della rivoluzione i rappresentanti del clero che abbracciarono la dottrina khomeinista furono pochi, questi, d’altra parte, lavorarono con zelo alla ricerca di consensi, sfruttando al meglio, oltre alla situazione economica, il vuoto di rappresentanza creata dai lacci sull’attività dei partiti politici imposta dallo Shah. Gli appelli di Khomeini – diffusi in patria attraverso videocassette – sulle contraddizioni della modernizzazione trovava a recepirli numerose frange della società: mercanti, piccoli borghesi, operai e le enormi masse dei disoccupati emigrati verso le città dalle campagne. Questa voce trovò terreno fertile dal 1973 quando, nonostante lo shock petrolifero - artificialmente creato dai paesi arabi contro i paesi occidentali -, la dinastia Pahlavi non nazionalizzò l’industria petrolifera. I mancati profitti dei petrodollari ebbero come conseguenza quella di andare a gonfiare la massa di indigenti, soprattutto giovani, che si ammassava nelle periferie. Le proteste di piazza si moltiplicarono esponenzialmente. Gli articoli che la stampa del regime pubblicava contro l’Ayatollah e l’incapacità di mettere un freno alla miseria non facevano che accrescere l’aura attorno all’anziano religioso. Nel 1978 al regime restava come unico alleato l’esercito. Le scuole religiose erano diventati centri di lotta a tutti gli effetti. La popolazione civile guardava con così tanta fiducia al clero che gli esponenti dei partiti politici, sebbene non fossero d’accordo con le invocazioni di Khomeini, per non vedersi tacciati di collaborazionismo, si recarono a Parigi - dove, nel frattempo, si era trasferito – per porsi sotto la sua guida. Da parte sua, con acuto cinismo, Khomeini, aveva reso possibile questa strana alleanza, sfruttando il carisma riconosciutogli in patria per stendere un velo sulle modalità con cui – nella sua teoria politica - il clero avrebbe gestito il potere esecutivo, e in generale lo stato, dopo la rivoluzione.   Nel dicembre dello stesso anno due milioni di persone afferenti a quasi tutte le classi sociali si riversò per le strade di Teheran; dopo una prima risposta violenta, l’esercito, rivolse le armi contro i propri ufficiali. Lo Shah, malato, abbandonò l’Iran. L’Ayatollah Khomeini atterò a Teheran il 1° febbraio del 1979: un anziano esegeta del testo coranico era riuscito a realizzare la prima rivoluzione «dal basso» del Medio Oriente. I regimi infami e lesivi della libertà individuale che queste due rivoluzioni produssero non tolgono lo smalto alle figure di Lenin e Khomeini se riconosciute – sotto la luce di una lettura storico-interpretativa – nella sola veste di autentici rivoluzionari. Essi si dimostrarono impareggiabili traduttori del momento storico che si trovarono davanti, in grado di far immaginare un sogno che non poteva realizzarsi ma pur sempre abbastanza intenso per coalizzare la massa dei più deboli contro vecchi sistemi di potere altrettanto iniqui. Lenin e Khomeini furono fra i pochi, nel corso della storia, qualificati per porsi al timone di quelle rivoluzioni che nella spinta delle classi «subalterne» della società trovavano la loro ragion d’essere.
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