Unifil, storia di una linea blu

Il terreno di scontro libanese fra Iran e Israele riporta alla ribalta i dilemmi sulle missioni di pace e le regole d’ingaggio delle Forze Armate italiane che nella Storia recente hanno perpetuamente dimostrato capacità di combattimento con risorse spesso opinabili e un’opinione pubblica contraria. Il Dpp 2024-26 ha il merito d’avere grandi ambizioni, ma risulta ancora evanescente sul piano strettamente strategico e tattico.

L'editoriale

di Sebastiano Caputo

Intelligence chiama mamma Rai

Solo coloro che possono vedere l’invisibile possono compiere l’impossibile. Chissà se i vertici degli 007 italiani al tempo di Giorgia Meloni – da Giovanni Caravelli a Bruno Valensise, rispettivamente direttori dell’Aise e dell’Aisi, passando per il capo del DIS Elisabetta Belloni – trascorrono qualche ora del loro tempo a navigare sulle grandi piattaforme. Da Amazon Prime a Netflix, da Now ad Apple TV, scoprirebbero che è tutto un fiume di serie televisive sul mondo dello spionaggio, una più sorprendente dell’altra. Ora, per la prima volta nella storia, con realismo e senza troppi effetti speciali, sembrerebbero le stesse grandi agenzie di intelligence ad avvallare questa nuova strategia comunicativa con l’obiettivo di avvicinare le nuove generazioni a una professione tradizionalmente avvolta nel silenzio. Ed espandere dunque il raggio di azione del reclutamento, in particolare nella società civile. Tutto è cominciato con la straordinaria serie statunitense Homeland in cui i nemici della CIA vengono rappresentati meravigliosamente, quanto eroicamente, dallo sceneggiatore Gideon Raff. Lo stesso che ha scritto qualche anno dopo The Spy, sulla vita di Eli Cohen, spia israeliana del Mossad infiltrata nella Siria degli anni Sessanta. Nello stesso solco, i francesi hanno prodotto Le Bureau des Légendes che vede come protagonista Mathieu Kassovitz nelle vesti di un agente operativo della DGSE (l’equivalente della nostra AISE) che solo dopo la prima stagione ha scatenato un boom di candidature nei servizi segreti d’Oltralpe. Infine, gli inglesi, si sono presentati con Slow Horses, un adattamento per lo schermo dei romanzi di Mick Herron, forse il miglior prodotto di genere spy-thriller da molto tempo a questa parte. Un gruppo di agenti dell’MI5 “bruciati” e figli di un Dio minore, che vengono relegati nel “Pantano”, una struttura parallela al Secret Intelligence Service di Vauxhall Cross, capeggiata da un gigantesco Gary Oldman. Un vecchio altissimo funzionario del DIS diceva sempre alle nuove reclute la seguente frase durante i mesi di formazione: “Dovrete conservare la serenità di fare delle cose buone, non raccontarle, poi un giorno vi ritroverete davanti ad amici che vi diranno: ‘io sono diventato sindaco, io sono diventato professore, io ho scritto un libro…’, mentre e voi rimarrete degli anonimi meravigliosi”. Ma a fronte di come agiscono le altre agenzie di intelligence nel mondo, perché l’Aise o l’Aisi non producono la loro grande serie televisiva? Per quali ragioni non mettono in mostra le grandi missioni interne e all’estero di questi agenti meravigliosi tra i migliori al mondo, tutelando il loro anonimato? Se è vero come, diceva l’Ammiraglio Fulvio Martini, ex direttore del SISMI, nome in codice “Ulisse”, che le spie “non sono né James Bond, né Superman, ma gente che crede e ha creduto nella missione che aveva da svolgere”, è ancor più vero che la nostra storia spionistica, già dal primo Novecento, come oggi, pullula di grandi narrazioni individuali e collettive. Di recente il Dipartimento delle Informazioni per la Sicurezza (DIS) ha firmato un accordo con il Ministero dell’Istruzione e del Merito (MIM) per lanciare un progetto nelle scuole che si chiama “I come Intelligence” con l’obiettivo di accompagnare gli studenti delle scuole superiori a esplorare la storia, il linguaggio, i protagonisti e l’organizzazione dei Servizi Segreti italiani, oltre alle principali minacce del mondo contemporaneo. E allora anziché sui pannelli, forse queste immagini non andrebbero portate sullo schermo?
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Interviste

a cura di Andrea Avallone

«Lo Yemen continuerà a essere lo Yemen, come è sempre stato nella Storia, depositario di divisioni politiche e sociali, ma anche di una fortissima identità». L’Ambasciatore Mario Boffo sul futuro di Sana’a

In un Medio Oriente che non sembra trovare pace un tassello fondamentale è rappresentato dallo Yemen, un Paese martoriato da una lunga guerra civile, che oggi assume un ruolo centrale nello scacchiere geopolitico globale per la sua posizione strategica nel Mar Rosso. Le tematiche da affrontare sono molte e complesse: dal rapporto della Repubblica yemenita con l’Iran a quello con la Russia, dalla spaccatura interna e la sanguinosa guerra civile al ruolo dell’Arabia Saudita passando per gli infruttuosi interventi occidentali.  Per fare chiarezza su queste delicate questioni abbiamo avuto il privilegio di intervistare Mario Boffo, ex Ambasciatore d’Italia in Yemen e profondo conoscitore del Paese sul quale ha scritto il libro ‘’Yemen l’eterno’ nel 2019. - Lei ha rivestito il ruolo di Ambasciatore d’Italia in Yemen dal 2006 al 2010, durante questo periodo quali sono stati i cambiamenti politico-sociali più marcati che ha dovuto affrontare in ragione del suo incarico ? Al mio arrivo nello Yemen, nel 2005, il paese era governato dal regime autoritario di Ali Abdallah Saleh e del suo maggioritario partito parlamentare, il General People's Congress. Era tuttavia attivo il principale partito di opposizione, al Islah, di ispirazione Fratelli Mussulmani, e un piccolo partito socialista erede di passati retaggi. Il dissenso non aveva vita facile, e vi erano stati in precedenza giornalisti perseguitati o morti in circostanze non chiarite. Tuttavia, esistevano organi di informazione indipendenti e relativamente liberi di esprimersi, anche criticamente nei riguardi del governo. Alla società, nella sua espressione civile, non erano imposte regole stringenti: non vi erano obblighi di abbigliamento (il velo, maggioritario fra le donne, era dovuto alla tradizione), le donne potevano guidare, studiare e lavorare. Limitazioni alla libertà e ai diritti come noi li intendiamo, soprattutto alla condizione femminile, discendevano soprattutto dai codici religiosi, che erano comunque riconosciuti dallo stato, e dalla tradizione sociale. Il voto per l’elezione del presidente che comportò la rielezione di Saleh nel 2006, voto controllato ma non del tutto pilotato dal regime, fu vissuto con entusiasmo dall’elettorato di entrambi i sessi e di tutte le generazioni. Nel corso di quegli anni hanno covato fermenti che sono poi esplosi fra il 2010 e il 2011 all’insorgere della “primavera yemenita”, dopo la caduta del regime e nei seguiti delle complesse situazioni che ne sono emerse: il desiderio di piena libertà del popolo, il revanchismo della regione di Sa’da, il risorgere della vocazione indipendentista del sud. - La missione Prosperity Guardian sembra essersi risolta in un fallimento. Perché, a Suo avviso? E quali sono le conseguenze a livello politico? Da un punto di vista militare, la missione non poteva avere successo. Gli houti sono regolarmente riforniti di armi iraniane, ma sono da tempo in grado di fabbricare in proprio missili e droni. Forse la qualità di queste armi e di altri ordigni più artigianali non è massima, ma è comunque sufficiente a condizionare il traffico nel Mar Rosso. Colpire le basi di partenza non serve a niente, perché si tratta di basi talvolta mobili che si spostano dopo aver lanciato gli ordigni, oppure di basi che una volta distrutte possono essere ricostituite in altro luogo. È inoltre un’evidente manifestazione di guerra asimmetrica, dove materiali a basso costo possono infliggere gravi danni senza poter essere validamente contrastati, sul piano strategico, nemmeno da armamenti più sofisticati e più costosi. Sul piano politico, la Prosperity Guardian rischia di dar luogo a un autonomo focolaio di crisi nello Yemen, focolaio che potrebbe sopravvivere anche indipendentemente dalla guerra a Gaza e dalle altre tensioni del Medio Oriente.  - L'attività di interdizione del traffico navale nel Mar Rosso risponde ad una strategia autonoma degli Houthi o si può derubricare a manovra anti-israeliana dell'Iran? Entrambe le cose. L’intervento degli houti nella guerra di Gaza, infatti, non deve essere letto solo come “difesa dei palestinesi” o come iniziativa della rete di resistenza filo-iraniana. Gli houti, infatti, benché alleati di Teheran, non sono pedissequamente obbedienti al regime iraniano; nutrono viceversa per lo Yemen un’agenda e una visione del tutto autonoma e radicata nella storia del paese. La loro azione deriva anche dall’esigenza di manifestarsi in tale autonomia, nel controllo di un quarto del paese e di un governo assolutamente maturo, sebbene non riconosciuto internazionalmente.  - Come pensa evolverà l'approccio di Teheran rispetto allo Yemen? Ritiene possibile che gli iraniani stabiliscano nel Paese una presenza fissa? Per l’Iran lo Yemen è importante. La presenza di un forte alleato permette a Teheran una sorta di “testa di ponte” alla frontiera dell’Arabia Saudita, un importante controllo del Mar Rosso, la sussistenza di un’ulteriore base nell’azione di contrasto a Israele. Tuttavia, la presenza iraniana dovrà tener conto delle esigenze autonome degli houti nel voler essere parte importante dello Yemen, comunque il paese esca dalle lunghe crisi dell’area. - Alla luce delle recenti notizie che sembrano indicare negoziati in corso tra la Russia e i ribelli Houthi, con la mediazione dell'Iran, per una possibile fornitura di missili antinave avanzati, quanto considera plausibile lo scenario in cui la Russia decida effettivamente di armare gli Houthi? In caso tale ipotesi si concretizzasse, quale ritiene potrebbe essere una risposta appropriata da parte dei paesi occidentali, sia nella regione mediorientale che a livello internazionale? La Russia, come pure l’Ucraina, combatte i propri avversari in varie regioni del mondo: Africa, Medio Oriente, Nordafrica. Non so se effettivamente Mosca fornirà tali armamenti, ma la cosa non mi sembra inverosimile. La risposta occidentale? Credo che sarebbe caratterizzata dal paradigma che la caratterizza sin dall’inizio della guerra in Ucraina: aiuto a Kiev e contrasto alla Russia sul filo di un continuo rischio di escalation, senza tuttavia superare (almeno fino a ora) alcuna fatale linea rossa.  - Alla luce degli eventi di quest'ultimo anno come pensa che l'Arabia Saudita intenda delineare il suo futuro approccio con lo Yemen? L’Arabia Saudita è uscita sostanzialmente sconfitta dalla lunga guerra che ha condotto nello Yemen: l’obiettivo era quello di far recedere la “ribellione” houti; il risultato è che ora gli houti sono una solidissima e scomoda presenza alle proprie frontiere. Senza far troppo rumore, Riad ha operato per la conclusione della guerra e per l’inizio del negoziato, negoziato che rischia di essere danneggiato dai più recenti eventi e dagli anatemi americani sugli houti. Ma l’interesse alla pacificazione dell’area è evidente, e si manifesta anche nella limitatissima vocalità del Regno nella situazione in corso. Riad, in sostanza, si accontenterà di aver consolidato il proprio storico e tradizionale posizionamento nello Yemen orientale, dovuto anche ad antichi legami tribali: nell’Hadramout e nel Governatorato di al-Mahra, alla frontiera con l’Oman, dove progetta di installare terminali petroliferi che le consentano di evacuare i propri prodotti petroliferi senza dover dipendere dal delicato passaggio per lo Stretto di Hormuz, controllato dall’Iran. - In conclusione, guardando al futuro dello Yemen, quali ritiene siano le prospettive più probabili per il Paese? Crede che vi siano possibilità concrete di una futura unificazione nazionale, oppure ritiene più plausibile che l'attuale frammentazione de facto venga formalizzata in una divisione stabile? Il futuro dello Yemen dipenderà da molteplici fattori: la realtà houti, unita al pragmatismo che permette loro di soprassedere all’originaria e velleitaria ambizione di controllo dell’intero paese; il consolidamento dell’indipendentismo meridionale; il sostegno che le federazioni tribali assicureranno a questo o quel processo politico; le evoluzioni delle regioni orientali; il gioco di influenze straniere (Riad, con la sua pressione sull’Est, gli Emirati Arabi Uniti con il forte sostegno a un  Sud indipendente). Il futuro Yemen potrà essere di nuovo diviso in due, o addirittura tripartito; oppure, nelle linee del Dialogo Nazionale concluso nel 2014, linee virtuose ma oggi difficilissime da realizzare, potrà essere una federazione. Quale che siano le forme politiche che assumerà, lo Yemen continuerà a essere tuttavia lo Yemen, come è sempre stato nella Storia, depositario di divisioni politiche e sociali, ma anche di una fortissima identità antropologica e nazionale che ne costituisce il più caratteristico patrimonio.
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Interviste

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«Lo Yemen continuerà a essere lo Yemen, come è sempre stato nella Storia, depositario di divisioni politiche e sociali, ma anche di una fortissima identità». L’Ambasciatore Mario Boffo sul futuro di Sana’a

«Per l’Iran lo Yemen è importante. La presenza di un forte alleato permette a Teheran una sorta di “testa di ponte” alla frontiera dell’Arabia Saudita, un importante controllo del Mar Rosso, la sussistenza di un’ulteriore base nell’azione di contrasto a Israele. Tuttavia, la presenza iraniana dovrà tener conto delle esigenze autonome degli houti nel voler essere parte importante dello Yemen, comunque il paese esca dalle lunghe crisi dell’area.»
«Lo Yemen continuerà a essere lo Yemen, come è sempre stato nella Storia, depositario di divisioni politiche e sociali, ma anche di una fortissima identità».  L’Ambasciatore Mario Boffo sul futuro di Sana’a

«Per fortuna la vita è più grande dell’intelligenza e da un certo punto di vista sono le cose a fare noi più che noi a fare le cose». Il senso del romanzo oggi secondo Claudio Gallo

Cani di Carta è la storia di Rodolfo Rodrick, giornalista della Gazzetta di Moralia, il quale scopre che la nuova rete idrica di Bengodi è costruita con materiali altamente cancerogeni. Ma un fatto dev’essere riconosciuto dalla società per esistere, e il governo tace per non indisporre l’Impero alleato di Aurelia dove si producono le tubature. La fonte della notizia è un dirigente della Società Acque Potabili, che poco dopo si uccide. È la prima di una serie di morti sospette che coinvolge chiunque incroci la rivelazione. Per scrivere lo scoop della vita, Rodolfo dovrà sopravvivere alla censura invisibile dei media e al mondo letale dei servizi segreti.
«Per fortuna la vita è più grande dell’intelligenza e da un certo punto di vista sono le cose a fare noi più che noi a fare le cose». Il senso del romanzo oggi secondo Claudio Gallo

«Continuare a ripetere che siamo al centro del Mediterraneo non aggiunge nulla. Siamo tutti al centro del Mediterraneo». Le politiche marittime secondo Pietro Spirito

Secondo il Professore, già Presidente dell'Autorità Portuale tirrenica, l'Italia vive un "provincialismo logistico" che le impedisce di assumere il suo naturale ruolo da protagonista del mare.
«Continuare a ripetere che siamo al centro del Mediterraneo non aggiunge nulla. Siamo tutti al centro del Mediterraneo». Le politiche marittime secondo Pietro Spirito

«Fare a meno della Cina? Sarà un processo molto doloroso». La lotta per il primato tecnologico raccontata da Alessandro Aresu

Il deteriorarsi delle relazioni economiche fra Pechino e Washington avrà conseguenze inedite e potenzialmente devastanti, soprattutto per noi europei: “Io non penso che un decoupling sia tecnicamente impossibile, perché si può spingere politicamente anche verso ciò che è tecnicamente difficile. La spinta esiste, e le cose difficili rimangono difficili.  Penso che un simile processo, preso sul serio, sia estremamente costoso, e che avrebbe enormi conseguenze.»
«Fare a meno della Cina? Sarà un processo molto doloroso». La lotta per il primato tecnologico raccontata da Alessandro Aresu

«È una partita a scacchi: solo quando vedremo misure irreversibili, come una confisca degli asset, potremo dire di essere arrivati ad un punto di non ritorno nei rapporti tra G7 e Russia.» Il congelamento dei beni nel racconto dell’Avv. Luca Picotti

«Garanzie, affidamento, credibilità, Stato di diritto sono il motivo per cui, ad esempio, banche centrali terze depositano le proprie riserve presso Euroclear. Tirare troppo la corda è rischioso. Ma qui si arriva al paradosso: nonostante vent’anni di sanzioni secondarie americane e weaponization dei chokepoint finanziari da parte dei paesi G7, non si è ancora creato un sistema alternativo e la de-dollarizzazione è lontanissima.»
«È una partita a scacchi: solo quando vedremo misure irreversibili, come una confisca degli asset, potremo dire di essere arrivati ad un punto di non ritorno nei rapporti tra G7 e Russia.» Il congelamento dei beni nel racconto dell’Avv. Luca Picotti

Confessioni

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Antonio Funiciello, nell’anticamera del potere

"La mostruosità della leadership comincia da qui: da questi occhi giganteschi e deformi, assai simili a quelli delle mosche nel rapporto col resto del cranio, con un campo visivo eccezionalmente esteso. Alla maniera di questi insetti, i leader sono in grado di percepire il tempo in modo rallentato e dilatato, scorgere dettagli e pericoli che noi follower nemmeno possiamo immaginare. È una dote certamente innata, ma che per maturare in talento, necessita di una lunga pratica."
Antonio Funiciello, nell’anticamera del potere

Commerzbank non è Rheinmetall

La geopolitica e l’economia legano indissolubilmente Roma e Berlino. Due casi politici recenti – l’accordo di Leonardo con Rheinmetall e la sospesa scalata di Unicredit alla Commerzbank – dimostrano la forma contemporanea di un rapporto politico tanto stretto quanto conflittuale.

Israele non ama le colombe

Con l'obiettivo di "mettere in discussione una serie di luoghi comuni", Arturo Marzano ha recentemente pubblicato "Questa terra è nostra da sempre. Israele e Palestina" (Laterza, Roma-Bari, 2024). È vero che gli israeliani sono passati dall'essere vittime a carnefici? È accettabile considerare che arabi e palestinesi «non hanno mai perso l’opportunità di perdere un’opportunità»? E che non vogliano altro che la distruzione del nemico? Uno studio attuale e fondamentale, ma che pecca di un'impostazione tendenziosa, per non dire esageratamente partigiana.

La resa dei conti

È opportuno gettare uno sguardo su come la prossima sessione di bilancio italiana potrebbe evolvere. Tra pressioni europee e strategie interne, il nuovo Patto di Stabilità giocherà un ruolo chiave. Le tensioni con Paesi come la Germania e le mosse della Commissione Europea s'intrecciano con il gioco politico. Mentre le élite tecniche sfruttano le regole europee per promuovere riforme, il governo potrebbe usare le "imposizioni di Bruxelles" per giustificare scelte difficili.

Le Grandi firme

di Enrico Raugi

Safari Sarajevo

È l’estate del 1994. Gli Stati Uniti vivono a pieno l’illusione della loro egemonia unipolare sull’orbe terracqueo. Tale potenza è resa ingenuamente munifica attraverso l’organizzazione dei Campionati mondiali di calcio in stadi dall’erba tosata al millimetro e di colore verde fluorescente.   In Italia sulle note di Jovanotti si «pensa positivo» seguendo, sullo schermo di televisori Mivar full-color e cornetto Algida a sciogliersi sulle dita, il ritmo da rullo compressore della Nazionale di Maldini e Baggio che viaggia, a suon di gol, verso la finale di Pasadena. Da Milano a Palermo, come nelle case-vacanze dell’Elba o dell’Eolie, si vivono spensierate le ore delle notti magiche, che solo le zanzare infastidiscono. In quegli stessi giorni un ristretto gruppo di uomini facoltosi, di varia provenienza - statunitense, russa, canadese, italiana, spagnola - atterra all’aeroporto di Belgrado. Sono turisti ma non indossano brache corte né camicie Acapulco, i loro borsoni sono pesanti e viaggiano nelle stive degli aerei con il supplemento del bagaglio speciale anche se non con tengono mazze da golf. I turisti in questione portano anfibi, occhiali neri antiriflesso e tuta mimetica per la caccia nei boschi, nelle loro borse ci sono cartucce, mirini notturni, treppiedi e fucili di precisione. Non escono dall’aeroporto, ma è un uomo in divisa – lui invece un autentico ufficiale di professione - a condurli in una un’altra pista di decollo, questa volta defilata. Ad attenderli c’è un elicottero militare: il trasferimento è verso la cittadina di Pale, sulle colline che circondano Sarajevo. Due anni prima, nell’aprile del ’92, i carri armati delle forze serbo-bosniache - in opposizione alla decisone del governo bosniaco di rendersi indipendente dalla Federazione Jugoslava, in quel momento la maschera di uno stato non più multietnico, che voleva coattamente farsi serbo -, avevano preso posizione sulle alture intorno a Sarajevo, chiamando a raccolta i serbi ortodossi che lì abitavano. Sebbene a pochi chilometri dalla capitale bosniaca quelle colline già erano l’abbozzo di uno stato sostanzialmente secessionista e filoserbo che gli accordi di Dayton avrebbe riconosciuto con il nome di Repubblica Srpska, ossia la Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina. La sua capitale era appunto la città di Pale. Questa fu uno degli avamposti militari dai quali furono condotti i 1425 giorni dell’assedio su Sarajevo, il più lungo della storia del Novecento. Pale fu scelta come capitale in quanto città ricca di valori simbolici per l’epos popolare serbo: nei secoli passati, era stata la piazzaforte degli aiducchi, i combattenti antiturchi; poi, quando divenne polo strategico, subì un repentino mutamento. Si trasformò in centro politico, militare e propagandistico con tanto di televisione (canale S) ed agenzia di stampa (la SRNA), il suo campo da calcio fu trasformato in pista di atterraggio per gli elicotteri, la sala cinematografica in prigione per i musulmani bosniaci catturati e per i serbi non allineati. La città, sotto il controllo delle truppe del generale Ratko Mladic - futuro boia di Srebrenica -, si riempì di milizie armate fino ai denti, le “tigri” del signore della guerra Arkan vi facevano tappa fissa. Più che ad un resort a cinque stelle Pale assomigliava ad un paradiso della violenza. Ciononostante, è per arrivare in questo avamposto che i facoltosi turisti occidentali hanno pagato un fiume di denaro. Desiderando un break dalla languida estate del ’94, tramite canali opachi, si sono comprati un week-end adrenalinico sul fronte per un safari umano. Dal loro punto vista irripetibile occasione, causata dalla peculiarità di quella guerra, per tentare di colpire un bersaglio civile, vivo, con la certezza dell’impunità, anzi per tornare, pochi giorni dopo, sulle spiagge battute dalla radiocronaca delle vicende calcistiche. Fornito di fucile di precisone, protetto dagli alberi e con la visuale completamente spalancata sulla città in asfissia, durante le guerre balcaniche, chi aveva i soldi per un giorno poteva essere cecchino, poteva avere il potere di togliere la vita mentre vigliaccamente si nascondeva fra le colline. La pratica del safari umano a fini turistici sulla Sarajevo assediata è una delle pagine rimaste oscure di una guerra amorale di cui si riteneva, oramai, di sapere tutto. La denuncia è arrivata nell’estate del 2022 all’Al Jazeera Balkans Documentary Film Festival, una rassegna di film e documentari di impegno su temi sociali. In quella occasione il regista sloveno Milan Zupanič ha presentato un documentario di 75 minuti – Sarajevo Safari, disponibile su Mubi - in cui scopre, tramite testimonianze di prima mano, quanto l’essere umano può essere senza scrupoli. Capace di sparare con un fucile da cecchino sulle teste di civili inermi, nel contesto di una guerra in cui non è neppure coinvolto, al solo fine di soddisfare un desiderio sadico. La barbara attività venatoria è messa su pellicola da Zupanič per dimostrare soprattutto, grazie all’indiscutibile forza delle immagini, quanto la miseria umana possa raggiungere profondità che vadano oltre l’orizzonte del pensabile.  Le indagini sui responsabili, sull’identità dei “turisti”, sono tuttora in corso. Ad oggi si conosce solamente il volto di una persona, peraltro piuttosto nota, che ha partecipato al safari. Questa persona è Eduard Limonov. Il cangiante scrittore e fondatore del partito nazional-bolscevico russo, la cui vita ha ispirato la biografia di Emmanuel Carrère, edita in Italia per Adelphi. In quest’ultima si narra della diretta partecipazione di Limonov alla guerra in Bosnia a fianco dei serbi, con tanto di simpatici scambi d’amicizia con il generale Arkan; d’altra parte, uno dei momenti topici della suo soggiorno nei Balcani, quando si sdraia, in posizione di tiro e con l’occhio sul mirino della carabina, pronto per sparare una sventagliata di colpi sulla città, sebbene omesso dal testo adelphiano, è stato reso pubblico dalla BBC e può essere fruito direttamente su Youtube.  Roma, Aprile 2024. XVII Martedì di Dissipatio Sul Viale dei cecchini, a Sarajevo, all’altezza dell’hotel Holiday Inn,vi era un cartello, immortalato dallo scatto del fotografo Enric Marti, su cui vi era apposta una macabra ingiunzione: “RUN OR R.I.P.”. Ai cittadini della capitale bosniaca questo monito era arcinoto, così come la convivenza con la morte, solo non sapevano che quest’ultima poteva essere portata oltre che da un soldato nemico, come sempre avveniva nelle guerre, anche da un turista annoiato, come per la prima volta avvenne in quell’estate del ’94.
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