a
cura
di
Alessandro Iurato
Le agenzie americane dedite alla sicurezza nazionale sono una delle maggiori forze politiche al mondo. Per quanto siano segrete però le loro tecniche e missioni spesso vengono a galla, grazie ai racconti dei loro agenti. In Italia non se ne sente sostanzialmente parlare – male, malissimo. Oggi intervistiamo uno dei più importanti whistleblowers americani.
John Kiriakou è stato prima analista e poi agente di collegamento della CIA, dal 1990 al 2004, impegnato nella sconfitta del terrorismo rosso in Grecia e poi capo delle operazioni antiterroristiche nel Pakistan infestato di jihadisti. Uscito dalla CIA ha informato l’opinione pubblica americana sulla tortura praticata senza limiti negli interrogatori ai membri di Al Qaeda, tra cui Abu Zabaydah, arrestato nel 2002 dallo stesso Kiriakou. Il governo americano lo ha perciò perseguitato ed incarcerato.
-Ci racconti il mestiere dell’analista alla CIA, quando negli anni Novanta si occupava di Medio Oriente e Iraq in particolare.
La funzione dell’Agenzia era quella di scovare segreti e fornire informazioni alla leadership statunitense. Uso il passato, perché oggi la CIA è un’organizzazione paramilitare. L’analista doveva raccogliere ed elaborare tutti i dati e le voci che poteva lui stesso trovare, e che venivano forniti dagli agenti dislocati all’estero. I contenuti dei rapporti mandati dagli agenti erano classificati in base all’importanza ed al destinatario: le notizie più delicate passavano prima per le scrivanie dei vertici, e magari ci rimanevano, mentre agli analisti erano dedicate informazioni di livello più basso. Il nostro era un lavoro di redazione e di persuasione all’interno dell’Agenzia.
Quest’ultimo punto va sottolineato. Per l’analista persuadere significava tendere inevitabilmente alla costruzione di narrative. Quindi, finiva per male interpretare le informazioni che riceveva e indossare i paraocchi per proteggere una storia costruita per mesi. Se poi si inseriscono nell’equazione le necessarie accortezze politiche, i fallimenti dell’intelligence erano frequenti e non possono sorprendere: alla CIA non riuscimmo a prevedere la caduta dell’URSS o chi avrebbe succeduto l’Ayatollah Khomeini. Un mio collega era stra-convinto che Saddam Hussein avrebbe invaso solo settori di frontiera del Kuwait, allo scopo di prendere dei pozzi petroliferi; portò avanti questa storia perfino quando l’intero esercito iraqeno era stato mobilitato al confine. Con quell’errore la sua carriera fu compromessa.
-Dopo anni da analista lei decise di diventare ufficiale di collegamento. Nel 1999 fu mandato in Grecia, dove la missione principale era sgominare il terrorismo rosso.
Gruppi terroristici di ispirazione marxista piagavano la Grecia da molto. In particolare sceglievano come obiettivi persone come me – agenti dei servizi e personale d’ambasciata degli Stati Uniti e della Gran Bretagna. Il primo assassinio compiuto dal gruppo più pericoloso, l’Organizzazione 17 Novembre, fu nel 1975 e costò la vita a Richard Welch, CIA Chief of Operations ad Atene; ci furono due tentati omicidi nei miei confronti, e mentre ero in Grecia fu assassinato Stephan Saunders, inviato militare dell’ambasciata britannica.
I Greek files nel quartiere generale della CIA erano un incubo: montagne di carta che non conducevano a niente. L’Organizzazione era straordinariamente brava a non lasciare tracce utili alle investigazioni, aveva una struttura amorfa e faceva uso di moltissimi fiancheggiatori. Era impossibile infiltrarci. Cercammo di seguire gli espulsi per eccessivo fervore o violenza dal Partito Comunista, possibili leve dei terroristi, ma nulla: assieme alle autorità greche brancolavamo nel buio. Alla fine il gruppo fu sgominato nel giugno 2002 per caso: un membro della cerchia interna, convinto di stare per morire dopo un incidente con una bomba, vuotò il sacco. Erano sostanzialmente solo cinque persone, oramai in là con l’età.
Roma, Gennaio 2025. XXIII Martedì di Dissipatio
-Da italiano sono colpito dalle date. In Italia un simile fenomeno terroristico si era sostanzialmente esaurito a metà anni Ottanta, e per quella data le forze dell’ordine italiane sembravano perlopiù in controllo.
La diversa longevità risiede in una serie di fattori. Intanto, in Europa Occidentale ci fu cooperazione poliziesca, dai tedeschi a caccia della RAF agli italiani; ciò mancò nel caso greco. Poi, il Partito Comunista greco non era stato reinserito nella vita politica democratica come quello italiano. Aveva tratti di semi-clandestinità, e la Grecia atlantista degli anni Sessanta era nata da una guerra civile dove i comunisti erano stati sconfitti. L’ultimo episodio repressivo nei confronti dei comunisti greci, e in verità diretto all’intera società greca, era stato quello dei Colonnelli, dal 1967 al 1974. Il vero punto cruciale era comunque l’omertà e la collaborazione silenziosa della popolazione greca, ancora scottata dalle ingiustizie subite. In Italia la principale reazione al terrorismo fu di repulsione e paura; gruppi come le BR convinsero solo pochi fanatici che l’edificio statale potesse crollare, sfiduciato dalla popolazione. Il terrorismo greco invece aveva origine in una dittatura che mancava di supporto popolare e aveva lasciato molti greci desiderosi di rivalsa. La popolazione tollerava il terrorismo rivolto ai macellai del regime e agli anglosassoni, reputati responsabili per l’incubo dei sette anni.
-E gli Stati Uniti erano effettivamente responsabili per il golpe.
Sì, ma non la CIA. Lo stato americano era già, e ancora più oggi è composto da molte agenzie potenti, spesso in competizione l’una con l’altra. Si finiscono per fare cose nonostante la forte opposizione di parte dell’apparato. Headquarters era contraria ad un colpo di stato in Grecia. All’epoca Gust Avrakotos, leggendario agente dell’Agenzia in Grecia, disprezzava profondamente i Colonnelli, i quali tra l’altro gli mentirono sulle loro intenzioni poche ore prima del colpo di stato. Furono Casa Bianca e Dipartimento di Stato, spinti personalmente dal Presidente Johnson, a sostenere il golpe a danno di un paese stabilmente alleato agli Stati Uniti.
-Se la sfiducia nei confronti dello stato motivò il terrorismo greco dopo il 1974, come mai non risorse dopo il tremendo colpo inferto dalla crisi del 2007 – 2015?
Perché era crollato una sorta di schema piramidale dal quale tutti ricevevano i benefici. Negli anni Ottanta Andreas Papandreou governò con la forma più disfunzionale di socialismo keynesiano, e il patto sociale greco non mutò troppo dopo l’entrata nell’Euro. Il paese viveva al di sopra delle proprie possibilità, e quindi i greci non poterono ritenersi innocenti quando il castello di carte crollò con le rivelazioni sulla manipolazione dei conti pubblici. Non era presente quella rabbia nei confronti di un gruppo di banditi e torturatori, che avesse agito contro il volere di gran parte dei cittadini.
-Domanda forse banale: come mai il terrorismo è così importante? Che fosse dopo l’11 settembre, o dopo l’attentato alla stazione di Bologna, il terrorismo catalizza enormi quantità di attenzioni e narrative – per poi alla fine scoprire che i terroristi erano solo un manipolo di persone, nani in confronto a colossi come la CIA.
Il problema del terrorismo è che è una grande X. Dal punto di vista di una agenzia di sicurezza bisogna presumere che si stia vedendo solo la punta dell’iceberg e che il disordine possa diffondersi come un incendio boschivo. Bisogna intervenire con piena forza per comprendere il fenomeno e immediatamente distruggerlo. Alla CIA e in tutta Europa si temeva che i terroristi greci fossero connessi con gruppi quali la RAF tedesca, insomma che potessero essere parte di un network internazionale. Oppure, quando Al Qaeda compì uno dei suoi primi attentati diretti agli Stati Uniti (una bomba a Riyadh che uccise soldati americani nel 1995), in sostanza non avevamo idea di chi fossero questi. Dopo gli attentati dell’11 settembre il Congresso sommerse di denaro le agenzie di sicurezza e gli diede poteri speciali, allo scopo già solo di capire cosa fosse accaduto. L’intera CIA, me compreso, mollò quello che stava facendo per riparare al suo fallimento di intelligence. E alla fine si scoprì che Al Qaeda era molto più piccola e debole del previsto, solo una particella nell’ecosistema jihadista.
-Le è mai capitato di collaborare con colleghi italiani?
Sì, soprattutto dopo l’11 settembre. Il mondo dei servizi fu sconvolto, e gli alleati degli Stati Uniti si mossero in aiuto. Alla CIA si aprì una politica di completa collaborazione con gli alleati. Una settimana dopo gli attentati ero ancora impegnato sul fronte greco, e mi diressi da Cofer Black, direttore del Centro Antiterrorismo e all’epoca dotato di poteri straordinari. Volevo interrogare dei greci emigrati in Italia per scoprire qualcosa sui membri del Gruppo 17 Novembre. Dato il budget virtualmente illimitato e la fiducia nei miei confronti, Black mi mandò senza fare troppe domande. La disponibilità da parte italiana fu completa, e intervistai i nonnetti greci che cercavo. Purtroppo la pista si rivelò infruttuosa.
-Lei si racconta da ex-agente della CIA. Per quanto scriva e parli con orgoglio dei propri successi da spia, la sua posizione attuale nei confronti dell’Agenzia e dell’intero mondo di Washington è molto negativa.
Ero convintissimo di star servendo il paese, di star facendo la cosa giusta. Ho poi assistito dall’interno alla nascita dell’Enhanced Interrogation Program, ovvero all’ingresso ufficiale e legalizzato della tortura nelle pratiche della CIA e della DIA, a partire dal 2002. Nacque a causa della presenza di persone di scarsa levatura morale in posizioni chiave (José Rodriguez o Dick Cheney), ma anche dalla carta bianca che ha caratterizzato il periodo della guerra al terrorismo: le normative sulla sicurezza divennero oggetti mistici con i quali violare ogni altro principio dell’ordinamento interno e internazionale. Io mi rifiutai di partecipare al programma, e successivamente decisi di agire per fermare la pratica. Tutti i sentieri di auditing istituzionale erano impraticabili, e quindi scelsi la stampa. Ne ho pagato le conseguenze. La mia vita è diventata un inferno: sono stato perseguitato dall’FBI, che cercava di costruire reati per mandarmi in prigione. Ho passato quasi due anni in cella, dal febbraio 2013, per aver passato informazioni alla stampa sotto l’Intelligence Identities Protection Act. Fui processato da principio come colpevole, non avevo speranza di evadere l’Eastern District of Virginia. Questo era il trattamento riservato ai whistleblower sotto l’amministrazione Obama. Oggi sono un attivista e giornalista, mi guadagno da vivere facendo sapere al mondo cosa ho visto e cosa mi sia accaduto.