a
cura
di
Francesco Subiaco
In questa fase ricca di curiose rievocazioni cinematografiche della storia italiana del primo novecento - specie se incentrate sulle vicende correlate con l'affermazione e lo sviluppo del regime fascista - in tanti hanno cercato di rileggere il passato con gli occhi dell'oggi e delle convenienze del momento. Forse più per facili strumentalizzazioni (tanto a destra quanto a sinistra) che superare facili mitologie orientate. Di fronte a questi tentativi occorre tornare, invece, ai contenuti, alle fonti, agli studi dei grandi storici europei. Per tale motivazione è necessario leggere e rileggere l'ultimo libro di Didier Musiedlak "La marcia su Roma. Tra storia e mito" edito Rubbettino (la cui edizione francese reca una splendida prefazione dell'Immortale di Francia, Maurizio Serra). Un testo che tramite fonti inedite e testimonianze nuove ricostruisce il ruolo della marcia su Roma nello scenario politico italiano dell'epoca e nell'immaginario costruito durante la dominazione fascista, restituendo, oltre facili lirismi e propagande di regime, il vero significato di quel drammatico evento. Per tale motivazione abbiamo intervistato, il professor Didier Musiedlak, già membro dell’École française di Roma, professore emerito di Storia contemporanea all’Università Paris-Nanterre, allievo di Pierre Milza e di Renzo De Felice, tra i più noti specialisti del fascismo italiano e dello studio comparato delle dittature.
-Professor Musiedlak nella realizzazione di questo libro ha potuto consultare nuove fonti, archivi inediti e testi sconosciuti o sottovalutati. Come questo libro si inserisce nella storiografia esistente? E quali innovazioni porta?
La ricchezza degli archivi inediti di due dei Quadriumviri (Italo Balbo e Cesare Maria De Vecchi) mi ha dato una nuova prospettiva sulla marcia su Roma e mi ha permesso di rivederne la storia. Questo libro è, quindi, un tentativo di sfatare i miti, partendo dall'ipotesi che le strutture politiche del fascismo fossero incomplete, se non altro per quanto riguarda la formazione del Partito della Milizia, che era ben lungi dall'essere uno strumento efficace. Italo Balbo ne era perfettamente consapevole, come confidò privatamente nel dicembre 1938. Nulla lasciava presagire, nemmeno nella mente di Mussolini, che ci sarebbe stato un esito politico felice. Grazie ai nuovi archivi, è stato possibile ripercorrere gli elementi costitutivi della marcia, includendo non solo il percorso rivoluzionario, che sembrava destinato al fallimento, ma anche esaminare più da vicino le trattative condotte dal partito, che furono decisive. Lo svolgimento dell'azione ha permesso di ridimensionare gli attori a scapito del Segretario Generale del Partito (Michele Bianchi), sempre più emarginato a favore degli esperti militari (Italo Balbo) e dei responsabili delle trattative con la monarchia (Cesare Maria De Vecchi).
-La marcia fu secondo lei un “event monstre”?
Per molti aspetti, la marcia entra nella definizione (coniata dallo storico Pierre Nora e rilanciata da Georges Duby nel 1989) dell “evento-mostro”. Esso ha aperto l'Italia alla modernità politica separandola dalle società tradizionali governate dalla quiete del tempo. C'è effettivamente una rottura. Il suo significato è assorbito dal suo impatto. L'evento è infatti inseparabile dalla formidabile eco che la modernità rende possibile grazie al sistema dei mass media. Il suo potere è legato alla capacità di rimodellare il passato e di plasmare il futuro. L'“evento mostro” inaugura di fatto una nuova struttura temporale. Al centro del dispositivo c'è la formidabile eco generata dalla narrazione, che nel tempo occuperà una quantità smodata di spazio. Il significato dell'evento viene così rivelato dall'esperienza temporale della narrazione, che permette di dare alla storia un ritmo diverso da quello della cronologia (R. Koselleck). In questo senso, la marcia su Roma ha soddisfatto pienamente le condizioni necessarie, consacrando le masse come attori della storia. Anche se molti aspetti la allontanano da eventi spesso considerati come affini quali la presa della Bastiglia e la Rivoluzione bolscevica.
-Che tipo di evento fu davvero la marcia su Roma? E quale fu la sua reale natura: insurrezionale o farsesca?
Gli storici hanno cercato di rendere conto della natura della marcia ponendo la questione centrale della sua importanza in relazione alla costituzione del regime fascista, senza interrogarsi con sufficiente pertinenza sul grado di contaminazione rispetto al mito. Il prima e il dopo della marcia sono stati, infatti, ripensati in funzione di questo evento di ristrutturazione, dandogli un senso e assegnandogli un obiettivo di progresso con la nascita del regime. La marcia su Roma divenne, quindi, rapidamente la storia del successo di Mussolini e come tale parte di un'operazione simultanea che combinava pressioni miliziane e ricerca di un accordo di governo. In realtà, Mussolini non pensò mai di poter arrivare al potere solo attraverso l'insurrezione. Allo stesso tempo, non intendeva raggiungere il potere solo con mezzi legali, poiché temeva che il fascismo sarebbe stato digerito dalle istituzioni liberali. I due approcci erano quindi strettamente intrecciati per garantire l'insediamento di un governo presieduto da Mussolini.
-Fu più un evento “mitologico” o una insurrezione vera e propria?
Mussolini fu molto chiaro su questo punto nel 1944, quando discusse del posto da dare alla marcia nella storia del fascismo. Il mito era più importante dell'evento stesso. La marcia, secondo il duce, era senza dubbio la condizione stessa che permetteva di ipotizzare una rivoluzione, ma non certo una rivoluzione in atto sul piano insurrezionale. Essa rese possibile la presa del potere a causa della passività delle istituzioni dell'Italia liberale, che permise di evitare un colpo di Stato. Nella memoria degli squadristi, la marcia rappresentò una “rivoluzione deludente” rispetto al periodo precedente al 28 ottobre, strutturato dalla presenza del nemico e dal primato del combattimento. Uno sguardo più attento agli attori coinvolti conferma che non si trattò di una rivoluzione, ma piuttosto della rappresentazione simbolica e politica del crollo delle istituzioni liberali.
-Evento corale o allo grande disegno politico di regia mussoliniana. Che ruolo svolse Mussolini nella marcia su Roma e in relazione con i suoi tanti coprotagonisti?
La questione rimane aperta, anche se molti elementi mettono in dubbio l’azione personale di Mussolini. La prima tesi, sviluppata nei primi anni Trenta, mirava a includere il duce nel mito squadrista della nazione in armi. La narrazione dell'epopea doveva mostrarlo mentre combatteva. Mussolini non si mosse dalla sede del giornale il 28 ottobre dopo essersi recato sulla barricata per attendere con calma e freddezza l'esito degli eventi. Questa tesi eroica fu ripresa da Giorgio Pini, futuro direttore del Popolo d'Italia, che affermò addirittura che nella confusione una pallottola sfiorò la testa di Mussolini. In sostanza, il duce divenne parte integrante del mito squadrista. Grazie alle sue capacità di trattare con le autorità militari, evitò l'irreparabile. Questa è la versione santificata dal regime e da Mussolini stesso. C’è però un'altra teoria molto meno gloriosa per il duce e basata su diverse testimonianze...
-Ovvero?
Mussolini avrebbe trascorso la notte tra il 27 e il 28 ottobre a casa della sua amante, Margherita Sarfatti (Il Soldo), vicino a Como, dove si recava in treno o in auto, essendo la sua residenza a meno di cinquanta chilometri da Milano. La mattina del 29 ottobre (alle 9), proprio nel momento in cui Antonio Salandra annunciava l'impossibilità di formare un nuovo governo, Mussolini era di fatto introvabile. Non era né a casa né al giornale. Tutto lasciava pensare che avesse trascorso la notte a Soldo, la casa estiva della sua amante a Cavallasca, un piccolo paese a 41 km a nord di Milano e a pochi minuti dal confine svizzero. È più probabile che in quei giorni cruciali abbia attraversato un periodo difficile, superato soprattutto grazie all'aiuto di Margherita Sarfatti, secondo la testimonianza dell'ambasciatore tedesco, Werner von Schulenburg. Per tutta la sua vita, Mussolini ebbe serie difficoltà a superare le situazioni dominate dall'incertezza e dal rischio che lo coglievano impreparato. Spesso passava dall'euforia al profondo sconforto. Mussolini risentirà di questa stessa sindrome depressiva soprattutto all'epoca del caso Matteotti e durante la votazione del 25 luglio 1943, quando rimase prostrato, senza sapere cosa fare. La verità sta nel fatto che Mussolini fu chiamato legalmente al potere dal Re per portare avanti la rivoluzione che intendeva guidare in nome del popolo italiano. Tutto sommato, all'apparenza non c'era nulla di veramente eccezionale, a parte il fatto che Mussolini non immaginava che sarebbe rimasto al potere per più di vent'anni, anzi...
-Quali sono i limiti almeno sul piano dell'importanza che è opportuno attribuire all'avvenimento?
Per quanto concerne la sua dimensione rivoluzionaria, la marcia non ha avuto il contenuto che i suoi sostenitori vollero darle. A questo proposito, essa non ebbe in alcun momento la densità che ha caratterizzato la presa della Bastiglia o la rivoluzione bolscevica per una semplice ragione: la mobilitazione sociale degli squadristi rimase molto limitata e non ebbe l'effetto di trascinamento previsto nel paese.
Lontano dalla simbologia e dall'ideologia diffuse dal regime, in realtà la marcia rispose imperfettamente al mito nazionale rivoluzionario come era stato immaginato dagli ultras del Partito e da Benito Mussolini. Certo, il nazionalismo italiano si era considerevolmente modificato con la prima guerra mondiale, integrando le masse che, fino ad allora, erano rimaste estranee al mondo politico. Un mito nuovo rivoluzionario di rigenerazione aveva cominciato a svilupparsi prendendo in prestito elementi alla sinistra radicale e alla destra, in particolare dopo l'occupazione di Fiume nel 1919. In effetti, fu l'espressione di un nazionalismo nuovo incarnato dalla mobilitazione squadristica che permise alla marcia su Roma di concretizzarsi. Ma, non avendo in fin dei conti la forma di una forte dimostrazione di massa, questa, di conseguenza, ha potuto essere canalizzata nel quadro delle istituzioni liberali.
In realtà, l'insurrezione fu effettivamente un'impresa collettiva, condotta dall'insieme dello stato maggiore del Partito, per la quale è difficile identificare il ruolo svolto da ciascuno dei protagonisti quando si tenta di ricostruire il complesso delle operazioni. Il primo posto spetta indubbiamente ai capi squadristi che si mobilitarono da soli più che su iniziativa dei quadrumviri, i quali si rivelarono incapaci di gestire la situazione militare. L'esistenza del Partito armato non può essere contestata, né può esserlo la mobilitazione. Ma senza il concorso dello stato maggiore politico del fascismo nella sua struttura partitica, l'impresa avrebbe inevitabilmente condotto a una cocente sconfitta militare.
-Che ruolo svolse la componente militare e politica che si mosse a Roma nell’ambito della via negoziale?
Un ruolo centrale che è stato estremamente sottovalutato. A Roma fu affidata a Dino Grandi, Cesare Maria De Vecchi, Giacomo Acerbo, Costanzo Ciano, associati a Gaetano Polverelli e a Giovanni Marinelli (tutti membri del Partito), la missione di negoziare a nome di Mussolini con Antonio Salandra. L'opzione insurrezionale e l'opzione politica furono portate avanti congiuntamente fino alla fine, a scapito del mito rivoluzionario, che ne uscì fortemente indebolito. Contrariamente alla leggenda del tradimento trasmessa da Galeazzo Ciano nel suo Diario, De Vecchi fu l'interlocutore privilegiato nel dialogo con il re in nome del Partito e di Mussolini per facilitare l'accesso del fascismo al potere. Al riguardo, il ruolo di Acerbo fu probabilmente lungi dall'essere trascurabile per quanto concerne gli intrighi parlamentari. A causa di questa stessa dimensione politica nella presa del potere, la missione di Balbo, che effettivamente incarnava il mito del popolo in armi nella tradizione della Rivoluzione francese à la Saint-just, è stata probabilmente sopravvalutata in virtù del primato che, a lungo, la storiografia ha riconosciuto all'opzione sovversiva rispetto alla strada del negoziato politico che fu, invece, cruciale e sostanziale.
-In cosa consiste l’originalità della marcia su Roma rispetto ad altri avvenimenti (più o meno) analoghi?
Ma, a parte le riserve insite nella sua stessa natura che abbiamo evidenziato, è innegabile che la marcia su Roma fosse un avvenimento gigantesco grazie alla sua risonanza non nell'immediato, ma dopo il consolidamento del regime. La sua singolarità consiste nel fatto che, contrariamente alla Rivoluzione francese, alla rivoluzione dell'ottobre 1917 o all'11 settembre 2001, non vi è stata simultaneità tra l'avvenimento e la sua risonanza internazionale. Su questo piano, la marcia ha avuto pochi echi nel breve periodo. L'opinione pubblica la percepì come un colpo di Stato tecnicamente riuscito e non come una rivoluzione che sarebbe stata paragonabile alla rivoluzione bolscevica. L'avvenimento fu ampiamente ripensato dal fascismo divenuto regime, che si incaricò di magnificare la marcia a posteriori a partire dalle novità generate come all'origine di un'autentica rivoluzione. А questo proposito, il regime seppe dar vita a un immaginario eccezionale e a un'iconografia rivoluzionaria, che gli permise di fondare la propria legittimità per mezzo della marcia. Tuttavia, nel 1932, il mito del duce aveva largamente alterato la natura dell'avvenimento, spogliandolo di molti dei suoi attributi reali. Oramai, si trattava di narrare le sole prodezze di Mussolini a scapito dei suoi vecchi compagni d'armi, che deploravano l'evoluzione presa dal regime. Situata nel cuore della religione fascista, la figura del duce era considerata come l'interprete della coscienza nazionale, l'elemento chiave del dispositivo del sistema totalitario italiano. Era riconosciuto al duce di essere stato il fondatore del movimento e di essersene assunto la missione storica, che gli era stata affidata con la marcia. Definiti come i «crociati della nazione», gli squadristi permisero di diffondere presso le masse i riti fondamentali del culto fascista, il saluto romano, il giuramento, la sacralizzazione della nazione e della guerra, la benedizione degli emblemi (il Littorio), gli onori resi ai morti e ai martiri e, infine, il ricorso alle cerimonie di massa. Ma, come aveva lasciato intendere Alfredo Rocco, il fascismo era uno Stato di masse, ma non uno Stato delle masse.