Siamo un Continente sotto assedio

In un mondo segnato da polarizzazioni interne, crisi della democrazia e pressioni esterne generate dall’universalismo occidentale, l’Europa appare un vaso di coccio tra potenze inquiete e identità in conflitto. Per evitare nuove derive e preservare la propria autonomia culturale, il Continente deve recuperare realismo, responsabilità e la propria tradizione di saggezza storica, coltivando dialogo, misura e limiti nel potere, per navigare un ordine globale sempre più instabile e imprevedibile oggi.

L'editoriale

di Sebastiano Caputo

Zohran Mamdani non è una meteora

Zohran Mamdani non è un incidente elettorale: è la rappresentazione di una tendenza che attraversa l’Occidente, in cui la sinistra torna a essere minoranza identitaria e antagonista, dopo decenni di compromesso. La sua vittoria alle elezioni newyorkesi, letta da molti come un referendum implicito sulla questione palestinese, segna la rottura definitiva tra l’ala progressista urbana e l’apparato centrista del Partito Democratico. La frattura è netta: chi vede in Israele un alleato strategico e chi, come Mamdani, chiede una ridefinizione etica e politica del rapporto con lo Stato ebraico alla luce delle violazioni dei diritti umani. La particolarità del momento è che la discussione non è più confinata alla sinistra. All’interno del mondo intellettuale MAGA si registrano posizioni inedite: Nick Fuentes, simbolo dell’ultradestra millennial, ha espresso toni apertamente anti-israeliani; Tucker Carlson, più calibrato, sposta la critica su basi geopolitiche, ma di fatto contribuisce a sdoganare un anti-interventismo che rompe con il neoconservatorismo tradizionale. È il segno che la questione palestinese, per la prima volta da decenni, attraversa lo spettro politico in modo trasversale, ridisegnando alleanze e categorie. In questo contesto, il ritorno d’interesse per figure come Mamdani non nasce da un’utopia vintage ma da una crisi sistemica. Peter Thiel, miliardario libertario e ideologo della Silicon Valley, lo aveva intuito già nel 2020: in una lettera a Mark Zuckerberg, oggi ripubblicata su The Free Press, scriveva che “il capitalismo non sta più funzionando per i giovani”. Thiel individuava nella generazione post-crisi il terreno fertile per un revival socialista, più per disperazione economica che per ideologia. Era una previsione interna al mondo americano, dove il costo dell’università e della casa - due beni che in Italia restano in larga parte pubblici o di proprietà - ha trasformato l’ascensore sociale in un miraggio.  Roma, Novembre 2025. XXIX Martedì di Dissipatio Quando un venture capitalist come Thiel riconosce che la sua stessa creatura, il capitalismo californiano, non garantisce più prospettive, il problema non è più ideologico: è strutturale. La New York che elegge Mamdani non è l’America profonda, ma è il laboratorio culturale dove i segnali arrivano prima. Qui si testano linguaggi, movimenti, narrative che poi si diluiscono nel mainstream. E in questo senso la sua affermazione non è locale: parla a un’intera generazione globale che fatica a trovare rappresentanza politica e strumenti di riscatto. La sinistra radicale statunitense non ha più il monopolio dei campus o dei quartieri gentrificati; si muove dentro la crisi urbana, dentro le contraddizioni di un modello economico che crea innovazione e precarietà in dosi simili. Mentre la destra occidentale - da Trump a Meloni - lavora per diventare nuovo establishment, rassicurando mercati e classi medie, la sinistra che non si riconosce in quel compromesso sceglie di spostarsi verso un terreno più conflittuale. È una strategia di sopravvivenza e di identità. La radicalità diventa il modo per non essere riassorbiti, e la figura di Mamdani rappresenta la traduzione elettorale di questa logica: un parlamentare che parla di debito studentesco, Gaza, edilizia popolare, come se fossero parti dello stesso discorso di liberazione economica. Ciò che emerge non è la nostalgia del socialismo novecentesco, ma la costruzione di una nuova grammatica della disuguaglianza. In Europa, dove welfare e proprietà diffusa ammortizzano ancora l’impatto del mercato, il discorso resta in parte astratto. Ma la tensione è comune: le giovani generazioni non vedono più nella sinistra tradizionale una garanzia di emancipazione, e guardano a esperienze che osano ridefinire il perimetro morale della politica. Zohran Mamdani non è dunque una meteora, ma il sintomo di un movimento tellurico che parte da Brooklyn e si riflette a Londra, Berlino, Milano. È la prova che la radicalità non è più un vezzo minoritario, ma la forma attraverso cui una parte dell’Occidente tenta di sopravvivere alla normalizzazione del conflitto.  di Sebastiano Caputo e Davide Arcidiacono
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La svolta nazionalista in Iran

La presentazione del monumento a Re Shapur I a Teheran segna un cambio di paradigma nella narrazione iraniana: dal predominio religioso alla valorizzazione del passato imperiale e del sentimento nazionale. In un momento di isolamento e difficoltà economico-militari, la Repubblica Islamica riscopre le glorie persiane per rafforzare il fronte interno, riaffermare l’orgoglio nazionale e lanciare un messaggio di resistenza all’Occidente.

La metamorfosi marittima italiana

La nuova fase della postura marittima italiana culmina nel progetto di una portaerei a propulsione nucleare, previsto dal Documento Programmatico 2025-2027. Dopo l’esperienza della Cavour e della Trieste, l’Italia mira a consolidare la propria presenza tra Mediterraneo e Indo-Pacifico, rafforzando la cooperazione con Washington ma anche la capacità autonoma di proiezione, cardine della futura identità geopolitica del Paese.

L’Italia senza satira

La morte di Giorgio Forattini diventa simbolo della fine della satira come voce critica: in un’Italia rassegnata e distratta, il riso non ferisce più il potere ma lo alimenta. Dalla corrosione di Luttazzi e Ricci alla leggerezza dei meme, la risata si è svuotata di senso, ridotta a puro anestetico sociale privo sia d'indignazione che di pensiero.

Interviste

a cura di Francesco Subiaco

Marco Tarchi: «L’a-fascismo di Meloni è un efficace strumento tattico, ma è ancora piuttosto carente di contenuti identificativi.»

Politologo, professore emerito al Cesare Alfieri, per molti fondatore della Nuova Destra italiana, tra i maggiori studiosi dei populismi e delle sismografie della politica italiana, Marco Tarchi torna con "Le tre età della fiamma. La destra in Italia da Giorgio Almirante a Giorgia Meloni" (edito per Solferino) a indagare la storia del "popolo della destra" dal Movimento Sociale a Fratelli d'Italia. Il libro (dove l'autore viene intervistato da un grande giornalista come Antonio Carioti), insieme analisi e bilancio, ripercorre l'evoluzione della destra postfascista dalle origini idealistiche alla normalizzazione istituzionale, con una voce critica e disincantata che non cede né all'apologia né al pregiudizio, ma illumina con lucidità le sue ambivalenze e i suoi destini. -Quali sono le tre età della fiamma e quali ne sono stati i protagonisti e le bussole? Quelle che corrispondono all'arco di esistenza dei partiti che hanno scelto o conservato quel simbolo: il Movimento sociale italiano (neofascismo), Alleanza nazionale (postfascismo), Fratelli d'Italia (afascismo). Ciascuno con i suoi esponenti di punta: Michelini, Almirante, Fini, Meloni. -Che funzione svolse il MSI nella Prima Repubblica e quale eredità ha lasciato al Paese? Essenzialmente quella descritta a suo tempo da Almirante: traghettare i fascisti in democrazia e offrire loro una rappresentanza, nella speranza andata di fatto delusa di demolire l'immagine crociana del fascismo come parentesi e di fargli riconoscere un ruolo legittimo nella storia italiana. -Quale tipo di rapporto esisteva tra gli "intellettuali di destra" e destra politica durante la prima Repubblica e come è cambiato successivamente? Ed oggi come procede? Non sono mai stati rapporti facili, perché i dirigenti di Msi ed An e, mi pare, anche di FdI hanno sempre guardato con sufficienza e diffidenza a chi pretendeva di insegnar loro come si fa politica o, comunque, si azzardava a criticare alcune delle loro mosse. A chi si dimostrava più disposto a cantare nel coro è stato lasciato qualche limitato spazio giornalistico; gli altri hanno subìto emarginazioni e accuse di fare il gioco del nemico. E, in ogni caso, i loro sforzi per far sentire voci alternative nel panorama culturale italiano dominato dal progressismo non hanno goduto di nessun sostegno economico od organizzativo. Nemmeno quando questa destra è passata a ricoprire ruoli di governo e sottogoverno. -Che tipo di eredità e insegnamenti ha lasciato, invece, la Nuova Destra italiana alla futura classe dirigente-intellettuale di An e FDI? E nei suoi valori? Scarsisissima, per non dire inesistente, malgrado qualche isolato interesse di singoli esponenti, specialmente all'epoca del Msi, per le idee che la Nuova Destra esponeva. Il vertice missino temeva di subirne la concorrenza sul piano mediatico e proibiva la circolazione delle sue pubblicazioni nelle sedi del partito; quello di Alleanza Nazionale ha subito imboccato una strada che andava in direzione opposta rispetto a ciò che fin dagli anni Settanta la ND predicava. Invece di superare lo spartiacque sinistra/destra e di abbracciare tematiche trasversali (ecologia, difesa delle culture popolari, rifiuto della logica capitalista dell'accumulazione illimitata, critica dell'egemonia statunitense e dell'occidentalismo), lo ha santificato e se ne è servito. -Perché in Italia non è mai nato un Partito Conservatore e quali furono i tentativi che potevano favorire tale esito? E secondo lei oggi cosa manca ad FDI per trasformarsi in un Conservative Party come quello britannico? Per quanto paradossale possa apparire, l'ostacolo cruciale è stato l'affermazione del fascismo, che ha fuso istanze conservatrici e (confuse) aspirazioni rivoluzionarie all'insegna di una condanna senza appello del vecchio mondo. Questa contaminazione ha fatto apparire i conservatori mere ruote di scorta del fascismo e li ha condannati all'esecrazione pubblica, costringendoli a rintanarsi sotto l'ala della Democrazia Cristiana. Quando Tangentopoli li ha liberati da quella condizione di cattività, si sono accontentati della mistura liberal-qualunquista di Berlusconi, che li ha fagocitati. Una solida cultura conservatrice nell'Italia degli ultimi cento anni non si è formata, e malgrado gli sforzi di Meloni di aggrapparsi a questa etichetta per liberarsi dei sospetti di continuità con le origini ideologiche missine, non vedo oggi alcun segno di una sua fioritura. Roma, Novembre 2025. XXIX Martedì di Dissipatio -Quale era l'immaginario politico e culturale della gioventù del MSI e di An e come essi condizionarono la politica italiana? E secondo lei ora il melonismo, aldilà di un certo pragmatismo personalista, può costruire una propria mitologia politica e culturale? Occorre essere sinceri: i giovani missini e i loro continuatori hanno sempre coltivato, nel loro immaginario, un culto del fascismo, sia pure nelle espressioni più diverse delle sue molteplici anime: poco mussolinismo e molta passione per fenomeni affini idealizzati e ritenuti più puri: la Guardia di Ferro rumena, la Falange spagnola, il rexismo belga, il peronismo argentino delle origini. Per non parlare degli aperti richiami al nazionalsocialismo presenti in un autore di culto come Adriano Romualdi. I tentativi di transitare dal passato al presente operati dalla Nuova Destra, soprattutto attraverso il richiamo alle idee e analisi di Alain de Benoist, hanno attratto solo una componente minoritaria di quegli ambienti. Non a caso, è stata la Nuova Destra ad appassionarsi all'opera di Tolkien e a divulgarla: ma questo accadeva mezzo secolo fa. Il fatto che dalla cerchia meloniana vengano solo richiami a quell'epopea, dimostra che non c'è stata, da allora in poi, alcuna significativa elaborazione autonoma. Mi sembra difficile che, in questa situazione, si possa pensare alla nascita di una mitologia politica e culturale originale. -Di fronte al pragmatismo meloniano oggi le anime laburiste, sociali o marcatamente alternative che spazio possono trovare nella destra nazionale di Fdi? C'è il rischio della fuga di queste anime? Verso sinistra probabilmente no, perché anche da quella parte, dalla caduta del Muro di Berlino in poi, sono state ben poche le suggestioni culturali in grado di attivare quella dinamica di nuove sintesi in cui la Nuova Destra aveva sperato. Anzi, si è innescato un processo di integrazione di vecchi residui marxisti e frammenti di liberalismo che ha dato vita a quell'ideologia progressista che oggi si esprime nell'ondata woke, quanto di più lontano ci può essere dalle istanze sociali che, pur in mezzo a molte contraddizioni, trovavano qualche spazio nel Msi o in An. Le anime di cui Lei parla rischiano di fare la stessa fine di sempre: abbandonare la politica e, soprattutto, la lotta delle idee per effetto di un'insopportabile delusione. -Molti hanno definito Futuro e Libertà una sorta di azionismo di destra. Ma la destra futurista finiana fu più una cometa di quella attuale o una semplice meteora che la precedette? Non vedo nessun rapporto fra la fuga in avanti simil-progressista di Fini e le attuali posizioni di Fratelli d'Italia. Tutt'al più si potrebbe azzardare, come da più parti è stato fatto, un paragone con Democrazia nazionale, ma le condizioni sistemiche di cinquantanni fa erano talmente diverse da quelle odierne da rendere la comparazione poco convincente. -Di fronte alle cosiddette "derive anti-sistema" di Le Pen e Weidel, Meloni oggi sembra seguire un sentiero riformatore più pragmatico. Secondo lei inizierà una melonizzazione (con i compromessi di governo ad essi conseguenti) anche alle estreme destre tedesche, britanniche e francesi o avverrà viceversa una sua radicalizzazione? Starei attento alle parole: il populismo, e chi lo incarna, non è antisistemico, è anti-establishment. E non lo confonderei con l'estrema destra, che è un fenomeno gruppuscolare. Ad ogni modo, sì, il modello Meloni potrebbe trovare estimatori e imitatori, ma con molti e sostanziali adeguamenti, perché ogni paese ha proprie caratteristiche che necessariamente condizionano tattiche e strategie. -Come si inserisce oggi il ruolo di Meloni nella storia e nel cammino della destra? E vede dei precedenti, delle visioni e delle radici nel melonismo o si tratta di puro pragmatismo? Non esageriamo. Precedenti e radici di quello che, per il momento, è un semplice esperimento di governo? Mi paiono termini, e concetti, che esorbitano dai dati contingenti. L'a-fascismo di Meloni è un efficace strumento tattico, ma è ancora piuttosto carente di contenuti identificativi: dentro c'è molto nazionalismo, una buona dose di conservatorismo sui temi etici, un solido retroterra law and order: non grandi novità, direi. Ma il ruolo di Meloni è quello di essere riuscita a portare alla guida del governo italiano la destra di ascendenza missina. Non è certo poca cosa. -Perché togliere la fiamma dal simbolo potrebbe essere un errore? Prima di tutto perché significherebbe piegarsi a un'imposizione degli avversari, che peraltro la derubricherebbero a mossa ipocrita e meramente tattica. E poi perché non farebbe guadagnare un voto ma potrebbe farne perdere una pur ridotta parte -Nel bagaglio formativo di molti militanti di destra (spesso delle giovanili di FDI) si trovano da Evola a Bobby Sands, da Degrelle a Pound. Oggi quali sono (o potrebbero essere) secondo lei i saggi e le opere che costituiscono il bagaglio della nuova destra meloniana? Siamo certi che questo bagaglio esista? Bastano le citazioni di Roger Scruton o di Giovanni Paolo II, per non tornare allo scontato Tolkien, per riempirlo? Ne dubito. Meloni fa politica, non ideologia. E, come ha già variamente dimostrato, vuole avere le mani libere per cambiare rotta ogni volta che lo giudica opportuno: oggi sull'Unione Europea, sulla Russia di Putin, sul ruolo degli Stati Uniti nell'ordine mondiale. Domani chissà.
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Interviste

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Marco Tarchi: «L’a-fascismo di Meloni è un efficace strumento tattico, ma è ancora piuttosto carente di contenuti identificativi.»

«Il populismo, e chi lo incarna, non è antisistemico, è anti-establishment. E non lo confonderei con l'estrema destra, che è un fenomeno gruppuscolare. Ad ogni modo, sì, il modello Meloni potrebbe trovare estimatori e imitatori, ma con molti e sostanziali adeguamenti, perché ogni paese ha proprie caratteristiche che necessariamente condizionano tattiche e strategie.»
Marco Tarchi: «L’a-fascismo di Meloni è un efficace strumento tattico, ma è ancora piuttosto carente di contenuti identificativi.»

Giulio Sapelli: «Il trumpismo, più che un rigurgito reazionario, mi sembra una versione americana di quella che fu la grande rivoluzione di Mao.»

«La vittoria di Trump punta ad una riscrittura delle categorie valoriali e degli equilibri politici degli USA, archiviando così i canoni borghesi e woke. L'ultimo Mao è, quindi, Donald Trump.»
Giulio Sapelli: «Il trumpismo, più che un rigurgito reazionario, mi sembra una versione americana di quella che fu la grande rivoluzione di Mao.»

Guillaume Tabard (caporedattore Le Figaro): «Ci sono stati dei gollisti dopo De Gaulle. Non ci saranno macronisti dopo Macron.»

Cosa sta avvenendo tra le pieghe della società francese e quale sarà il futuro delle destre? Ne parliamo con Guillaume Tabard, caporedattore ed editorialista politico del quotidiano "Le Figaro", che nei suoi ultimi libri ha indagato i nodi e le "maledizioni" della destra, oltre a mostrare vizi e virtù del tecnocentrismo del Presidente della Repubblica, Emmanuel Macron.
Guillaume Tabard (caporedattore Le Figaro): «Ci sono stati dei gollisti dopo De Gaulle. Non ci saranno macronisti dopo Macron.»

Il sonno dell’Europa e il risveglio delle civiltà. Le prospettive di Sergio Vento sul rapporto transatlantico e l’ordine internazionale

«Viviamo in un'epoca in cui molte leadership politiche sono contraddistinte da debolezze estreme che vengono mascherate da roboante velleitarismo. Una impostazione a cui spesso si aggiunge un alto grado di improvvisazione e impreparazione delle élites globali.»
Il sonno dell’Europa e il risveglio delle civiltà. Le prospettive di Sergio Vento sul rapporto transatlantico e l’ordine internazionale

Lamberto Dini: «Penso che in Ucraina più che una pace avremo un armistizio sul modello coreano. Ma Zelensky segua Trump.»

«Credo che Kiev dovrebbe agire in sintonia con l’azione del presidente USA senza contrastare i suoi orientamenti, ma dotandosi di sano realismo. Anche perché senza Washington la stessa azione dell’Ucraina non ha futuro.»
Lamberto Dini: «Penso che in Ucraina più che una pace avremo un armistizio sul modello coreano. Ma Zelensky segua Trump.»

Effetto Mamdani

Laddove in passato le alte sfere del Partito Democratico statunitense sono riuscite ad inquadrare la propria base in una struttura organizzativa a rigida vocazione gerarchica, neutralizzandone di volta in volta le istanze più spinte in favore di un moderatismo da molti percepito come letargico, la schiacciante vittoria di Zohran Mamdani dimostra in maniera plastica l’efficacia di un approccio bottom up, spontaneo e grassroots nel promuovere una linea politico-ideologica per diversi aspetti agli antipodi dell’ortodossia liberal.

Ostaggi della cultura di massa

Attraverso Masscult e Midcult, Dwight Macdonald già sessant'anni fa smascherava la cultura di massa come esito della produzione autoreferenziale moderna, dove ogni forma, pensiero e desiderio si riducono a consumo. Nel suo testo (ripubblicato nel 2018 da Piano B Edizioni) mostrava come la società contemporanea, fagocitata dal piacere e dalla distrazione, abbia dissolto l’arte, la coscienza e l’individualità in un eterno ciclo di simulazione, consenso e alienazione collettiva.

Il baricentro tedesco

La crescente fragilità dell’Unione Europea ridefinisce gli equilibri continentali, con una Germania che, tra potenza industriale e disciplina fiscale, tenta di affermare una nuova centralità strategica. Mentre Londra consolida l’asse nordico e Parigi appare indebolita, Berlino si prepara a guidare la trasformazione militare ed economica dell’Europa post-Brexit.

Confessioni

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Giuseppe De Rita

Grande esponente di quella silenziocrazia italiana e ricercatore sociale tra i più acuti, capace di auscultare le mutazioni e fibrillazioni delle tante oligarchie italiane: Giuseppe De Rita è il maggior conoscitore della fenomenologia delle fisiologie e patologie della società italiana. Un maestro di pensiero e metodo che nella sua attività di fondatore e presidente del Censis ha raccontato e mostrato come nessun altro il nostro Paese tramite le considerazioni generali dei suoi rapporti, oltre che tramite testi straordinari (di Francesco Latilla e Francesco Subiaco)
Giuseppe De Rita

Le Grandi firme

di Enrico Raugi

Anatomia di due rivoluzioni novecentesche

Antonio Gramsci aveva mutuato il concetto di «rivoluzione passiva» dall’opera di Vincenzo Cuoco sulla rivoluzione napoletana del 1799. Quest’ultima non si era accesa a seguito di una scossa tellurica proveniente dalle classi subalterne. A scompaginare l’ordine monarchico borbonico erano state le armate giacobine discese in Italia due anni prima. I francesi avevano trovato il popolo partenopeo sprovvisto di coscienza di classe, passivo ed ostile, proprio in quanto ai loro occhi la rivoluzione rispondeva ad un’istanza non richiesta, essa era stata “importata”, per non dire imposta. Lo scollamento fra la classe intellettuale, che plaudì lo sconvolgimento politico, e la gran massa popolare, che non capiva i motivi di un tale tumulto e che, in qualche modo, si trincerò dietro alla convinzione antica secondo cui «un male conosciuto è meglio del nuovo», favorì in pochi mesi il tramonto della Repubblica napoletana e la restaurazione dei Borboni. Gramsci utilizzò - a ragione – questa lente per interpretare allo stesso modo la stagione del Risorgimento. Le classi popolari italiane, ancora lontane dalla possibilità di istruirsi, impermeabili ai fatti dalla grande storia che si stava compiendo sotto i loro occhi, subì passivamente la cosiddetta «funzione Piemonte». Ossia quella strana forma di rivoluzione che fu condotta dall’alto, portata a compimento dalla cavalleria savoiarda, con il consorzio di un nobile intellettuale come Cavour, il cui acume strategico aveva reso possibile il sogno dell’Italia unita sfruttando una finestra temporale favorevole nella bisca della politica europea. Per questo “difetto genetico” – più di un secolo dopo - l’Italia poteva ancora apparire nelle parole di Francesco Cossiga un paese «incompiuto». Questa breve e parziale disamina introduttiva serve a sottolineare il senso negativo che il concetto di rivoluzione passiva implica. Ovviamente esiste la polarità opposta. Una rivoluzione che – gramscianamente – ha visto l’attiva e determinante partecipazione del popolo, alleato con la classe media, intellettuale o borghese, nel rovesciamento di un sistema politico in favore di uno nuovo. La storia del Novecento ha visto due episodi di questo tipo portarsi a compimento: l’uno nella prima metà, l’altro nella seconda. E queste epopee non si sono potute compiere senza i loro “eroi”. Questi lessero correttamente la situazione sociale, politica ed internazionale che si trovarono di fronte, riuscendo a capitalizzarla in un momento rivoluzionario che, successivamente, li immortalò nella storia. Si tratta di Lenin per quanto riguarda la Rivoluzione d’Ottobre (1917) e la nascita dell’Unione Sovietica, e dell’Ayatollah Ruhollah Khomeini per la rivoluzione che porta il suo nome (1979) e che diede vita al regime teocratico in Iran.  Se nella Rivoluzione francese – attiva – l’azione giacobina-popolare aveva, nelle parole di Gramsci, spinto in «avanti la classe borghese a calci nel sedere», trovandone alla fine un’alleata contro la resistenza delle vecchie classi aristocratiche; la stessa questione, nella pratica delle rivoluzioni del Novecento, si pose in termini affatto diversi. Riprendendo il pensiero di Lenin: «Si trattava di comprendere il metodo della funzione egemonica del movimento operaio, capace di promuovere l’iniziativa rivoluzionaria e, al tempo stesso, di “tradurre” nella propria cultura nazionale «una data fase della civiltà».    L’azione dei ceti subalterni, nella lotta al rovesciamento di un re, dinastia, clero, feudatari, notabili o proprietari terrieri che fossero, avrebbe dovuto essere di carattere dirigenziale, la borghesia e la classe media sarebbero stati sì alleati ma col rango di gregari. Il rovesciamento dell’ordine politico nella Russia del 1917 aveva trovato l’innesco nel potere detonante della Guerra mondiale. In quell’occasione le masse, ancora poco coscienti della loro forza ma indirizzate dalla guida di Lenin, ebbero ragione contro la stessa teoria marxista. Questa vedeva il governo del proletariato e la successiva cancellazione dello stato e delle classi come una forma di potere che poteva costituirsi solo dopo il passaggio, intermedio, dallo stato borghese. Nel caso russo invece la profonda arretratezza economica e sociale dell’impero rendeva l’ipotesi di uno stato remunerato dallo sviluppo industriale e fondato sulla proprietà privata ancora lontanissima.  Gli eventi narrarono infatti un’altra storia. Il governo provvisorio costituitosi dopo la caduta dei Romanov, durante la Rivoluzione di febbraio, non era stato in grado né di uscire dalla guerra né di risolvere l’annosa questione agraria. Pertanto, contro di esso, si compattò un’alleanza fra componenti sociali accomunate dal fatto di vivere in condizione di estrema indigenza e sfruttamento. Queste, specificamente, erano tre. La classe operaia dei complessi industriali - circoscritti alle sole città di Mosca e Pietroburgo -, che trovarono la loro organizzazione nei soviet; l’immensa massa dei contadini legati all’Obščina, i quali rivendicavano il possesso della terra; nonché i milioni di soldati, perlopiù di origine contadina, che avevano sperimentato le aberranti condizioni di vita nell’esercito zarista e che possedevano le armi. La condizioni d’esistenza della Rivoluzione d’Ottobre sono note e rinvenibili in ogni buon manuale scolastico; utile è focalizzare l’attenzione sulle condizioni simili ma peculiari che scatenarono la rivoluzione nell’Iran degli Shah, di come Khomeini fu, alla stregua di Lenin, un vero rivoluzionario, in grado di mobilitare le masse per instaurare un potere di nuovo tipo. Registrati su bayramcosmopolitica.it La figura di Khomeini cominciò a rendersi nota a partire dal 1962-3 quando lo Shah Reza Pahlavi incanalò l’esuberante sviluppo economico innescato dalla rendita petrolifera nelle riforme della cosiddetta rivoluzione bianca. Lo sviluppo in senso moderno-occidentale dell’Iran voluto dal sovrano ebbe la conseguenza di creare una ristretta borghesia parassitaria che non reinvestiva i suoi profitti in patria, creando fortissime sperequazioni economiche. Un altro dei punti toccato dalla riforma era l’avvio di una campagna di alfabetizzazione di stampo laico della popolazione, che di fatto inibiva la secolare funzione del clero sciita all’insegnamento in scuole e madrase. Il conservatore religioso Khomeini passò all’attacco frontale della monarchia fomentando la popolazione ad atti di disobbedienza, tenendo fede all’idea che l’identità sciita facesse un tutt’uno con identità iraniana, a discapito di qualsiasi forma di secolarizzazione. Condannato all’esilio in Iraq Khomeini delineò la sua dottrina politica, nota col nome di velayet-e faqih. Con essa teorizzava il diritto del clero a governare. Si trattava di una rottura storica con la stessa tradizione sciita: fino a quel momento il clero si occupa della cura spirituale dei fedeli, delle attività di insegnamento, fino alla gestione della giustizia, ma al fianco del potere secolare; riconoscendo da sempre una delimitazione di campo definita con i rappresentanti dell’esecutivo. Sebbene fino ad un momento prima della rivoluzione i rappresentanti del clero che abbracciarono la dottrina khomeinista furono pochi, questi, d’altra parte, lavorarono con zelo alla ricerca di consensi, sfruttando al meglio, oltre alla situazione economica, il vuoto di rappresentanza creata dai lacci sull’attività dei partiti politici imposta dallo Shah. Gli appelli di Khomeini – diffusi in patria attraverso videocassette – sulle contraddizioni della modernizzazione trovava a recepirli numerose frange della società: mercanti, piccoli borghesi, operai e le enormi masse dei disoccupati emigrati verso le città dalle campagne. Questa voce trovò terreno fertile dal 1973 quando, nonostante lo shock petrolifero - artificialmente creato dai paesi arabi contro i paesi occidentali -, la dinastia Pahlavi non nazionalizzò l’industria petrolifera. I mancati profitti dei petrodollari ebbero come conseguenza quella di andare a gonfiare la massa di indigenti, soprattutto giovani, che si ammassava nelle periferie. Le proteste di piazza si moltiplicarono esponenzialmente. Gli articoli che la stampa del regime pubblicava contro l’Ayatollah e l’incapacità di mettere un freno alla miseria non facevano che accrescere l’aura attorno all’anziano religioso. Nel 1978 al regime restava come unico alleato l’esercito. Le scuole religiose erano diventati centri di lotta a tutti gli effetti. La popolazione civile guardava con così tanta fiducia al clero che gli esponenti dei partiti politici, sebbene non fossero d’accordo con le invocazioni di Khomeini, per non vedersi tacciati di collaborazionismo, si recarono a Parigi - dove, nel frattempo, si era trasferito – per porsi sotto la sua guida. Da parte sua, con acuto cinismo, Khomeini, aveva reso possibile questa strana alleanza, sfruttando il carisma riconosciutogli in patria per stendere un velo sulle modalità con cui – nella sua teoria politica - il clero avrebbe gestito il potere esecutivo, e in generale lo stato, dopo la rivoluzione.   Nel dicembre dello stesso anno due milioni di persone afferenti a quasi tutte le classi sociali si riversò per le strade di Teheran; dopo una prima risposta violenta, l’esercito, rivolse le armi contro i propri ufficiali. Lo Shah, malato, abbandonò l’Iran. L’Ayatollah Khomeini atterò a Teheran il 1° febbraio del 1979: un anziano esegeta del testo coranico era riuscito a realizzare la prima rivoluzione «dal basso» del Medio Oriente. I regimi infami e lesivi della libertà individuale che queste due rivoluzioni produssero non tolgono lo smalto alle figure di Lenin e Khomeini se riconosciute – sotto la luce di una lettura storico-interpretativa – nella sola veste di autentici rivoluzionari. Essi si dimostrarono impareggiabili traduttori del momento storico che si trovarono davanti, in grado di far immaginare un sogno che non poteva realizzarsi ma pur sempre abbastanza intenso per coalizzare la massa dei più deboli contro vecchi sistemi di potere altrettanto iniqui. Lenin e Khomeini furono fra i pochi, nel corso della storia, qualificati per porsi al timone di quelle rivoluzioni che nella spinta delle classi «subalterne» della società trovavano la loro ragion d’essere.
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