a
cura
di
Francesco Laureti
Morris Chang, Jack Ma, Selçuk Bayraktar, Elon Musk. Sono alcuni dei giocatori della partita internazionale tra americani e cinesi per il dominio del progresso tecnologico, combattuta a suon di chip, droni, cavi e batterie: attorno a essa ruota Il dominio del XXI secolo. Cina, Stati Uniti e la guerra invisibile sulla tecnologia (Feltrinelli), ultimo appassionante libro di Alessandro Aresu.
Che i moderni Stati possano far ricorso a strumenti da economia di guerra piuttosto efficaci per tutelare i propri interessi vitali, non è certo un’innovazione introdotta nel secolo XXI. Senza bisogno di andare di molto a ritroso nel tempo, sarà sufficiente fare riferimento alle sanzioni adottate durante la Prima guerra mondiale dagli Stati Uniti o le due “guerre dei semiconduttori” che si sono consumate tra gli anni Ottanta del secolo scorso e gli anni dell’amministrazione Obama. Inediti sono, invece, gli scenari in cui oggi si sviluppa la corsa al primato tecnologico condotta da americani e cinesi. Le forze materiali e immateriali che intervengono nel braccio di ferro tra i due pesi massimi del panorama internazionale manovrano, manomettono, reindirizzano e perfezionano tecnologie e processi produttivi, lungo catene di approvvigionamento oggi più frammentate che mai. Sebbene la politica di potenza sia tornata ad affacciarsi prepotentemente nella storia contemporanea, ciò non toglie che la tela della globalizzazione imponga a vertici politici e militari di assecondare i vincoli dell’interdipendenza economica e tecnologica, esemplificati dallo “scudo di silicio” dell’isola di Taiwan che si frappone tra Washington e Pechino. Su queste e altre chiavi di lettura utili a inquadrare la guerra invisibile per il dominio del secolo XXI ragiona nel suo libro Alessandro Aresu, analista, consigliere scientifico di Limes e membro della squadra di consulenti del governo Draghi.
Il dominio del XXI secolo. Cina, Stati Uniti e la guerra invisibile sulla tecnologia (Feltrinelli) di Alessandro Aresu
-Negli ultimi anni, la parola decoupling è stata spesso usata (forse persino abusata) nel dibattito pubblico per descrivere uno dei possibili sviluppi dello scontro tra Stati Uniti e Cina. Si può affermare che la stretta interdipendenza sino-americana che emerge dal libro metta da parte un simile scenario una volta per tutte?
Io non penso che un decoupling sia tecnicamente impossibile, perché si può spingere politicamente anche verso ciò che è tecnicamente difficile. La spinta esiste, e le cose difficili rimangono difficili. Penso che un simile processo, preso sul serio, sia estremamente costoso, e che avrebbe enormi conseguenze. Inoltre, la diversificazione rispetto alla Cina avrà (e ha già) effetti imprevisti, come favorire l’insediamento di aziende manifatturiere in Vietnam, Indonesia, Malesia e non solo negli Stati Uniti o in Europa. È questa posta in gioco che bisogna chiarire per comprendere l’entità, la portata della questione. E per leggere alcuni rapporti di forza.
Alcune delle principali filiere su cui si gioca la competizione tecnologica, come i semiconduttori e le batterie, vedono una stretta interconnessione tra Stati Uniti, Cina e altri Paesi (come Corea del Sud e Giappone). Nelle batterie, i cinesi dominano la filiera, ma il dominio può essere fino a un certo punto eroso da azioni degli Stati Uniti e da alcune potenze minerarie della sfera strategica di Washington, che però hanno la Cina come primo partner commerciale, per esempio l’Australia. La filiera dei semiconduttori rappresenta invece un grande insuccesso dei cinesi, finora: la Cina è il maggiore acquirente al mondo, anche dei componenti di imprese americane, ma questo potere di mercato non si è tradotto in capacità di salire nella scala tecnologica ed esistono segmenti dove i controlli delle esportazioni degli Stati Uniti hanno effetti devastanti perché i cinesi non hanno nessuna alternativa alle aziende americane.
Ricordo che sul piano Made in China 2025, che ha sbandierato dei target di autosufficienza per nulla rispettati, è successo esattamente quello che aveva previsto l’ex ministro delle Finanze cinese, Lou Jiwei: grandissima spesa, grandi politiche industriali, grande chiasso che ha attirato l’attenzione generale, grande inefficienza e corruzione come per Tsinghua Group, risultati di poco conto rispetto ai proclami, e nelle cose che sono andate bene è arrivata la tagliola degli Stati Uniti.
Ora, questo ha alcune conseguenze. Mettiamoci nei panni di un’azienda americana come Lam Research, fondata da un geniale ingegnere chimico del Guangdong, prima azienda fondata da un americano di origine asiatica quotata al Nasdaq. Lam Research fa soprattutto strumenti e procedimenti di incisione al plasma per i semiconduttori: la Cina vale circa il 30% del fatturato di circa 17 miliardi. Decoupling significa che il 30% del fatturato sparisce. Può accadere, ma questo processo è molto doloroso e implica costi che bisogna considerare e pagare.
-Chi di decoupling non vuole neppure sentir parlare è la Germania. La recente visita del cancelliere Scholz alla corte di Xi Jinping, con una notevole delegazione di manager tedeschi al suo seguito, rafforza una tendenza evidenziata nel libro o porta qualche elemento di novità?
L’interscambio tra la Cina e la Germania nel 2022 è stato di oltre 173 miliardi di dollari fino a settembre, e c’è un sostanziale equilibrio tra importazioni ed esportazioni. Questo significa che la Cina è un mercato di sbocco molto importante per le aziende tedesche.
Se sei l’amministratore delegato di Volkswagen pensi: la Cina è il mercato dell’auto più importante, sull’auto elettrica lo è ancora di più. Le ricerche di mercato ti dicono che lì sta la crescita. Che cosa fai? Continui a scommettere sulla Cina. Però questa strategia quanto può tenere nel medio termine? Più aumenta la capacità tecnologica cinese, meno c’è bisogno di Volkswagen: sono le aziende cinesi a poter fornire prodotti di qualità ed estremamente competitivi in questo enorme mercato. Nel mentre, tu devi rispondere ad azionisti e portatori di interesse per i quali la tua presenza in Xinjiang è un problema. Pertanto, quell’interscambio con la Cina è un punto di forza della Germania, ma è allo stesso tempo un elemento di fragilità. Davanti a quei numeri, però, e davanti alla forza del mercato cinese, è difficile pensare a una smobilitazione netta e rapida.
Una delle tendenze sottolineate nel libro mi sembra confermata, e anzi allargata, e riguarda la dinamica delle acquisizioni cinesi nell’alta tecnologia. Su questo aspetto bisogna intendersi, perché per me nell’alta tecnologia non sono ricompresi né i porti, né tanto meno gli alberghi. Poi ovviamente la legge può dire altro e va rispettata. Ci sono, tra l’altro, la robotica avanzata e i semiconduttori. Il vero spartiacque della Germania è stato il caso Kuka: è stata importante la consapevolezza che la vendita di un’azienda tedesca di robotica a un operatore cinese abbia contribuito a erodere la capacità tecnologica e di innovazione della Germania. Questo shock ha portato a rivedere alcune posizioni e la penetrazione cinese in Germania sulle tecnologie critiche mi sembra molto più ridotta ormai. Alla fine del mio libro, già parlavo dell’acquisizione di una quota di un terminal del porto di Amburgo da parte della Cina, di recente perfezionata e autorizzata con una percentuale minore rispetto al progetto iniziale.
Vorrei però che fosse chiaro a tutti che l’acquisizione di un’azienda di robotica, su cui si vuole ottenere proprietà intellettuale e processi industriali, è cosa diversa dalla quota di un terminal portuale acquisita dal paese, la Cina, che ha già un primato mondiale nei porti.
-Molteplici e di diversa portata sono le sfide globali che si intrecciano nel discorso sulla competizione tra Washington e Pechino, non ultima quella della transizione verde. Pensi che le classi dirigenti americana e cinese la stiano affrontando con un approccio di gran lunga più realista dei leader europei?
Per me l’idea che l’Unione Europea debba sparare delle date facendo la lezione alle grandi economie emergenti e senza una complessiva strategia industriale è anzitutto un problema di povertà intellettuale. Direi di miseria intellettuale. E questo rischia di generare discorsi eccessivi da un altro punto di vista, una sorta di messa tra parentesi permanente del tema della transizione verde secondo la chiave di lettura del “tanto a inquinare sono soprattutto Cina, India e altri”, che non ci aiuta di certo a risolvere le cose.
Invece è bene definire con maggiore attenzione la questione, per trovare un percorso possibile. Io la vedo così: esiste una competizione nelle filiere industriali della transizione ecologica, che ha portato, tra l’altro, al risultato certificato dall’Agenzia Internazionale dell’Energia, che dice chiaramente nei suoi documenti: «Ormai da qui ai prossimi anni, per gli obiettivi di realizzazione di pannelli solari dobbiamo usare quasi solo componenti cinesi». Possiamo forse andare avanti così?
Quindi, qual è la nostra priorità? La priorità è dire: “Dal 2035 avremo solo auto elettriche?”, o è dire: “Come costruiamo pannelli solari in Europa? Nella filiera dell’auto elettrica quali europei dobbiamo incentivare, quale ricerca e tecnologia dobbiamo finanziare per giungere ai nostri obiettivi?”. Quindi è tempo di utilizzare le grandi risorse di ricerca e imprenditoriali dell’Europa per elaborare strategie all’altezza della sfida e realizzarle veramente, abbandonando una stagione fatta solo di proclami e miseria intellettuale che altrimenti genererà problemi molto profondi.
-Il nesso tra competizione tecnologica e politica è una delle costanti che attraversano il libro. In un passo del libro scrivi che «Musk fa politica». Le vicende di Starlink nel conflitto russo-ucraino appaiono emblematiche di quanto sostieni?
Secondo me, dal punto di vista imprenditoriale, gestionale e organizzativo, Musk è una figura molto interessante, e lo è ancora di più se ci dimentichiamo degli aspetti di colore, se non ci facciamo influenzare solo da quella cappa. Se analizziamo i suoi manager, le persone che ha portato al vertice delle sue aziende (personalità come Gwynne Shotwell di SpaceX che sono davvero straordinarie, l’intelligenza organizzativa che è presente in Tesla), vediamo che c’è sicuramente del metodo nella sua follia.
Una figura del genere di Musk è anche una figura politica perché, anche se Musk non c’entra pressoché nulla con una tipologia classica dello “Stato imprenditore” (il prestito statale a Tesla, restituito con largo anticipo, è stato un capitolo di quint’ordine della sua storia), deve costantemente relazionarsi coi governi per aspetti regolativi e per autorizzazioni, oltre che per gli incentivi e per la volontà politica laddove conta veramente, come per il Partito comunista cinese.
La sua influenza è molto elevata e potrebbe fare politica di più in futuro, a mio avviso non candidandosi direttamente, ma per esempio creando una sorta di “falange comunicativa” che spinga le agenzie degli Stati Uniti a fargli fare di più quello che gli pare sulle autorizzazioni per i lanci, con meno barriere. E poiché fa politica, in un certo senso più che fare avanspettacolo (che di sicuro fa, perché si diverte a modo suo), tende ad alzare il proprio prezzo, a intromettersi nelle grandi vicende internazionali, mostrando di essere importante, facendo pensare di essere indispensabile anche in scenari di guerra. Sicuramente con lui non ci si annoia.
-Caso Huawei. Se nel libro viene dato risalto alla postura muscolare che gli apparati americani (lo stesso si potrebbe dire dei cugini inglesi) hanno assunto nei confronti del campione cinese delle telecomunicazioni, sembra che i governi europei abbiano mantenuto un atteggiamento dialogante nei confronti dell’operatore cinese. Come lo spiegheresti?
Si torna alla questione dei costi: anche questo processo ha alcuni costi da considerare che possono implicare ritardi rispetto agli impulsi politici. E possono esserci effetti all’inizio non considerati e paradossali, come un’azienda svedese di telecomunicazioni che vede il crollo dei ricavi dal mercato cinese (prima stimati al 10%) e che quindi magari preferiva che il proprio governo fosse più accomodante col suo concorrente Huawei. Sia perché il concorrente è anche un partner, sia perché non vuole pagare un costo quasi immediato, visto che la ritorsione del governo cinese è arrivata quasi immediatamente.
Farei comunque una distinzione tra Stati Uniti e Regno Unito. È senz’altro vero che ci sia stata un’azione internazionale degli Stati Uniti verso gli altri paesi, compreso il Regno Unito, per diversificare rispetto a Huawei sul 5G (un’azione, comunque, di relativo successo in Europa e Asia Orientale, di quasi nessun successo nel Sud del mondo), ma il “caso Huawei” si gioca su diversi ambiti e fronti per gli Stati Uniti, che sono più importanti. Diciamo chiaramente quali sono.
Washington voleva colpire i grandi margini dell’azienda cinese sugli smartphone, e quell’elemento è stato in parte affondato perché l’azienda ha perso quei volumi e quei margini. Ancora più in profondità, il caso Huawei è un episodio della guerra dei chip: Huawei, soprattutto per gli smartphone, emerge come un grande cliente di Tsmc, e a un certo punto gli Stati Uniti riducono e poi limitano enormemente i legami tra le due aziende. I controlli sulle esportazioni per Huawei, che hanno peraltro negli Stati Uniti una base giuridica interna molto più chiara (la violazione delle sanzioni verso l’Iran attraverso Skycom, che porta all’arresto di Meng Wanzhou, contro la locuzione generica “sicurezza nazionale e interessi di politica estera” usata il 7 ottobre 2022), sono una prova generale di quello che verrà dopo. Cioè i più pesanti controlli sulle esportazioni nella filiera dei semiconduttori, dove alle aziende cinesi è negato l’accesso a segmenti fondamentali, come il cosiddetto EDA e i macchinari per incisione al plasma e altro, per cui le alternative alle aziende degli Stati Uniti semplicemente non esistono e non sono state prodotte dai cinesi.
In definitiva, questa è la cosa più importante e molto spesso le persone non hanno un’idea chiara dello scacco cinese in materia, mentre lo scacco cinese c’è eccome, e si riflette anche su quello che un’azienda di telecomunicazioni cinese tecnicamente può fare o non fare. Anche se Huawei rimane un’azienda interessante perché sarà istruttivo vedere se e come, a partire dal loro grande impulso su ricerca e sviluppo e dalla loro determinazione, sapranno innovare “lateralmente” rispetto a sanzioni e controlli sulle esportazioni che hanno avuto senz’altro successo nel colpirli.
-Nell’ambito della competizione tecnologica tra Stati Uniti e Cina, l’Italia ha dato segnali equivoci nella stagione politica segnata dalla firma del MoU con la Cina del marzo 2019, in cui compaiono come campi di cooperazione infrastrutture e telecomunicazioni. Ritieni che per i vertici americani abbia rappresentato un motivo di preoccupazione?
Ho sempre espresso la stessa opinione sul MoU con la Cina, fin da un intervento al festival di Limes del 2019, il giorno dopo la sua difesa da parte del presidente del Consiglio dell’epoca. Penso che quella firma sia stata una stupidaggine. O più correttamente, per rifarmi a un grande filosofo della stupidità, penso che sia ricaduta nella celebre categoria del compianto Carlo M. Cipolla dello “sprovveduto”, ovvero colui che danneggia sé generando un vantaggio per gli altri.
La scelta dell’Italia è stata sprovveduta perché ha firmato un documento con valore politico, al quale gli attori rilevanti (Cina e Stati Uniti) davano valore politico, raccontandosi che avesse valore economico. Quindi ha favorito altri, ovvero chi ha continuato a dare valore economico al rapporto con la Cina e a fare tranquillamente affari, senza mettersi a firmare documenti con valore politico.
Se l’Italia voleva aumentare le proprie esportazioni in Cina, riequilibrando la bilancia commerciale, quel documento non aveva pressoché nessuna funzione, perché sono cose che si realizzano con un lavoro costante e di lungo termine, non con un atto politico: in questa materia, le scorciatoie sono impossibili.
Se l’Italia voleva che le sue aziende facessero più affari in Cina, doveva continuare a sostenerle, come è giusto e sacrosanto, senza mettersi a firmare documenti politici, ma badando alla firma di accordi (e auspicabilmente contratti) bilaterali tra imprese e tra altre realtà, anche con la presenza di ministri e leader italiani in Cina. È quello che fanno tutti senza finire nell’occhio del ciclone per aver compiuto gesti politici, con tempismo, in un momento particolare delle relazioni tra Stati Uniti e Cina: i mesi più delicati nel caso Huawei.
Detto questo, ribadisco ancora un punto già trattato: è molto importante saper differenziare, altrimenti ci mettiamo in uno schema per cui ogni progetto cinese è la stessa cosa, ogni investimento cinese è uguale, insomma una notte in cui tutte le vacche sono nere con caratteristiche cinesi. E così non si ragiona. Per quanto riguarda i settori, a mio avviso esiste una gerarchia, anche nella prospettiva cinese, e mi rifiuto di credere che per esempio gli accordi che possono riguardare alcune quote di terminal portuali, per la Cina che domina già il mercato mondiale dei porti, possano avere lo stesso valore di acquisizioni di aziende delle filiere della robotica o dei semiconduttori dove alla Cina mancano passaggi decisivi. Non è la stessa cosa e dobbiamo conservare la capacità di distinguere.
-All’Eurosatory 2022 il presidente francese Macron ha dichiarato che ci confrontiamo con «un’economia in cui non possiamo più vivere allo stesso ritmo, con la stessa grammatica di un anno fa» e che «tutto è cambiato». L’impressione è che Francia, Germania e Italia siano meno attrezzate in termini di preparedness al confronto con l’elaborazione culturale in materia di difesa nazionale che si è sviluppata negli States già nella prima metà del secolo scorso.
È vero ma è anche naturale. Gli Stati Uniti hanno la più grande burocrazia di sicurezza nazionale della storia, hanno i più grandi programmi di appalti militari della storia, hanno un sistema internazionale di basi militari. Hanno il concetto di “base industriale della difesa” come analisi approfondita delle forniture e delle vulnerabilità di tutto il proprio sistema, che consente una conoscenza delle imprese più profonda di quella che abbiamo noi, e che peraltro faremmo bene nel nostro piccolo a copiare, anche fornendo ai ricercatori i dati per analizzare nel dettaglio quelle filiere.
Quelle che ho citato sono cose che sicuramente contano. In materia di difesa nazionale, c’è tutto un sostrato di consapevolezza che invece agli europei in genere manca, sebbene i francesi, almeno per ambizione, siano un po’ diversi. Vedremo in quale direzione ci porteranno gli shock degli ultimi tempi. Sarà interessante capire cosa diventerà in concreto anche dal punto di vista culturale, e non solo nei proclami, il riarmo tedesco. Ma anche su questo bisogna evidenziare i costi delle proprie ambizioni: per una grammatica e preparazione adeguata, bisogna pagare quei costi e, visto che siamo una democrazia, alla nostra popolazione deve andare bene. Io personalmente preferisco la difesa nazionale, la robotica, la chimica, i semiconduttori, al bonus facciate, ma questa può essere un’opinione minoritaria e quindi perdente. E no, non si possono fare entrambe le cose, non si può fare tutto, è un’inutile illusione pensarlo: bisogna scegliere. Lam Research non nascerà mai dal bonus facciate.
-EDF in Francia, Uniper e Gazprom Germany GmbH (ora SEFE) in Germania. Nel contesto europeo, l’allargamento della sicurezza nazionale, su cui ti soffermi nel libro, riguarderà soprattutto il settore energetico nei prossimi anni?
Dipende. Le nazionalizzazioni dell’energia potrebbero riguardare solo la conservazione dell’esistente, anche sul piano sociale, che ovviamente è importante ma non è il cuore della competizione tecnologica, che si gioca su elementi più innovativi. In che modo le aziende europee realizzeranno innovazioni nell’energia e nella chimica? Quali giganti del trattamento dei materiali emergeranno? Alla fine, la vera dimensione della competizione è sempre quella delle aziende innovative, o dell’adattamento di aziende tradizionali. La sicurezza nazionale di questa fase di nazionalizzazioni energetiche è per ora una gestione dell’esistente, con dietro la problematica del fattore del costo dell’energia per la competitività, che si pone anche nei rapporti tra Stati Uniti ed Europa. Va bene gestire l’esistente, ma bisogna avere una conoscenza profonda e articolata delle filiere e lavorare sulla ricerca e sulla creazione del nuovo, in ambito energetico e non solo.