Echi persiani in Caucaso

L'Iran gioca un ruolo chiave nel mantenere la stabilità regionale, soprattutto proteggendo l'Armenia dalle ambizioni azere. Dall'altra parte, l'Azerbaigian ha una cooperazione strategica con Israele, che fornisce armi e risorse in cambio di un alleato contro l'influenza iraniana. Senza l'Iran, l'Europa si troverebbe a dover affrontare un nuovo panorama geopolitico, con il rischio di un'espansione turca nella regione.

Il fascismo nell’epoca della sua riproducibilità tecnica

Il fascismo fu rivoluzione giovanile in senso stretto e tragico. Voluta dai giovani usciti profondamente trasformati dall’esperienza della trincea. Dall’arditismo, tramutatosi in disprezzo per la società esistente. Di questi elementi, che emergono in “M”, sembra non rimanere granché traccia quando ci si sofferma sull’oggi e sugli stentati paragoni con il neofascismo contemporaneo. Fenomeni odiosi, senz’altro. Da tenere d’occhio, senza dubbio. Da temere, probabilmente, ma in una veste nuova e con uno sforzo intellettuale superiore a quello della reductio cui le nostre stanche società ci hanno abituato.

Un mondo senza eroi

Piero Marrazzo ha presentato davanti ad una platea molto interessata il suo ultimo libro - Storia senza eroi (Marsilio, 2024). Tanti calorosi abbracci, che mancarono all'uomo più che al politico durante la nota vicenda che lo travolse nel 2009, hanno fatto da contorno ad un discorso che ha lasciato intendere una ben precisa regia ai suoi danni.

La tecnica al bivio fra archeofuturismo e accelerazionismo

Le accuse di tecnofeudalismo per i titani della Silicon Valley mostrano plasticamente come da sempre il possesso delle tecniche garantisca potere e affermazione per le élite che riescono ad appropriarsene. L'egemonia passa dal controllo delle macchine. Il nostro atteggiamento nei loro confronti passa invece dalle interpretazioni che gli accelerazionismi - tanto di destra (Nick Land) che di sinistra (Alex Williams e Nick Srnicek) - ci hanno donato ormai decenni fa. Di fronte ad essi si trova l'archeofuturismo di Guillaume Faye, meno discusso ma altrettanto rilevante.

L'editoriale

di Sebastiano Caputo

La generazione cosmica

Giuliano Da Empoli, autore de Il mago del Cremlino, scrisse diversi anni fa un libro meno celebre di quello che lo ha fatto arrivare finalista al premio Goncourt, ma altrettanto lungimirante. Si intitola “La prova del potere. Una nuova generazione alla guida di un vecchissimo Paese”. È stato pubblicato nel 2015, quando Matteo Renzi era già presidente del Consiglio. Insieme avevano lavorato a Firenze, poi in giro per l’Italia. Giuliano Da Empoli fu prima assessore alla Cultura di Matteo Renzi, poi divenne suo ideologo fin dai tempi delle primarie 2012, per infine consacrarsi suo consigliere politico appena entrato a Palazzo Chigi. Da un lettore spasmodico di Vladislav Surkov non poteva che uscire un testo fuori dalle logiche comuni. Con quel pamphlet l’autore già si domandava in che modo questa nuova generazione di trenta-quarantenni affacciatasi al potere avrebbe dovuto “evitare le trappole del nuovismo a tutti i costi, senza ricadere nella palude della conservazione e della rendita”. Ma prima ancora di Giuliano Da Empoli, in tempi non sospetti, anche Luca Josi, enfant prodige del Partito Socialista Italiano per il quale divenne segretario del movimento giovanile dal 1991 al 1994, aveva già anticipato il fenomeno del “ricambio generazionale” con un patto siglato nel 2007 all’Ara Pacis di Roma nel quale alcune personalità sottoscrivevano l’impegno a lasciare o non accettare ruoli di leadership istituzionale una volta raggiunti i 60 anni. Tra i firmatari di quel manifesto non solo c’era Giuliano Da Empoli, ma anche l’attuale premier Giorgia Meloni, che allora aveva appena compiuto trent’anni. Tutto torna. Tutto deve ritornare, con delle coordinate spazio-temporali e spirituali rinnovate. Serve, ora più che mai, una presa di responsabilità generazionale dunque, ma anche di coscienza. La necessità di trovare delle risposte alla domanda “ucronica” per eccellenza: come sarebbe il mondo se le cose andassero diversamente? Dissipatio, con la sua rete di scrittori, pensatori e ricercatori attivi quotidianamente sulle colonne digitali e con tutti i membri del “nucleo”, a tre anni dalla nascita, a tre anni dagli incontri a porte a chiuse dei “martedì”, ha deciso di costruire un piccolo appuntamento con la storia. Sulle note dell’album Fetus (1971) di Franco Battiato, tra cellule, cariocinesi e mutazioni, in uno scenario fantascientifico che vuole assomigliare al mondo di Arrakis nel film Dune di Denis Villeneuve, vogliamo provare a costruire il “passaggio generazionale delle idee”. Un deserto da attraversare insieme, per giungere un mondo immaginario, disegnato appunto da visionari, apocalittici e corsari. Un tentativo folle, per questo realizzabile.
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Il Sudafrica nel circolo vizioso

Una nazione allo sbando. 27mila omicidi l’anno. Una critical juncture andata storta. Il pallido fantasma dell’apartheid e l’ottusa pretesa che una re-africanizzazione possa rimarginare un’emorragia trentennale. Sullo sfondo, una potenziale contesa con gli Stati Uniti, che con la nuova amministrazione hanno dato segnali d'insofferenza verso le politiche del Presidente Cyril Ramaphosa.

Una strategia per l’Italia

Presidenzialismo o premierato, riforma del sistema elettorale in senso maggioritario, ridefinizione del bilanciamento dei poteri tra governo, parlamento e magistratura: queste alcune proposte che più volte negli ultimi trent’anni sono state avanzate e poi puntualmente ostracizzate sventolando lo spettro del ritorno al fascismo. Dovremmo superare queste divisioni anacronistiche, comprendendo che, mentre il resto del mondo attua politiche di lungo respiro, noi rimaniamo intrappolati nella programmazione a breve termine. Proprio per questo è quanto mai fondamentale elaborare una visione che trascenda il presente.

Giorgia Meloni, l’equilibrista

Da Donald Trump ai patrioti dell'Est, passando per le istituzioni europee e Ursula Von der Leyen, non c'è potere con cui il Primo Ministro italiano non stia sviluppando rapporti cordiali e di reciproco interesse. Il Patto per il Mediterraneo, discusso a Roma il 24 gennaio con Dubravka Suica, Commissaria UE, arriva a pochi giorni di distanza dalle polemiche per i presunti contratti firmati con Starlink di Elon Musk. È questa la strategia italiana, puramente machiavellica, di sopravvivenza.

Interviste

a cura di Francesco Subiaco

«La marcia su Roma fu un evento gigantesco, percepito dagli italiani più come colpo di Stato che come rivoluzione.» Il mito fondativo fascista secondo Didier Musiedlak

In questa fase ricca di curiose rievocazioni cinematografiche della storia italiana del primo novecento - specie se incentrate sulle vicende correlate con l'affermazione e lo sviluppo del regime fascista - in tanti hanno cercato di rileggere il passato con gli occhi dell'oggi e delle convenienze del momento. Forse più per facili strumentalizzazioni (tanto a destra quanto a sinistra) che superare facili mitologie orientate. Di fronte a questi tentativi occorre tornare, invece, ai contenuti, alle fonti, agli studi dei grandi storici europei. Per tale motivazione è necessario leggere e rileggere l'ultimo libro di Didier Musiedlak "La marcia su Roma. Tra storia e mito" edito Rubbettino (la cui edizione francese reca una splendida prefazione dell'Immortale di Francia, Maurizio Serra). Un testo che tramite fonti inedite e testimonianze nuove ricostruisce il ruolo della marcia su Roma nello scenario politico italiano dell'epoca e nell'immaginario costruito durante la dominazione fascista, restituendo, oltre facili lirismi e propagande di regime, il vero significato di quel drammatico evento. Per tale motivazione abbiamo intervistato, il professor Didier Musiedlak, già membro dell’École française di Roma, professore emerito di Storia contemporanea all’Università Paris-Nanterre, allievo di Pierre Milza e di Renzo De Felice, tra i più noti specialisti del fascismo italiano e dello studio comparato delle dittature. -Professor Musiedlak nella realizzazione di questo libro ha potuto consultare nuove fonti, archivi inediti e testi sconosciuti o sottovalutati. Come questo libro si inserisce nella storiografia esistente? E quali innovazioni porta? La ricchezza degli archivi inediti di due dei Quadriumviri (Italo Balbo e Cesare Maria De Vecchi) mi ha dato una nuova prospettiva sulla marcia su Roma e mi ha permesso di rivederne la storia. Questo libro è, quindi, un tentativo di sfatare i miti, partendo dall'ipotesi che le strutture politiche del fascismo fossero incomplete, se non altro per quanto riguarda la formazione del Partito della Milizia, che era ben lungi dall'essere uno strumento efficace. Italo Balbo ne era perfettamente consapevole, come confidò privatamente nel dicembre 1938. Nulla lasciava presagire, nemmeno nella mente di Mussolini, che ci sarebbe stato un esito politico felice. Grazie ai nuovi archivi, è stato possibile ripercorrere gli elementi costitutivi della marcia, includendo non solo il percorso rivoluzionario, che sembrava destinato al fallimento, ma anche esaminare più da vicino le trattative condotte dal partito, che furono decisive. Lo svolgimento dell'azione ha permesso di ridimensionare gli attori a scapito del Segretario Generale del Partito (Michele Bianchi), sempre più emarginato a favore degli esperti militari (Italo Balbo) e dei responsabili delle trattative con la monarchia (Cesare Maria De Vecchi). -La marcia fu secondo lei un “event monstre”? Per molti aspetti, la marcia entra nella definizione (coniata dallo storico Pierre Nora e rilanciata da Georges Duby nel 1989) dell “evento-mostro”. Esso ha aperto l'Italia alla modernità politica separandola dalle società tradizionali governate dalla quiete del tempo. C'è effettivamente una rottura. Il suo significato è assorbito dal suo impatto. L'evento è infatti inseparabile dalla formidabile eco che la modernità rende possibile grazie al sistema dei mass media. Il suo potere è legato alla capacità di rimodellare il passato e di plasmare il futuro. L'“evento mostro” inaugura di fatto una nuova struttura temporale. Al centro del dispositivo c'è la formidabile eco generata dalla narrazione, che nel tempo occuperà una quantità smodata di spazio. Il significato dell'evento viene così rivelato dall'esperienza temporale della narrazione, che permette di dare alla storia un ritmo diverso da quello della cronologia (R. Koselleck). In questo senso, la marcia su Roma ha soddisfatto pienamente le condizioni necessarie, consacrando le masse come attori della storia. Anche se molti aspetti la allontanano da eventi spesso considerati come affini quali la presa della Bastiglia e la Rivoluzione bolscevica. -Che tipo di evento fu davvero la marcia su Roma? E quale fu la sua reale natura: insurrezionale o farsesca? Gli storici hanno cercato di rendere conto della natura della marcia ponendo la questione centrale della sua importanza in relazione alla costituzione del regime fascista, senza interrogarsi con sufficiente pertinenza sul grado di contaminazione rispetto al mito. Il prima e il dopo della marcia sono stati, infatti, ripensati in funzione di questo evento di ristrutturazione, dandogli un senso e assegnandogli un obiettivo di progresso con la nascita del regime. La marcia su Roma divenne, quindi, rapidamente la storia del successo di Mussolini e come tale parte di un'operazione simultanea che combinava pressioni miliziane e ricerca di un accordo di governo. In realtà, Mussolini non pensò mai di poter arrivare al potere solo attraverso l'insurrezione. Allo stesso tempo, non intendeva raggiungere il potere solo con mezzi legali, poiché temeva che il fascismo sarebbe stato digerito dalle istituzioni liberali. I due approcci erano quindi strettamente intrecciati per garantire l'insediamento di un governo presieduto da Mussolini. -Fu più un evento “mitologico” o una insurrezione vera e propria? Mussolini fu molto chiaro su questo punto nel 1944, quando discusse del posto da dare alla marcia nella storia del fascismo. Il mito era più importante dell'evento stesso. La marcia, secondo il duce, era senza dubbio la condizione stessa che permetteva di ipotizzare una rivoluzione, ma non certo una rivoluzione in atto sul piano insurrezionale. Essa rese possibile la presa del potere a causa della passività delle istituzioni dell'Italia liberale, che permise di evitare un colpo di Stato. Nella memoria degli squadristi, la marcia rappresentò una “rivoluzione deludente” rispetto al periodo precedente al 28 ottobre, strutturato dalla presenza del nemico e dal primato del combattimento. Uno sguardo più attento agli attori coinvolti conferma che non si trattò di una rivoluzione, ma piuttosto della rappresentazione simbolica e politica del crollo delle istituzioni liberali. -Evento corale o allo grande disegno politico di regia mussoliniana. Che ruolo svolse Mussolini nella marcia su Roma e in relazione con i suoi tanti coprotagonisti? La questione rimane aperta, anche se molti elementi mettono in dubbio l’azione personale di Mussolini. La prima tesi, sviluppata nei primi anni Trenta, mirava a includere il duce nel mito squadrista della nazione in armi. La narrazione dell'epopea doveva mostrarlo mentre combatteva. Mussolini non si mosse dalla sede del giornale il 28 ottobre dopo essersi recato sulla barricata per attendere con calma e freddezza l'esito degli eventi. Questa tesi eroica fu ripresa da Giorgio Pini, futuro direttore del Popolo d'Italia, che affermò addirittura che nella confusione una pallottola sfiorò la testa di Mussolini. In sostanza, il duce divenne parte integrante del mito squadrista. Grazie alle sue capacità di trattare con le autorità militari, evitò l'irreparabile. Questa è la versione santificata dal regime e da Mussolini stesso. C’è però un'altra teoria molto meno gloriosa per il duce e basata su diverse testimonianze... -Ovvero?  Mussolini avrebbe trascorso la notte tra il 27 e il 28 ottobre a casa della sua amante, Margherita Sarfatti (Il Soldo), vicino a Como, dove si recava in treno o in auto, essendo la sua residenza a meno di cinquanta chilometri da Milano. La mattina del 29 ottobre (alle 9), proprio nel momento in cui Antonio Salandra annunciava l'impossibilità di formare un nuovo governo, Mussolini era di fatto introvabile. Non era né a casa né al giornale. Tutto lasciava pensare che avesse trascorso la notte a Soldo, la casa estiva della sua amante a Cavallasca, un piccolo paese a 41 km a nord di Milano e a pochi minuti dal confine svizzero. È più probabile che in quei giorni cruciali abbia attraversato un periodo difficile, superato soprattutto grazie all'aiuto di Margherita Sarfatti, secondo la testimonianza dell'ambasciatore tedesco, Werner von Schulenburg. Per tutta la sua vita, Mussolini ebbe serie difficoltà a superare le situazioni dominate dall'incertezza e dal rischio che lo coglievano impreparato. Spesso passava dall'euforia al profondo sconforto. Mussolini risentirà di questa stessa sindrome depressiva soprattutto all'epoca del caso Matteotti e durante la votazione del 25 luglio 1943, quando rimase prostrato, senza sapere cosa fare. La verità sta nel fatto che Mussolini fu chiamato legalmente al potere dal Re per portare avanti la rivoluzione che intendeva guidare in nome del popolo italiano. Tutto sommato, all'apparenza non c'era nulla di veramente eccezionale, a parte il fatto che Mussolini non immaginava che sarebbe rimasto al potere per più di vent'anni, anzi... -Quali sono i limiti almeno sul piano dell'importanza che è opportuno attribuire all'avvenimento? Per quanto concerne la sua dimensione rivoluzionaria, la marcia non ha avuto il contenuto che i suoi sostenitori vollero darle. A questo proposito, essa non ebbe in alcun momento la densità che ha caratterizzato la presa della Bastiglia o la rivoluzione bolscevica per una semplice ragione: la mobilitazione sociale degli squadristi rimase molto limitata e non ebbe l'effetto di trascinamento previsto nel paese. Lontano dalla simbologia e dall'ideologia diffuse dal regime, in realtà la marcia rispose imperfettamente al mito nazionale rivoluzionario come era stato immaginato dagli ultras del Partito e da Benito Mussolini. Certo, il nazionalismo italiano si era considerevolmente modificato con la prima guerra mondiale, integrando le masse che, fino ad allora, erano rimaste estranee al mondo politico. Un mito nuovo rivoluzionario di rigenerazione aveva cominciato a svilupparsi prendendo in prestito elementi alla sinistra radicale e alla destra, in particolare dopo l'occupazione di Fiume nel 1919. In effetti, fu l'espressione di un nazionalismo nuovo incarnato dalla mobilitazione squadristica che permise alla marcia su Roma di concretizzarsi. Ma, non avendo in fin dei conti la forma di una forte dimostrazione di massa, questa, di conseguenza, ha potuto essere canalizzata nel quadro delle istituzioni liberali. In realtà, l'insurrezione fu effettivamente un'impresa collettiva, condotta dall'insieme dello stato maggiore del Partito, per la quale è difficile identificare il ruolo svolto da ciascuno dei protagonisti quando si tenta di ricostruire il complesso delle operazioni. Il primo posto spetta indubbiamente ai capi squadristi che si mobilitarono da soli più che su iniziativa dei quadrumviri, i quali si rivelarono incapaci di gestire la situazione militare. L'esistenza del Partito armato non può essere contestata, né può esserlo la mobilitazione. Ma senza il concorso dello stato maggiore politico del fascismo nella sua struttura partitica, l'impresa avrebbe inevitabilmente condotto a una cocente sconfitta militare. -Che ruolo svolse la componente militare e politica che si mosse a Roma nell’ambito della via negoziale? Un ruolo centrale che è stato estremamente sottovalutato. A Roma fu affidata a Dino Grandi, Cesare Maria De Vecchi, Giacomo Acerbo, Costanzo Ciano, associati a Gaetano Polverelli e a Giovanni Marinelli (tutti membri del Partito), la missione di negoziare a nome di Mussolini con Antonio Salandra. L'opzione insurrezionale e l'opzione politica furono portate avanti congiuntamente fino alla fine, a scapito del mito rivoluzionario, che ne uscì fortemente indebolito. Contrariamente alla leggenda del tradimento trasmessa da Galeazzo Ciano nel suo Diario, De Vecchi fu l'interlocutore privilegiato nel dialogo con il re in nome del Partito e di Mussolini per facilitare l'accesso del fascismo al potere. Al riguardo, il ruolo di Acerbo fu probabilmente lungi dall'essere trascurabile per quanto concerne gli intrighi parlamentari. A causa di questa stessa dimensione politica nella presa del potere, la missione di Balbo, che effettivamente incarnava il mito del popolo in armi nella tradizione della Rivoluzione francese à la Saint-just, è stata probabilmente sopravvalutata in virtù del primato che, a lungo, la storiografia ha riconosciuto all'opzione sovversiva rispetto alla strada del negoziato politico che fu, invece, cruciale e sostanziale. -In cosa consiste l’originalità della marcia su Roma rispetto ad altri avvenimenti (più o meno) analoghi? Ma, a parte le riserve insite nella sua stessa natura che abbiamo evidenziato, è innegabile che la marcia su Roma fosse un avvenimento gigantesco grazie alla sua risonanza non nell'immediato, ma dopo il consolidamento del regime. La sua singolarità consiste nel fatto che, contrariamente alla Rivoluzione francese, alla rivoluzione dell'ottobre 1917 o all'11 settembre 2001, non vi è stata simultaneità tra l'avvenimento e la sua risonanza internazionale. Su questo piano, la marcia ha avuto pochi echi nel breve periodo. L'opinione pubblica la percepì come un colpo di Stato tecnicamente riuscito e non come una rivoluzione che sarebbe stata paragonabile alla rivoluzione bolscevica. L'avvenimento fu ampiamente ripensato dal fascismo divenuto regime, che si incaricò di magnificare la marcia a posteriori a partire dalle novità generate come all'origine di un'autentica rivoluzione. А questo proposito, il regime seppe dar vita a un immaginario eccezionale e a un'iconografia rivoluzionaria, che gli permise di fondare la propria legittimità per mezzo della marcia. Tuttavia, nel 1932, il mito del duce aveva largamente alterato la natura dell'avvenimento, spogliandolo di molti dei suoi attributi reali. Oramai, si trattava di narrare le sole prodezze di Mussolini a scapito dei suoi vecchi compagni d'armi, che deploravano l'evoluzione presa dal regime. Situata nel cuore della religione fascista, la figura del duce era considerata come l'interprete della coscienza nazionale, l'elemento chiave del dispositivo del sistema totalitario italiano. Era riconosciuto al duce di essere stato il fondatore del movimento e di essersene assunto la missione storica, che gli era stata affidata con la marcia. Definiti come i «crociati della nazione», gli squadristi permisero di diffondere presso le masse i riti fondamentali del culto fascista, il saluto romano, il giuramento, la sacralizzazione della nazione e della guerra, la benedizione degli emblemi (il Littorio), gli onori resi ai morti e ai martiri e, infine, il ricorso alle cerimonie di massa. Ma, come aveva lasciato intendere Alfredo Rocco, il fascismo era uno Stato di masse, ma non uno Stato delle masse.
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Interviste

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«La marcia su Roma fu un evento gigantesco, percepito dagli italiani più come colpo di Stato che come rivoluzione.» Il mito fondativo fascista secondo Didier Musiedlak

«L'avvenimento fu ampiamente ripensato dal fascismo divenuto regime, che si incaricò di magnificare la marcia a posteriori a partire dalle novità generate come all'origine di un'autentica rivoluzione. А questo proposito, il regime seppe dar vita a un immaginario eccezionale e a un'iconografia rivoluzionaria, che gli permise di fondare la propria legittimità per mezzo della marcia.»
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«Di fronte al fallimento degli orizzonti globali e astorici assistiamo ad una riaffermazione delle nazioni con aspirazioni imperiali». La visione dell’Ambasciatore Sergio Vento

«È lecito attendersi nell'era Trump un ulteriore indebolimento delle cornici multilaterali ed una accentuazione dei rapporti su base bilaterale. Questo vale non soltanto per l'ONU, ma anche nei rapporti di difesa e sicurezza finora gestiti in ambito NATO, e per quelli commerciali tenuto conto della competenza esclusiva dell'Unione Europea in tale ambito.»
«Di fronte al fallimento degli orizzonti globali e astorici assistiamo ad una riaffermazione delle nazioni con aspirazioni imperiali». La visione dell’Ambasciatore Sergio Vento

«Non esiste alcuna Internazionale Reazionaria, se non nei cassetti delle redazioni dei giornali di sinistra». Intervista ad Andrea Venanzoni

«Credere che i titani del Tech seguano una certa agenda politica perché hanno letto e apprezzato le teoriche neocamerali di Curtis Yarvin o l’’Illuminismo Oscuro’ di Nick Land o ‘Democrazia: il dio che ha fallito’ di H. H. Hoppe, che Liberilibri ha in queste settimane meritoriamente ripubblicato, e a loro ispirino la loro agenda economica e finanziaria, è un esercizio di dadaismo interpretativo.»
«Non esiste alcuna Internazionale Reazionaria, se non nei cassetti delle redazioni dei giornali di sinistra». Intervista ad Andrea Venanzoni

«Rifarei tutto così come l’ho fatto, non mi pento delle mie scelte». Intervista a John Kiriakou, un tempo talentuoso agente della CIA, oggi è attivista e denuncia gli abusi del governo e dell’intelligence USA

«Oltre alla CIA erano proprio le alte gerarchie militari le più contrarie alla gita in Iraq del 2001. Mi ricordo lo sgomento generale da parte di quasi tutti gli addetti ai lavori. Si sentivano poi follie su una possibile invasione dell’Iran… Avevano deciso pochi potenti, e non potevamo fare altro.»
«Rifarei tutto così come l’ho fatto, non mi pento delle mie scelte». Intervista a John Kiriakou, un tempo talentuoso agente della CIA, oggi è attivista e denuncia gli abusi del governo e dell’intelligence USA

«Il vero Mostro di Firenze, se non è morto, è ancora in libertà». Un caso da riaprire secondo Pino Rinaldi

«Il libro nasce dalla volontà di raccontare e dare voce a quello che fu il lavoro svolto dal generale Nunziato Torrisi, che seguì il caso insieme a Mario Rotella dal 1983, in qualità di tenente colonnello del Nucleo Operativo dei Carabinieri di Firenze. Torrisi partecipò al caso perseguendo quella che viene comunamente chiamata la "pista sarda" e - negli anni che passò a Firenze - raccolse indizi, prove e testimonianze che poi riportò nel suo "Rapporto Torrisi". Un documento di 173 pagine che racconta una storia ben diversa da quella comunemente accettata.»
«Il vero Mostro di Firenze, se non è morto, è ancora in libertà». Un caso da riaprire secondo Pino Rinaldi

Confessioni

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Le due vocazioni di Corrado Calabrò

«Non è una conciliazione la mia, è una coesistenza. Convivo da sempre con il mio doppio. È come se i miei emisferi celebrali avessero un funzionamento alternato: uno è teso alla razionalità organizzativa e dimostrativa, l’altro fa affiorare dal profondo (anche dall’inconscio) emozioni, percezioni che ci erano sfuggite. Il diritto è impegno intellettuale e civile, ma “la letteratura, l’arte sono la confessione che la vita non ci basta” - ha scritto Pessoa.»
Le due vocazioni di Corrado Calabrò

Le Grandi firme

di Enrico Raugi

La tattica del cane pazzo non pagherà

Nel XVII secolo, sull’Europa spazzata dalle guerre di religione, germinò la pianta dello Stato moderno. Esso può dirsi ontologicamente tale quando in possesso, fra altre peculiari caratteristiche, anche del monopolio legittimo della violenza. Il potere di conservazione dell’ordine sociale e legale, infatti, non può essere scomposto e conteso da famiglie nobili titolari di eserciti personali impiegati a difesa di feudi, né da mercenari acquartierati in una città; da quel momento le dispute private non potranno più risolversi con i duelli, e i moti di repubbliche secessioniste saranno sopiti col drenaggio di maggiori risorse economiche. Questo potere si è nel tempo scisso lungo due direttrici spaziali: interna, attraverso la creazione di una forza di polizia che, rispettando le norme giuridiche, mantenga l’ordine a livello locale; dall’altra, esterna, in un esercito nazionale, di coscritti appartenenti allo stato-nazione, legittimato ad utilizzare la forza per la difesa dalle minacce esogene. Episodi storici che rendono l’idea del monopolio legittimo della forza da parte dello Stato non mancano. Lo stesso Garibaldi fu vittima illustre. Nel 1862, il Generale, nel tentativo di riconquistare la città di Roma - ancora sotto l’egida del potere temporale della Chiesa -, aveva chiamato a raccolta le sue camicie rosse per replicare l’impresa nata due anni prima con lo sbarco a Marsala. Ma essendosi appunto costituto l’Unità d’Italia, le regole di ingaggio per un’impresa simile si erano capovolte. Il Regno Savoiardo aveva adesso un proprio esercito e il Re Vittorio Emanuele II, benché agisse con gli stessi fini di Garibaldi, non esitò a rivolgere i bersaglieri contro l’Eroe dei due mondi, che rimase ferito e sconfitto sull’Aspromonte. Ancora, un’altra vicenda significativa, si è consumata durante la prima guerra combattuta da Israele contro gli stati arabi, nel 1948. Poco dopo la Dichiarazione di indipendenza dello Stato ebraico, membri del gruppo terroristico ebreo dell’Irgun, capeggiati da Menachem Begin – futuro primo ministro -, tentarono di far entrare clandestinamente nel porto di Haifa la nave “Altalena”, carica di armi, per proseguire la guerra contro il nemico. In quel contesto il primo ministro David Ben Gurion spostò una colonna dell’esercito regolare dal campo di battaglia per impedire alla nave di approdare. Fu chiara la volontà dell’esecutivo di dimostrare la supremazia autoritativa dello Stato nei confronti di un gruppo paramilitare che, pur combattendo dallo stesso lato della barricata, contravveniva ai principi classici dell’ordine di potere modernamente inteso. Affrontando questo ragionamento per un’altra strada e ricollegandolo al presente della guerra in Medio Oriente, si può facilmente constatare quanto Israele stia utilizzando il proprio monopolio “legittimo” della violenza in maniera più che disinvolta. Alle brutalità del 7 ottobre, ai 1.200 morti civili israeliani e alle nefandezze perpetrate dai miliziani di Hamas, Israele ha risposto con una violenza altrettanto belluina. Nessuna riflessione introspettiva è stata fatta, almeno pubblicamente, per comprendere i motivi, storici e psicologici, che hanno costituito le premesse dell’operazione «Tempesta di al-Aqsa». I carri armati di Tsahal hanno spianato la Striscia di Gaza, lasciando sul terreno oltre 40.000 vittime; per sconfiggere i terroristi di Hezbollah sono penetrati in uno stato indipendente (anche se poco sovrano) come il Libano, bombardandone la capitale; più in generale si sono imbarcati in una guerra infinita ed esistenziale detta «dei sette fronti», i cui esiti sono imprevedibili. A fronte di una risposta dura, forse indispensabile, Israele - che in realtà è consapevole e conosce a fondo ogni cosa -, aveva la necessità di riflettere. Domandarsi perché i milioni di dollari recapitati a Gaza dai paesi arabi del Golfo anziché essere utilizzati per lo sviluppo economico e infrastrutturale della Striscia – un lembo di terra cinque volte più piccolo della provincia di Isernia, chiuso da un muro di contenimento e sorvegliato a vista - siano stati cinicamente utilizzati per scavare tunnel ed acquistare razzi. Domandarsi se la figura di un uomo come Yahya Sinwar – l’ex sovrano di Gaza – nato in un campo profughi della Striscia, da una famiglia allontanata coattamente da un villaggio a cui è stato dato un altro nome, in altre condizioni di vita avrebbe avuto la necessità storica di esistere così come è stato conosciuto, di manifestarsi nelle forme di carnefice.    Tutto questo la divisone etnica all’interno dello Stato ebraico e la sete inappagabile di sopravvivenza politica di Benjamin Netanyahu non lo permettono. La guerra dà stabilità interna, compatta frange eterogenee contro il nemico esterno. La tattica del «cane pazzo», che si muove con moto schizofrenico e a piena forza da un fronte all’altro spaventa, funge da deterrente alle potenziali ritorsioni di temibili nemici. I moniti cosmetici, di pura facciata, da parte dei paesi europei; la furia tutta verbale, ma corretta da invii di armi da fuoco e protezione attraverso le portaerei, da parte degli Stati Uniti; l’ormai conclamata inanità delle Nazione Unite di ricondurre a diplomazia un conflitto; lasciano ad Israele una conduzione totalmente sfrontata della guerra nello scacchiere mediorientale. Roma, Marzo 2024. XVI Martedì di Dissipatio Se volessimo fare parallelismo un po' spericolato, Hamas e tutto il cosiddetto «Asse della Resistenza» assomiglierebbero al bullo di classe, all’irrecuperabile “Franti” del Libro Cuore, sottoproletario e inossidabile cattivo - di cui nessuno, tuttavia, si preoccupa di capire perché lo sia così tanto -, e per questo viene ostracizzato; dall’altro avremmo un Israele che assomiglierebbe a quel primo della classe che dà le spallate ai compagni, anche di fronte ai professori poiché consapevole che il suo prestigio le garantirà comunque l’impunità.  Resta il fatto che, come ritenuto da molti esperti, la tecnica della decapitazione dei leader e la guerra senza limiti condotta dallo Stato ebraico contro le organizzazioni terroristiche, porterà sì ad un vantaggio tattico sul breve periodo e ad una certa tranquillità transfrontaliera. Ma nell’arco di una decina d’anni una trappola strategica potrebbe emergere nelle forme di una nuova generazioni di guerriglieri e terroristi, ancor più agguerriti di quelli oggi sconfitti, perché nati e cresciuti nella terra del rimorso, dove le speranze nel futuro si interrompono al fucile e all’ideologia.
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