La guerra del Sukkoth in reazione all’Alluvione al-Aqsa, caratterizzata da spiccata asimmetria cognitiva, evoca diversi parallelismi, da quelli religiosi dell’espiazione dello Yom Kippur del ‘73, alla celebrazione della lettura della Simchat Torah del 7 ottobre fino alla Cantata dei giorni dispari di Eduardo, che con Le voci di dentro e Gli esami non finiscono mai tratteggia l’essenza dei rapporti politici interni ed esterni di Tel Aviv. Secondo Kafka la giusta comprensione di una cosa e la incomprensione della stessa non si escludono; il confronto cinetico ha attivato un meccanismo che, rimarcando gli errori, costringerà i leader israeliani, dopo le furiose voci interne, ad affrontare gli esami di una platea internazionale frammentata; non a caso la questione israelo-palestinese, secondo la prospettiva della geopolitica critica, evidenzia come la società israeliana non rappresenti un monolite uniforme.
Se il 1973 ha segnato un punto di svolta politico, il 2023 ha trovato nell’establishment israeliano ed in Netanyahu uno degli artefici della debacle che ha visto l’emersione di spunti teologici con l’uso da parte di Hamas della strategia dissimulante della Taqiyya, pratica che salvaguarda la vita del fedele, transustanziata in un travisato interesse per questioni economiche che hanno distolto l’attenzione israeliana dopo una ventennale guerra di logoramento.
Il successo di Hamas si fonda sull’acquisizione di risultati politici spalmati temporalmente su decenni, necessari a consolidare la solidarietà, isolare Gerusalemme e delegittimare l’ANP. Il 7 ottobre ispirerà le future generazioni palestinesi come accaduto nel ‘68, su altra scala, a Karameh. Presumendo che Hamas fosse nella scia di Hezbollah, dunque apparentemente meno incline all’offensiva, Israele ha imprudentemente consentito flussi di finanziamenti qatarini privilegiando lo sfalcio dell’erba, ovvero l’esecuzione di campagne militari intenzionate a degradare progressivamente la capacità bellica di un movimento difficilmente eradicabile come Hamas.
Se nel ‘73 Washington e Mosca determinarono la fine del conflitto dello Yom Kippur, attualmente la Cina non esercita su Iran, che agisce tramite proxy yemeniti, libanesi ed iraqeni, o su Ḥamas, la stessa influenza allora pulsante su Egitto e Siria. Gli USA, forti di due gruppi navali di attacco nell’area, rimangono l’egemone capace di dissuadere hezbollah e pasdaran dall’approfittare della crisi.
Al di là della prossima nomina di commissioni di inchiesta che accerteranno i perché del fallimento dell’intelligence, Israele dovrà puntare ad una ritrovata umiltà che agevoli la comprensione dei sistemi di raccolta delle informazioni, dei processi di analisi, delle relazioni tra politica e servizi, individuando le lacune che hanno fiaccato la capacità operativa, al netto dei bias cognitivi che hanno distorto le informazioni comunque disponibili. Molto probabilmente i risultati stigmatizzeranno la fallacia, concettuale e di consenso, interna ai servizi, così come accaduto cinquant’anni anni fa. Da parte di Hamas basilari le analisi osint e humint che hanno messo a sistema segreti israeliani di fatto non classificati, ma capaci di fornire un quadro generale attendibile, a partire dalla strutturazione della difesa confinaria o dal considerare la pericolosità di un troppo sostenuto rilascio dei permessi di lavoro, tutti aspetti che imporranno nuove risposte difensive o offensive.
Se Israele ha confidato nella superiorità tecnologica, che ha generato un pericoloso effetto Maginot, Hamas ha operato per neutralizzarla, saturando il contesto con terrorismo e mezzi bellici poco sofisticati e facilmente reperibili; il successo dell’assalto del 7 ottobre ha dimostrato che affidarsi supinamente alla tecnologia può essere letale. Gli errori strategici si sono poi sommati alla crisi politica indotta dall’esecutivo Netanyahu, faticosamente formatosi dopo 5 estenuanti tornate elettorali; il governo più a destra e il più divisivo della storia israeliana per effetto di una riforma giudiziaria che per mesi ha spinto in piazza sia la popolazione sia i riservisti delle FA, specie i piloti, rappresentati dall’associazione Brothers in Arms, indotti a non presentarsi ai previsti addestramenti, sia a costringere il Ministro della Difesa Gallant su posizioni tali da determinare prima la sua rimozione poi il suo immediato reintegro. Il tutto a fronte e dello spostamento dei soldati da Gaza alla volta della Cisgiordania in rivolta per le intemperanze dei coloni, e dei timori espressi dal Presidente Herzog per la tenuta democratica.
La strategia israeliana non contempla uno scenario finale ottimale, ed è alla ricerca del ripristino della deterrenza perduta, alla luce degli interrogativi sul futuro politico di Gaza, posto che Tsahal ha piena coscienza della possibilità di un conflitto multifrontale; il rischio di trovarsi bloccati dalla sindrome vietnamita per scelte politiche sbagliate è reale, come reale è stato il passo falso di Netanyahu che, salvo una precipitosa ritrattazione, ha addossato a vertici militari e servizi la responsabilità dell’accaduto. Israele necessita dunque di una nuova strategia che allontani la congiunzione tra Gaza e Kiev, eludendo qualsiasi allargamento capace di incidere sui mercati.
Sullo sfondo, silenziosamente, gli Accordi di Abramo che, ridisegnando l’architettura geopolitica d’area e per questo invisi a Teheran, attendono momenti migliori per farsi rammentare, mentre nel consenso statunitense si avverte un’opposizione radicale anti israeliana in seno ai Dem; intanto Riyadh attende una soluzione statuale palestinese che permetterebbe di stringere legami ufficiali con Gerusalemme. Attenzione però, perché Hamas ha comunque conquistato punti sul piano politico-strategico data la prevedibilmente violenta reazione israeliana che ha inibito il riavvicinamento tra Tel Aviv e molte nazioni arabe malgrado l’odiosa querelle degli ostaggi.
Da non sottovalutare la politica egiziana, con la riconferma presidenziale di al Sisi, la gestione dei Gazawi in fuga dalla Striscia e le pressioni esercitate sulla già sofferente Giordania, ancora memore del suo Settembre Nero. Il problema non consiste dunque nell’occupazione israeliana di Gaza in sé, ma nelle sue tempistiche e modalità, posto che l’area Mena non sembra intenzionata a farsi coinvolgere.
Netanyahu, affetto da deficit di legittimità per le accuse di corruzione e fautore dell’errata percezione dell’indebolimento di Hamas, sarà comunque la prima vittima politica del conflitto; malgrado la chuptzah, dovrà render conto ad un Paese polarizzato e conflittuale che, pronto a delegittimare per via elettorale il Likud, attende il suo addio anche dalla destra: uomini nuovi cercansi, magari l’ascendente antagonista Benny Gantz. Nel frattempo Moody’s ammonisce circa la pericolosità economica di periodi troppo estesi di tensioni politiche e sociali specie quando gli investitori fuggono.
Mentre la Turchia, che bacchetta Israele, e Berlino che lo sostiene, offre ricetto agli esponenti di Hamas pur temendo le iniziative dello Shin Bet, affini a quelle intraprese dopo l’attentato di Monaco del ‘72, la umma, che aveva preso le distanze dal dossier Palestina, guarda con stupore alle iniziali capacità organizzative di Hamas associate ad un presunto indebolimento israeliano, benché molti Paesi arabi auspicherebbero tutt’ora che all’ideologia dei Fratelli Musulmani, propria di Hamas, venisse inferto un colpo risolutivo prima che i proxy iraniani possano infiammare tutta la regione. Rilevanti sia la politica saudita, che con i suoi media critica Israele, governato dalla destra, e Hamas in quanto espressione iraniana che non tiene conto della catastrofe umanitaria della Striscia, sia le NU che, con il Segretario Generale Guterres hanno invocato l’art. 99 della Carta suscitando la veemente reazione di Tel Aviv. La banalizzazione del conflitto ha invece posto Pechino in una posizione disagevole, dato che gli USA hanno consolidato la propria reputazione a fronte della contiguità politico-commerciale cinese con l’Iran, mentre Mosca fruisce di un focus spostato da Kiev a Gaza. Un conflitto più esteso destabilizzerebbe la regione a vantaggio di Teheran, alimentando l’inflazione sui prezzi energetici mondiali ed innescando la recessione occidentale.
Prossima dunque una nuova fase di attrito in merito al futuro di Gaza; ad Israele il difficile compito di trasformare il conflitto in un successo politico con accordi reciprocamente accettabili anche alla luce sia dell’esito delle elezioni presidenziali americane sia della chiusura della finestra statunitense per la guerra vera e propria, pericolosamente capace di sottrarre voti a Biden.
La nuttata di Eduardo, lungi dal passare, appare dunque quanto mai difficile ed incerta.