Se Hesse avesse immaginato la sua Castalia cinta dal mare, il Magister Ludi Josef Knecht avrebbe giocato con perle d’acqua e non di vetro, capaci di permettere relazioni ancor più fluide tra concetti solo apparentemente distanti. È la sorte che tocca al mare, naturale Πόντοςtra d’idee poco affini alla staticità. Il dinamismo rende fragile qualsiasi interprete, soggetto all’ineludibile cinetica di realtà ingovernabili ed in perenne moto.
Il problema è riuscire a comprendere quale possa essere – se c’è – un nuovo ordine concettuale e con chi relazionarlo secondo le regole imposte da un gioco complesso e combinatorio disegnato da gocce d’acqua, poste come note su un pentagramma che lascia all’immaginazione il ritmo di un’armonia politica secondo una base, più o meno universale, cui non è ora estraneo il tocco dell’AI. Se Hesse fosse vissuto sul mare, non avrebbe potuto rimanere immune al fascino dell’attrazione esercitata dall’essenza del potere in generale, e da quello marittimo, esclusivo ed elitario in particolare, così come accaduto a Carl Schmitt.
In questo ambito si pone l’asimmetricamente mutevole interpretazione della geografia quando posta al centro dell’universo della geopolitica, materia plasticamente, trasversalmente e metodologicamente perfetta per l’esercizio della correlazione logica tra perle d’acqua e concettualità ancorché distanti; fondamentale è rammentare come e quanto la geopolitica si attagli alla competizione egemonica che si volge, realisticamente a là Kissinger, alla preservazione – absit iniuria verbis – degli equilibri di potere entro uno spazio fisico senza scivolare nel determinismo.
Potere ed egemonia portano alla scoperta della strategia, loro inseparabile compagna da intendersi in relazione flessibile tra fini prefissati e mezzi disponibili, ovvero secondo un’azione scelta tra altre opzioni, che implica un confronto/scontro con un altro soggetto in vista del raggiungimento di un determinato obiettivo.
È indubbio che il trasporto acqueo sia più economico e agevole del terrestre, ragion per cui le potenze marittime sovrastano commercialmente le continentali stabilendo un’influenza strategica permanente; il potere, intinto nell’acqua salata, catalizza un’alchimia in cui i corretti dosaggi degli ingredienti politici, militari ed economici, non disgiunti da un genetico convincimento marittimo popolare, sono essenziali. Il potere marittimo è genetico ed ereditario, non nasce dal nulla, è fatto di elementi che si moltiplicano tra loro e compendiano l’accesso al mare e la libertà di disporre di rotte e stretti. Il mare è al contempo res omnium e res nullius, ed il diritto supera la statualità per tutelare la libertà economica individuale garantendo di conseguenza la libertà di navigazione. È qui che l’evangelista Mahan, interprete della necessità di poter disporre di una Marina capace di difendere la ricchezza nazionale grazie alla liaison tra i poteri commerciale e militare/navale, fa ascoltare la sua voce; oggi, pragmaticamente, l’ammiraglio americano, nel fare sua la teoria di Walter Raleigh, avrebbe tratteggiato il potere marittimo seguendo il contorno della crescita del PIL correlato a supply chains, ZEE e braccio militare, estensioni di potere costantemente supervisionate e bilanciate nel superamento delle teorie difensiviste della Dottrina Monroe.
Se è vero che Mahan non può competere con l’ampiezza concettuale clausewitziana, è però altrettanto vero che il prussiano Carl è carente in quanto agli aspetti di bilanciamento economico e tecnologico dell’americano Alfred che si fa esegeta delle istanze di una nazione alla ricerca della dimostrazione del destino manifesto anche tra le onde di due oceani. Non a caso, è sempre un talassocrate yankee, Nathaniel Bowditch che riporta alla sempre attuale necessità di governare flutti naturalmente imprevedibili.
Per la talassopolitica Washington, la marittimità impone l’eliminazione di ogni criticità e non disgiunge la geoeconomia da una politica di potenza sorretta da capacità belliche proiettabili sulla terraferma. Due le intuizioni di Mahan: i sistemi economici sono dinamici, dunque la ricchezza rientra nel flusso commerciale internazionale e non in quello della capacità produttiva; le interdipendenze economiche acclarano l’esistenza di implicazioni indispensabili all’esercizio del potere marittimo, purché sia sempre chiaro che qualsiasi ambizione priva del sostegno della forza soffre di sopravvivenza grama e limitata. Tra l’altro, se è vero che il dominio marittimo assoluto difficilmente può esistere, date le dimensioni geografiche regionali e globali e la tridimensionalità determinata dai domini riconosciuti, il conflitto si trasforma per attrito in un sea control delle aree d’interesse limitato alle effettive necessità, ed in un antagonistico sea denial: è un fatto, il mare non può essere né occupato né posseduto; si tratta di un’inevitabilità geopolitica che rende il dominio marittimo esclusivo una fattispecie improponibile anche per il più grande talassocrate della storia.
È un Game of Powers in cui si incrociano concetti e pensieri che riflettono culture e visioni complesse e diverse, specchio di politiche di equilibrio e di ambìte proiezioni di potenza. Per mantenere l’influenza sul Rimland di Spykman, il limes geografico che cinge l’Eurasia, è indispensabile mantenere il controllo dei choke points attraverso cui transita il traffico mercantile e militare.
Maritime power e Sea power sono concetti in via di costante evoluzione e ad essi vanno congiunte, in un aumento incrementale di complessità, le accezioni commercial e military, di marca statunitense. La semantica tedesca sgombera il campo dai dubbi ed introduce il concetto di seemacht di chiara estrazione militare, cui si aggiunge il seegeltung, lemma intraducibile che individua una capacità – commerciale – generatrice di interessi marittimi. Dopo il prussiano e continentale Clausewitz è dunque la volta del brandeburghese e marittimo Alfred von Tirpitz con la teoria del risiko gedanken che contrasta quella britannica della fleet in being, un disegno che conserva in nuce gli alleli della Game Theory di Nash.
Cosciente di un ruolo preminente in un paese – malgrado tutto – marittimo, anche la Marina italiana contribuisce al dibattito fin dagli anni Trenta giungendo a definire il potere marittimo come la possibilità statuale di far uso del mare per i propri interessi, impedendo analoghe attività concorrenziali, per poi aggiornare, secondo le evoluzioni storiche, le concezioni mahaniane. Se estensivamente il sea power rientra nelle capacità statuali di ricorrere al mare a protezione dei propri interessi ovunque si manifestino, diventa allora più comprensibile l’altro passaggio semantico che vede il Mediterraneo trasformarsi nei secoli da nostrum a latum, fino a lambire le sponde di altri e più distanti Mediterranei contrassegnati da neologismi come IndoMed e Medatlantic, comunque cooptati dall’interesse nazionale, geostrategico e geoeconomico al contempo, ed interessati sia alle evoluzioni dell’IMEC da sud, sia a quelle del Trimarium dall’est balcanico.
Il potere, nella sua accezione marittima, si discosta poco dall’idea di Weber, specie nella sua versione macht, dove la volontà egemonica si impone anche e soprattutto di fronte ad un’opposizione. Il potere si declina quindi in un’ottica conflittuale che esalta la capacità di giocare secondo strategie precise ma con equilibri mutevoli. Qualsiasi attore privo di visione geopolitica è destinato al fallimento, vittima, spesso consapevole, di convincimenti errati come l’essersi ostinato a considerare il mondo post bipolare un’oasi pacifica.
Steve Jobs ha esortato ad essere folli ed affamati; il non esserlo, rinunciando all’esercizio delle proprie capacità, non può che accelerare il declino. La dimensione marittima, in quanto latrice di proiezioni di potenza, va associata all’idea di un’integrazione delle diverse forze che operano su diversi livelli, dal politico all’economico, tenendo conto che la dimensione marittima rimane un passepartout fondamentale, visto che, anche per la conquista del dominio dello spazio, sarà utile ritrovare lungo la volta celeste le corrispondenze con i key points mahaniani.
Che il potere marittimo sia rilevante è indubbio; chi e come lo debba esercitare è altra questione. Prerogativa non delegabile, rientra nelle accezioni strategiche dei soggetti politici statuali con un caveat: l’obbligo del suo indefettibile esercizio. Quanto accade nei mari più prossimi, ricompresi nel disegno geopolitico del Mediterraneo allargato, richiede che le teorie trovino evoluzione dottrinaria e soprattutto applicazione pratica, stante la persistenza delle necessità nazionali e delle ineludibili crisi insorgenti. Multipolarismo e frammentazione degli equilibri politici esaltano i punti di faglia; al di là delle considerazioni contingenti, non c’è dubbio che qualsiasi attentato alla libera navigazione si riverberi internamente esacerbando situazioni critiche già in origine. Chi mai fosse stato incuriosito dagli aspetti più pratici della rilevanza ponderale del potere marittimo, potrebbe prendere a paradigma l’aumento dei costi assicurativi e di trasporto conseguenti alla crisi del Mar Rosso.
Il problema di fondo, nel caso specifico, risiede nelle implicazioni strategiche degli attentati Houthi: in quanto potenzialmente replicabili anche oltre il teatro d’elezione, possono amplificare la minaccia ai flussi commerciali, dunque all’economia globale interconnessa: un battito d’ali di farfalla al largo di Hodeida può scatenare una tempesta a Wall Street. Del resto, ed anche più vicino, c’è chi concorre vivacemente con il Mediterraneo allargato, tingendo di azzurro una Patria tradizionalmente continentale e rendendo così opportuno considerare ulteriori estensioni del raggio d’azione sfruttando la proiezione di potenza marittima, necessariamente accompagnata da politiche coerenti e foriere di credibilità internazionale ma, soprattutto, in grado di frenare egemonie altrui.