Ancora assuefatti al racconto che decretò la fine della storia, i Paesi occidentali stentano ad accettare che la Belle Époque di impronta americana sia ormai giunta al termine. Non siamo in guerra fredda. Non vi è equilibrio di potenze ma totale squilibrio. L’asimmetria di potere è ciò che porta alla guerra.
Siamo piuttosto in una situazione simile ai primi del Novecento, nella quale un grande impero che domina la scena da decenni è visto in declino dai suoi rivali (e anche da parte dei suoi alleati) e dove una nuova potenza industriale si affaccia all’orizzonte, bramosa di rivalsa e di sovvertire l’ordine costituito. A differenza di allora, però, lo sfidante sa bene che imporsi sulla terra ferma non basta. La vera sfida avverrà sul mare.
Per questo la Repubblica Popolare non è per niente sicura di risultare vittoriosa da un ipotetico conflitto a differenza di come lo furono i tedeschi in passato. Questo però non significa che rinuncerà a tentare, anche perché sa bene che, nel lungo periodo, il contenimento USA riuscirà a soffocarla e a quel punto rischierà l’implosione.
Per avere un’idea più chiara su ciò che sta accadendo e su cosa potrebbe in futuro accadere, è spesso utile svolgere dei confronti con epoche e attori passati. Non perché questi rispecchino esattamente il contesto odierno, ma perché è più semplice comprenderlo per distinzione e somiglianza.
L’ipotesi che offriamo al vaglio del lettore è che, data la somiglianza tra importanti elementi strutturali del pivot asiatico (Cina) e di quello europeo (Germania), la parabola storica del secondo impero tedesco (1871-1918) possa fungere da utile esempio per comprendere ciò che potremmo aspettarci dalla Repubblica Popolare Cinese.
«Dopo aver unificato la Germania e sconfitto la Francia con “sangue e ferro”, Bismarck decise di limitare la posizione di forza tedesca all’Europa e di non tentare l’espansione a livello mondiale. Durante i vent’anni da cancelliere, isolò i rivali francesi, stabilizzò i territori intorno e si dedicò a consolidare i successi geopolitici ottenuti dalla Germania in Europa tra il 1866 e il 1872. Peccato che questa politica moderata sia stata vanificata da Guglielmo II (1888- 1918). Ragion per cui Bismarck diede le dimissioni nel 1890».
Qualcosa di simile avvenne in Cina dove, agli anni della riunificazione e consolidamento (dal 1949 agli inizi degli anni ’70) seguirono quelli dell’apertura al mondo: prima in senso puramente commerciale (l’epoca di Deng Xiao Ping), poi in senso più estesamente geopolitico (l’epoca di Xi Jinping, dal 2013 ad oggi). Date le peculiarità di entrambe le nazioni in oggetto, le fasi di apertura al mondo possono celare notevoli rischi. Infatti, come la Germania, anche la Cina è «un paese continentale, oggetto di contenimento da tutte le parti. Come in un parallelogramma, la distensione eccessiva di qualsiasi suo lato può provocare la perdita della stabilità. Se la Cina si espandesse troppo in una certa direzione rischierebbe lo schiacciamento e la contrazione strategica in un’altra zona». Così come la Germania di fine ‘800 estese il suo dominio (territoriale e politico) in Europa cercando di allontanare il confine dal baricentro nazionale, allo stesso modo la Cina comunista, tra gli anni ’50 e ’60, si impossessò delle regioni dello Xinjiang e del Tibet, territori confinanti con paesi tra i più instabili al mondo, aree strategiche collocate a ovest rispetto al cuore del celeste impero, lì dove, nel corso dei secoli, ebbero origine devastanti invasioni del territorio cinese.
Oggi, tuttavia, la minaccia vien dal mare, da paesi rivali che circondano le sue coste, impedendole di estendere la sua forza tra le onde del pacifico, così come la Germania Guglielmina si trovò privata del libero accesso all’atlantico dall’Impero britannico.
Volendo individuare alcuni tra gli elementi cardine che, attraverso la storia, determinano la postura di un paese, i suoi imperativi e i suoi vincoli, potremmo indicare: collocazione geografica; quantità, qualità e composizione del fattore umano; capacità di farsi (vero) impero. Questi i fattori permanenti che viaggiano al di sopra di quelli contingenti, che li condizionano rimanendo pressoché immutati nel viaggio attraverso la storia.
È proprio focalizzandoci sulla struttura che scopriremo interessanti similitudini le quali, pur prese con le dovute precauzioni, potranno far chiarezza su questioni assai cogenti nella realtà odierna. Oltre a questi, ci focalizzeremo anche sull’importanza degli aspetti economici, tecnologici e industriali i quali, nonostante non siano stabili nel tempo, sono pur sempre strumenti che giocano un ruolo decisivo.
Dal punto di vista strettamente geografico, Germania e Cina sono paesi continentali con limitati sbocchi sul mare: la prima si affaccia sul mar baltico e il mar del nord, la seconda sul mar cinese meridionale e orientale.
Fin dall’incoronazione di Ottone I come imperatore del Sacro Romano Impero (962-1806) è possibile osservare come l’evoluzione territoriale dell’impero del centro Europa, proprio perché al centro, si proiettasse verso tutti i territori circostanti: a est, negli odierni territori di Polonia, Repubblica Ceca e Austria; a sud, nell’Italia centro-settentrionale e in Slovenia; a ovest, nei territori dell’attuale Belgio, Olanda e Francia.
La proiezione verso questi territori non è certo casuale. Basta riprendere le mappe della seconda guerra mondiale per accorgersi che l’estensione territoriale abbracciava i medesimi luoghi.
A partire dal secondo Reich (1871) – quando si affermò come prima potenza industriale e militare d’Europa, se non del Mondo – fino alla sconfitta della seconda guerra mondiale, il più grande ostacolo alla sua proiezione marittima fu costituito dalla potenza talassocratica per eccellenza, situata in una posizione tale da chiuderla nelle sue stesse coste, impedendole l’accesso all’oceano atlantico: la Gran Bretagna. L’impossibilità di controllare quelle acque ebbe come inevitabile conseguenza lo sviluppo repentino delle vie di comunicazione terrestri per favorire i movimenti e gli scambi commerciali nel continente euroasiatico.
Così come oggi la Belt and Road Initiative cinese ha l’obiettivo di collegare la Cina all’oceano indiano (aggirando Malacca) e all’Europa (tramite l’Asia centrale e la Russia), allo stesso modo la Germania Guglielmina tentò a fine ‘800 di creare un collegamento diretto che attraversasse Turchia e Medio Oriente per affacciarsi sull’oceano indiano, evitando così la minaccia navale britannica tra la Manica e il Mediterraneo. Nel 1888, infatti, «Istanbul concesse alla Germania i diritti per la ferrovia İzmit-Ankara e l’anno dopo venne fondata la Compagnia ferroviaria dell’Anatolia. Furono i primi tasselli della via ferrata Berlino-Baghdad, simbolo della Weltpolitik guglielmina e rappresentazione plastica della grande strategia fondata sul ‘corridoio tedesco’ nell’impero ottomano. Direttrice geopolitica volta a connettere Baltico e Oceano Indiano».
Ma è la posizione centrale rispetto al continente che la porta ad essere il perno dell’equilibrio europeo e, come baricentro, non può che essere circondato da altre potenze, costrette per necessità ad estendersi (quando possibile) verso il centro: Francia e Russia.
L’essere sopraffatto dall’inevitabile realtà geografica e dal complesso di accerchiamento che ne minacciava l’esistenza stessa, l’ha costretta ad essere ciò che è.
La Germania o è grande potenza, o non è! O Sacro Romano Impero (delle origini), o stati frammentati, terreno di conquiste altrui; o secondo e terzo Reich, o divisa tra est e ovest. La sua forza nasce dalla sua insicurezza. La debolezza è un lusso che non può permettersi.
Volgendoci alla Cina, possiamo constatare una certa simmetria nei rapporti geografici.
Anch’essa ha occlusa la via al mare da un grande potenza talassocratica: il Giappone (e oggi soprattutto gli Stati Uniti). La minaccia di invasioni marittime è però una peculiarità degli ultimi due secoli: prima per mano europea (XIX secolo), poi per mano giapponese (prima metà del ‘900).
Coperta a sud-ovest dalle catene dell’Himalaya, fino al XIX secolo i pericoli provenivano essenzialmente dall’Asia centrale (ovest) e dalla steppa mongola (nord).
Focalizzata sulla difesa terrestre, soggetta a continue invasioni, la Cina fu costretta a rinunciare all’ambizione di imporsi come principale potenza marittima in Asia.
Evento chiarificatore di quanto testé affermato fu quanto accaduto sotto la dinastia Ming (1368-1644). Con essa ci fu un rapido sviluppo della flotta che portò l’impero cinese a creare reti commerciali che arrivarono fino in Africa. Tuttavia, nel 1525 fu ordinata la totale distruzione dell’enorme flotta(più di 3500 imbarcazioni, la più grande che il mondo abbia mai visto). Le motivazioni addotte per spiegare tale evento spaziavano dagli eccessivi costi di mantenimento, alla paura della casa imperiale per la formazione di una pericolosa casta di mercanti arricchitasi col commercio marittimo. Pur essendo tutte motivazioni plausibili, queste non avrebbero mai potuto motivare una scelta così drastica e definitiva. La realtà è che l’impero Ming veniva da decenni di lotte per la liberazione del territorio dalla dinastia Yuan – imposta dai mongoli dopo l’invasione del territorio cinese avvenuta tre secoli prima – e per le continue invasioni dei popoli dell’Asia centrale (come i tartari) un tempo appartenenti all’impero mongolo. La sicurezza dei Ming si giocava tutta sulla terraferma. Non vi era spazio per volgersi al mare.
Ci si imbarca alla conquista del Mondo quando si è sicuri di non perdere la casa da cui si è partiti, oppure quando la sua protezione si gioca sulle acque (come sta accadendo oggi).
Così come la Germania, quindi, anche la Cina è da sempre obbligata sulla terra a causa dell’accerchiamento terrestre e dall’avere di fronte al suo sbocco sul mare una grande potenza marittima che ne limita l’espansione.
Per questo, col tempo, ha dovuto implementare le reti di comunicazione via terra, dedicando gran parte della capacità di investimenti in infrastrutture per connettere se stessa ai paesi limitrofi, al medio oriente e all’Europa (vecchie e nuove vie della seta).
È necessaria maggiore cautela, invece, nel confronto rispetto alle capacità economiche, tecnologiche e industriali poiché, a differenza degli altri elementi summenzionati, queste sono maggiormente soggette a variabilità nel tempo e, seppur mostrano somiglianze nelle tendenze generali, posso avere origini ben diverse.
In una prima comparazione, è utile osservare che la parabola economico-industriale della Germania 1871-1900 (circa) – fatta di protezionismo, consolidamento territoriale, rafforzamento industriale – non si allontana molto da quella cinese degli anni 1949-1978. I punti di partenza erano nettamente diversi (la Germania era già un paese ricco e industrializzato, la Cina al contrario era molto più povero e principalmente contadino), ma in entrambi i casi lo Stato esigeva un rafforzamento interno prima di aprirsi al mondo. Le strade però si separarono nel periodo subito successivo: entrambe aprirono la loro economia (seppur in forme diverse) all’estero ma, mentre la Germania Guglielmina, sentendosi in grado di sfidare la globalizzazione dell’impero britannico, cercò di crearsi uno spazio alternativo, la Cina (probabilmente perché non vide altri spazi nei quali insinuarsi in un mondo dominato da un’unica potenza globale) aderì alla globalizzazione americana, traendo così molto più vantaggio economico rispetto alla Germania a cavallo tra il XIX e XX secolo.
Questo, da un lato, contribuì ad alimentare i conflitti della prima metà del ‘900 e, dall’altro, stemperò le pretese cinesi fino agli anni ’10 del 2000. Solo negli ultimi dieci anni, da quando si capì che la Repubblica Popolare non aveva intenzione di sottostare al volere americano, iniziarono ad inasprirsi i rapporti con gli Stati Uniti e, di conseguenza, con i suoi alleati.
Guardando ai due paesi nel contesto odierno, possiamo osservare similitudini maggiori dal punto di vista economico-industriale.
Oggi, infatti, siamo di fronte a due paesi che definire “vocati all’export” è addirittura riduttivo. Essi dominano il mercato mondiale: la Cina è il primo esportatore al mondo e la Germania il terzo, quasi alla pari degli Stati Uniti ma con un quarto della sua popolazione.
C’è da dire, però, che in entrambi i casi la straordinaria forza esportatrice degli ultimi decenni ha avuto negli Stati Uniti la sua forza motrice. Questi ultimi, infatti, hanno cercato di affogare nella ricchezza ogni velleità geopolitica, agevolandone i commerci e finanziandone la crescita (gli USA, infatti, sono il primo importatore di Germania e Cina e tra i primi investitori esteri). Si è ritenuto che rendendo estremamente vantaggioso il sottostare alla volontà statunitense, Germania e Cina rimanessero ancorati al puro economicismo, rinunciando così alla propria politica di potenza. Per la prima, l’idea pare aver funzionato (anche perché ardono ancora le cicatrici delle due guerre mondiale e la divisione fra est e ovest). Per la seconda, invece, no. Ecco perché assistiamo negli ultimi anni a notevoli passi indietro della politica USA (che a inizio anni 2000 aveva dato il via libera all’ingresso della Cina nel WTO, insieme a UE, Giappone e Canada).
Anche in questo caso, gli strumenti utilizzati per imporsi come potenze esportatrici sono tra loro diversi.
Grazie al mercato unico europeo e alla moneta, la Germania è riuscita ad accaparrarsi la fetta di mercato più ghiotta del pianeta (2/3 di tutto il suo export). Quella in cui non vive di certo la maggior parte della popolazione mondiale, ma che rimane quella più ricca rispetto al resto del mondo e che da più di duemila anni si trova al vertice della civiltà.
Ovviamente la forza economica non si esaurisce nel mercato e nella moneta. Questi sono strumenti che ne agevolano la crescita. Senza le enormi capacità umane e industriali che la caratterizzano, tali strumenti servirebbero a ben poco.
La Cina, al contrario, non potendo beneficiare dei medesimi strumenti, necessita di sfruttare l’enorme forza lavoro di cui dispone per giocarla a suo vantaggio. È cosa nota che negli ultimi vent’anni molte aziende non cinesi hanno iniziato ad aprire stabilimenti produttivi in Cina per beneficiare della manodopera a basso costo, così da poter vendere a prezzi inferiori i propri prodotti. Cosa che ovviamente ha fatto in primis la Cina stessa. Con circa un miliardo e mezzo di abitanti, molti dei quali appena sopra la soglia di povertà, essa può da un lato aumentare il reddito delle famiglie (i salari sono bassi, ma molti degli operai vengono da redditi ancora inferiori), dall’altro può tenere bassi i prezzi sul mercato e aumentare la produzione. Si aggiunga, inoltre, che lo yuan è assai più svalutato rispetto alle monete di gran parte dei mercati in cui esporta (UE, USA, Giappone ecc.).
Anche in questo caso, però, bisogna dare a Cesare quel che è di Cesare, poiché è innegabile che la crescita esponenziale che la Cina ha avuto negli ultimi 30 anni sia derivata anche dalle grandi capacità della sua popolazione.
Ad ogni modo, la vocazione all’export rimane un tratto distintivo di entrambi i paesi. Elemento che mal si concilia con l’idea di impero, poiché invece di legare a sé gli altri paesi offrendo vantaggi, cerca al contrario di drenare da questi la ricchezza per portarla nelle proprie tasche.
Certo è che, sia i cinesi che i tedeschi hanno dimostrato a tutto il mondo di essere popoli estremamente capaci e laboriosi. Riescono a primeggiare in ogni settore al quale si dedicano: da quelli tecnologici e industriali, a quelli più marcatamente scientifici ed intellettuali.
Tuttavia, da sempre hanno dovuto pagare lo scotto di enormi divisioni interne plurisecolari. Entrambi, infatti, hanno come prima necessità quella di tener salda l’unità nazionale. La Germania, dedicando gran parte delle risorse (derivate dal surplus commerciale) per il welfare state; la Cina, da un lato cercando di assimilare (anche con la violenza) le minoranze etniche (soprattutto quelle dello Xinjiang e del Tibet), dall’altro tentando di ridurre il divario economico fra l’entroterra e le coste, caratterizzate da differenze abissali in termini di benessere economico e qualità della vita.
Entrambe usano la leva economica per cercare di tenere unito un paese che altrimenti rischierebbe di sfaldarsi (non tutti gli Stati riescono a stare uniti in condizioni economiche precarie), ma l’origine delle divisioni interne è diversa. Per la Germania il benessere economico è ciò che permette di ovviare a divisioni culturali ed etniche che sono alla base della composizione dello stato federale. Renani, bavaresi, vestfaliani, sassoni ecc., sono popoli ben diversi, con una loro storia e cultura e che solo 150 anni fa si sono riuniti in un unico Stato sotto la spinta di un popolo che abitava i territori che vanno dal Brandeburgo fino al confine lituano: quello prussiano.
Da sempre divisi in piccoli Stati e principati, i tedeschi si riunivano sotto la spada dell’egemone di turno per poi separarsi nuovamente. Non sono mai stati un unico popolo e anche dopo l’unificazione del 1871, le diverse fazioni si alternarono ai posti di comando. Anche oggi, dopo la riunificazione del 1990, le differenze tra “Ossis” e “Wessis” abbracciano diversi ambiti.
In queste condizioni, è chiaro che la leva economica serva ad obnubilare la consapevolezza dell’alterità costituente. È proprio per questo che la crisi in corso – la rottura dei rapporti con la Russia a causa della guerra in Ucraina e l’inasprirsi della politica di “de-risking” con la Cina – sta facendo riemergere divisioni secolari all’interno della Repubblica Federale (ne è un esempio l’ascesa del partito AfD, il quale si impone geograficamente proprio nei territori della ex DDR).
La Cina, al contrario, non utilizza l’economia per ovviare a differenze etnico-culturali. L’origine del problema è della stessa natura della soluzione, ossia economica. Pur avendo diverse minoranze etniche, infatti, il 92% della popolazione appartiene all’etnia Han.
Essa, dunque, deve far fronte a quello che è un problema che si ripete nei secoli: il divario economico-sociale tra entroterra e coste. Ogniqualvolta la Cina si apre al mondo, le zone costiere incrementano esponenzialmente le loro ricchezze a dispetto dell’entroterra. A quel punto i governanti, se vogliono tenere unito il paese, sono costretti a dover reindirizzare parte di quei guadagni per le zone periferiche, alimentando così gli odi interni tra quelli che vedono negli altri un enorme carrozzone da dover trainare e mantenere, e chi invece vede negli abitanti delle coste un’élite arricchitisi sulle loro spalle.
Tematica che, come detto, si ripete ciclicamente, così come oggi, in cui converrebbe «chiedersi se le aree ipermoderne della costa, commercialmente interconnesse con i vicini e con il resto del mondo, dunque esposte al contagio occidentale, non possano considerare, sotto la pressione dello scontro Usa-Cina, l’opportunità di autogestirsi per meglio aprirsi ai traffici − come fecero nell’Ottocento, specie in favore dei britannici».
Tutti questi elementi portano ad una questione più generale: le reali capacità di farsi impero. Nella storia umana si sono succedute grandi potenze coloniali che hanno schiacciato sotto il proprio tallone altre popolazioni imponendo il loro volere. Tuttavia, se anche molte furono tali nazioni, poche tra queste rientrano coerentemente in quelli che chiamiamo imperi. Impero, infatti, non significa semplicemente imporsi su altri, ma far diventare questi parte di sé. Rendere i dominati simili ai dominanti, aprire le porte alla mescolanza, ridurre le differenze. Solo così un impero è considerabile come tale e i territori conquistati possono assurgere a province e non rimanere semplici colonie. E solo così si può coltivare la propria persistenza nel tempo. È ciò che fecero i romani, i persiani , gli ottomani, gli inglesi − in parte anche i russi − e infine gli americani.
La difficoltà del farsi impero non deriva tanto dall’assoggettare altri popoli, quanto piuttosto dalle rinunce di cui la nazione egemone deve farsi carico per mantenerle sotto il suo controllo. Perché se la conquista può essere in certi casi semplice (poiché si misura esclusivamente sul piano militare), il mantenimento è cosa assai più ardua. Si deve spesso rinunciare al benessere economico del nucleo originario per cederlo in parte alle province conquistate (solitamente tramite grandi importazioni che incrementano lavoro e ricchezza), così da far toccare con mano i benefici di star sotto il proprio dominio. Bisogna mettere (parzialmente) da parte il primato del gruppo etnico dominante e guardare alla popolazione con gli occhi della cittadinanza piuttosto che dell’etnia. È necessario disporre di una missione universale − sia essa la democrazia e la libertà, il comunismo o la religione − che giustifichi agli occhi del mondo la propria battaglia. Si deve scindere la gloria di Roma da quella dei romani di stirpe, facendo diventare Roma qualsiasi territorio nel quale il suo occhio si posa, cosicché il farne parte sia percepito come un grande privilegio.
Da quanto detto, appare chiaro che sia la Cina sia la Germania non godono (e non hanno goduto in passato) di tali caratteristiche.
Dei tre imperi tedeschi che si sono succeduti nel corso di circa 1000 anni, solo il primo tentò a tratti di perseguire velleità imperiali, ben presto disattese.
Gli altri due, invece, per quanto esprimessero un’enorme potenza, non tentarono nemmeno di assurgere a vero impero ma cercarono piuttosto di imporsi come principale potenza coloniale a guida tedesca. Le conquiste territoriali in Europa miravano a far “rientrare” entro i confini nazionali le popolazioni di lingua tedesca che, perciostesso, venivano percepite come esuli che ritornavano a casa (pur con l’eterogeneità che caratterizzava le popolazioni germaniche) e non come stranieri da assoggettare con la forza. Al contrario, i territori extraeuropei erano altro rispetto alla “grande Germania”: colonie e dipendenze oltremare. La ricchezza veniva drenata da quest’ultime e portata in patria. Non vi era alcuna missione universalistica, ma al contrario l’esaltazione del popolo tedesco e della sua forza.
Storia simile per la Cina, la quale si trova oggi a fronteggiare un vero impero (gli Stati Uniti). La potenza cinese, per quanto imponente, si esaurisce in sé stessa, quando invece quella degli USA si estende a tutti i suoi alleati.
Al contrario la Cina non ha che partner commerciali o alleanze fittizie con paesi indipendenti dal loro volere e con interessi divergenti (Russia, Iran e Corea del Nord), meno che uno: la rivalità con la prima potenza mondiale.
Solo nell’ultimo periodo sta abbozzando maldestri tentativi di soft power per estendere la sua influenza nel mondo. «Ha iniziato a definire in maniera più chiara i tre consessi multilaterali su cui il mondo sinocentrico dovrebbe imperniarsi: l’Iniziativa di sicurezza globale (Gsi), quella di sviluppo globale (Gdi) e quella per la civiltà globale (Gci)». Il nesso di fondo di tali iniziative, tramite le quali la Cina vorrebbe sottrarre influenze agli USA, si basa sull’offrire ai paesi aderenti un’alternativa al sistema occidentale. Tuttavia, per distinguersi dagli USA, la Cina non propone il suo sistema, ma si pone (almeno a parole) come garante della libera scelta di ogni paese nel decidere il proprio modello di crescita, che non dev’essere per forza la liberal democrazia di stampo occidentale. Che si creda o meno a tale intento, che lo si giudichi positivamente o negativamente, non è comunque in questo modo che una nazione si può imporre come impero globale e scalzare dal podio gli Stati Uniti. Nella storia ogni impero ha esportato il suo sistema, poiché questa è la precondizione della sua formazione. Serve che le “province” dell’impero abbiano una cultura, dei valori, un modello di sviluppo e un sistema istituzionale il più simile possibile per creare quel legame che trascende il mero interesse economico e di sicurezza.
Oltre a questo, l’altro aspetto critico di tali iniziative riguarda i paesi interessati. I nuovi progetti annunciati da Pechino, infatti,«si rivolgono innanzitutto ai paesi situati in Africa, America Latina, Medio Oriente e Sud-Est asiatico. Molti di questi vogliono incassare investimenti cinesi [ma] non sono particolarmente interessati a schierarsi nella partita sino-statunitense».
In un tale contesto, la cosa più probabile è che tali paesi, una volta inaspritosi il conflitto USA-Cina, dopo essere passati all’incasso, si sottraggano alla disputa abbandonando l’ingenuo finanziatore.
Quanto detto sin qui potrà far storcere a coloro che ritengono impossibile un ripetizione di quanto accaduto a inizio ‘900.
Alcuni importanti analisti credono, ad esempio, che l’interdipendenza economica della Cina con il resto del mondo (in particolare i paesi occidentali) renda improbabile l’inizio di un conflitto con gli Stati Uniti – ed era proprio questo il motivo per cui gli USA permisero alla Cina di accedere alla “loro” globalizzazione, integrandosi sempre più con le economie del fantomatico “blocco occidentale”.
Tuttavia non vi è nulla di nuovo nemmeno in questa posizione.
La tesi secondo la quale la stretta interdipendenza economica fra grandi potenze rivali scongiuri la possibilità di una guerra, ricorda infatti quanto scritto dal premio Nobel per la pace (1933) Norman Angell nel suo “The great illusion” (1910). In quell’opera, divenuta in breve un bestseller, l’autore sosteneva che, oramai, nel capitalismo moderno, la guerra era divenuta uno strumento irrazionale poiché un vincitore non avrebbe più tratto i benefici economici che poteva ottenere nel passato. Le economie erano troppo interconnesse e la guerra avrebbe distrutto, oltre al nemico, anche sé stessi.
Quattro anni dopo scoppiò la Prima Guerra Mondiale.
L’illusione di cui parlava Norman Angell si capovolse nella sua stessa illusione, quella per la quale gli uomini agirebbero sempre in modo razionale e, soprattutto, che il fine della guerra risiederebbe nel mero accrescimento della propria ricchezza e benessere economico e che, perciò, la razionalità equivarrebbe alla razionalità economica.
Dopo più di cento anni, si rischia ancora di ripetere lo stesso errore di analisi.
D’altro canto siamo fin troppo abituati ad indicare l’economia come causa e fine di un’azione bellica. Molti continuano a ritenere che taluni paesi muovano guerra ad altri a causa delle pressioni dell’industria bellica, interessata ad incrementare i propri guadagni. Vi è poi chi crede che il fine ultimo della guerra sia quello di appropriarsi di ricchezze altrui (di qualsiasi natura).
Ovviamente nessuna delle due posizioni è falsa, ma decisamente incompleta. L’economia è solo una delle cause e dei fini e, spesso, solo in forma parziale.
L’uomo è fatto di ethos e pathos, oltre che di logos. E anche supponendo di usare solo quest’ultimo, la logicità del processo decisionale non è garanzia del risultato.
Le aspirazioni egemoniche della Germania Guglielmina non erano mosse tanto da fini economici, ma dal desiderio di egemonia in sé e per sé. Dalla convinzione di poter essere ormai in grado di imporsi come la prima superpotenza mondiale e scalzare così la Gran Bretagna – anche e soprattutto, rompendo il dominio britannico nel mare del nord che la costringeva sulle sue stesse coste; di poter estendere la sua potenza a est a scapito dell’impero zarista; di essere lei, in definitiva, a poter distribuire le carte nello scacchiere europeo e mondiale. Il beneficio economico era solo una delle conseguenze di tali aspirazioni.
Allo stesso modo la Cina, con la differenza che per quest’ultima lo strumento economico (non il fine) è ben più utilizzato rispetto alla Germania Guglielmina. È infatti tramite l’economia che Pechino cerca di attrarre paesi ed estendere la propria influenza nel mondo. Ma il fine, appunto, non è tanto l’accrescimento economico. Esso è piuttosto lo strumento con il quale cerca di ostacolare la potenza rivale (gli Stati Uniti). L’obiettivo è quello di non essere più soggetta al volere americano e di imporre il proprio.
Non è per l’economia che la Cina ha dichiarato più volte di volersi (ri)appropriare di Taiwan (con le buone o con le cattive) rischiando una guerra con Washington, ma per rompere il dominio statunitense nelle acque di casa, estendendo la sua influenza nel Pacifico meridionale.
Se il fine fosse l’economia avrebbe potuto continuare a partecipare silenziosamente a quella globalizzazione a stelle e strisce che tanto le ha giovato proprio in termini economici, rinunciando ad ogni velleità egemonica. Ma non è l’economia che muove il mondo. Essa è solo uno strumento che gli uomini utilizzano per altri fini.
Prima capiamo che ciò di cui parlava Norman Angell era essa stessa una grande illusione, prima riusciremo a comprendere la gravità della situazione attuale. Non perché questo ci permetta di prevenire quanto potrebbe accadere, ma per non arrivare alle porte del futuro con gli occhi bendati.