“Dimmi cosa sta succedendo” era l’invito accorato che in molti rivolgevano alla vicedirettrice de Il Foglio Paola Peduzzi all’indomani dello scoppio della guerra in Ucraina, il 24 febbraio 2022. Proprio quella richiesta, proveniente da vari istituti scolastici interessati al parere di chi masticasse politica internazionale, suggerì alla giornalista il pezzo di apertura dell’inserto speciale realizzato nei mesi successivi dal quotidiano, dedicato ad un conflitto rimasto a lungo sotto traccia, e ora esploso con il fragore delle cannoniere. In questi due anni, pur nella nebbia delle propagande a confronto, c’è stato tempo e modo di delineare a sufficienza quanto accaduto grazie al lavoro prezioso di esperti, studiosi e giornalisti sul campo. Tuttavia, se dovessimo dire quanto realmente abbiamo compreso della Russia e dell’ideologia che vi sottende, il putinismo, così come delle ragioni profonde di questa Guerra Fredda 2.0, il bilancio, ne siamo sicuri, non sarebbe positivo. Questo perché manca, ci dice Emanuel Pietrobon nel suo Il mondo secondo Putin (Castelvecchi, 2024), la conoscenza profonda e rigorosa della Storia, se è vero che «il passato è l’ombra del presente, che a sua volta è padre del futuro», come tiene a puntualizzare lui stesso già dalle prime righe introduttive. I remake storici e i dejà vu geopolitici, d’altronde, sono il cuore pulsante di questo saggio lucidissimo e coraggioso. Che, probabilmente, avrebbe diradato più d’un dubbio a quelle platee di giovani scolari dai quali siamo partiti.
Da dove origini, dunque, questa “guerra mondiale in frammenti” e perché Vladimir Putin sia diventato, dopo un periodo di cordialità diplomatica dei primi Duemila, il nemico pubblico di tutto l’Occidente, sono questioni cui Pietrobon dedica la prima parte del libro. In una ricostruzione dei fatti serrata e irta di punti di non ritorno, il 1999 (un anno spesso assente nei dibattiti sul tema e scandito dalle significative date del 24 marzo, 7 maggio e 12 giugno), non è che l’innesco di un assetto futuro già oggi in pieno dispiegamento di sé e del suo potenziale, ovvero l’asse Mosca-Pechino, ma allora nient’altro che un buffetto nel “Momento unipolare” dominato dagli USA. Il luogo, giusto perché la Storia si diverte a suonare lo stesso spartito senza annoiare mai, sono i Balcani, esattamente come per il primo conflitto mondiale del 1914. Quelli saranno mesi turbolenti d’insolito avvicinamento tra due forze tutt’altro che inclini all’alleanza, Russia e Cina, unite nelle umiliazioni che dovranno subire, cioè soccombere in momenti diversi alla volontà statunitense nel contesto della guerra in Iugoslavia, dove entrambe erano solite coltivare legami d’amicizia.
Abbrivio, a conti fatti, della “transizione multipolare” alla quale assistiamo oggi, prefigurata dall’allora primo ministro della Federazione russa Evgenij Primakov, il quale fu «testimone inerme del fallimento del tavolo negoziale russo-americano sulla questione serbo-kosovara, del successivo bombardamento a tappeto di Belgrado e di un incidente a Pristina, tra forza dell’Alleanza Atlantica e un contingente russo, che avrebbe potuto fungere da casus belli della Terza Guerra Mondiale». La vittoria americana nei Balcani costò ai russi moltissimo, un pressoché “azzeramento” della loro influenza in quell’area e la triste consapevolezza, condivisa con il resto del mondo, di non essere più una potenza egemone. Ma tempo qualche mese, il 31 dicembre dello stesso anno, Vladimir Putin, dopo una carriera da agente di primo livello dei servizi segreti – oltreché ben incistato nei gangli della burocrazia nazionale – succederà al presidente Boris Él’cin, a testimonianza di un cambio d’epoca dal sapore di rinascita.
Nel momento culminante dei bombardamenti su Belgrado, in quei giorni anche la Cina farà i conti con l’amministrazione del presidente Bill Clinton, spalleggiato dal numero due Al Gore. Secondo quanto riferisce Pietrobon, «Pechino avrebbe acquistato – o provato ad acquistare – i resti del F-117 Nightawk abbattuto dalla contraerea iugoslava alcune settimane prima, così da poter studiare la tecnologia stealth, e avrebbe impiegato l’ambasciata di Belgrado come una sorta di centro raccolta di intelligence per aiutare i soldati di Milosevic a fronteggiare, nei limiti del possibile, la marea di fuoco di Allied Force. Un affronto da punire. Fu questo il contesto all’interno del quale, nella notte a cavallo tra il 7 e l’8 maggio, agendo indipendentemente dagli obiettivi stabiliti da Allied Force, un B-2 dell’aviazione statunitense rilasciò cinque bombe teleguidate con sistema JDAM sull’ambasciata cinese di Belgrado. Tre morti e venti feriti». Un incidente che gli USA cercarono di farsi perdonare un po’ risarcendo le famiglie delle vittime, un po’ togliendo il veto all’ingresso della Cina nell’Organizzazione Mondiale del Commercio, ma che il presidente Jiang Zemin e buona parte della classe dirigente cinese faticheranno non poco a digerire.
Queste appena accennate sono solo le tappe iniziali di un lungo percorso che tante altre ne prevede e di ben altra fattura, ciascuna necessaria per comprendere poco più di vent’anni di storia delle relazioni tra l’Occidente e in particolare la Russia. Dalla Conferenza di Monaco del 2007 contro lo scudo missilistico europeo, interpretato da Putin come una sorta di corsa alle armi «contro Mosca», all’invasione della Georgia del 2008, con il pretesto delle rivendicazioni autonomiste di Abcasia e Ossezia del Sud, ripicca al veleno di quanto aveva fatto a suo tempo la NATO con il Kossovo; dalle cosiddette “rivoluzioni colorate” nei paesi considerati di pertinenza russa – «uno spazio vitale, una sfera di influenza, un estero vicino inviolabile» – pianificate secondo il modello di guerra ibrida messa a punto dallo scienziato politico statunitense Gene Sharp (1928-2018) per destabilizzare tutti i regimi ostili agli USA; fino all’intervento in Siria del 2015 – spartita insieme a iraniani e turchi e strategicamente centrale per lo sbocco sul Mediterraneo della Russia – preceduto da Euromaidan dell’anno precedente, il punto terminale o la foce, per dirla con l’autore, di un fiume che «da tempo dava segnali di una prossima e incontenibile piena», sancita con la guerra nei confronti di Kiev tuttora in corso.
Posti in successione, gli episodi cruciali di questa escalation, che possiamo considerare il tramonto del vecchio mondo costituitosi dapprincipio a Yalta e poi con la fine della Guerra Fredda e il crollo dell’impero sovietico, giungono a determinare uno scenario del tutto inedito: il venir meno, nonostante qualche wishful thinking di troppo, del sogno di un altro secolo americano. Secondo Pietrobon, quello delineatosi dopo il 24 febbraio 2022 è un ordine uni-bi-multipolare: «Uni- perché gli Stati Uniti continuano ad essere i padroni indiscussi in una serie di settori, come la finanza internazionale e taluni ambiti di nicchia dell’alta tecnologia e degli affari militari, e di arene geopolitiche, come l’Europa e il Pacifico occidentale. Bi- perché l’asse Mosca-Pechino ha effettivamente assunto le sembianze di un polo a sé stante, che aspira a liderare un rinascente Secondo mondo, operando secondo la logica dello schema oplitico: complementarità. Multi- perché né gli Stati Uniti né il duo Russia-Cina possiedono un bagaglio di risorse, capacità e strumenti tanto ampio da consentirgli di agire senza alleati e di imporre a terzi la propria volontà egemonica». Se da una parte accettare di essere solo uno degli attori in campo rappresenta quanto di più difficile da concepire, specie pensando al ruolo di gendarme globale che l’America si è ritagliata per sé, è altrettanto complicato immaginare un sistema internazionale senza la Russia, paese troppo importante, da tutti i punti di vista, per gli equilibri globali. Dire, insomma, che da qui passi buona parte delle dinamiche di potere cui assisteremo in futuro pare fin troppo banale.
Infine, con l’ingombrante figura di Putin, il protagonista senza dubbio più equivoco di queste vicende, come comportarsi? Per Pietrobon, l’errore dell’Occidente nei confronti del leader russo – dal quale ripartire necessariamente, sempre che lo si voglia fare, per evitare una dissennata coazione a ripetere gli stessi sbagli -, «è stato di credere che fosse un securocrate privo di una visione per la nazione e malleabile come i suoi due predecessori». Capace di una poliedricità straordinaria e perfetta incarnazione dell’homo russicus, Putin si è rivelato un timoniere dai mille volti, una maschera pirandelliana piuttosto scaltra nello scacchiere globale disordinato qual è quello in cui ci troviamo. Tanti gli aspetti chiave della sua weltanschauung: un malcelato Antioccidentalismo, figlio della Guerra Fredda persa con gli Stati Uniti, uno spostamento verso l’Asia delle proprie prerogative e un nazionalismo religioso spinto, in questo ricalcando tic e stilemi dei vecchi Zar, ma in un certo senso allineandosi anche con quanto accade in Europa e in Occidente. Questo itinerario filosofico-politico che l’autore compie per noi all’interno del Putinverso incrocia, tra gli altri, il pensiero di chi ha forgiato la nuova geopolitica della Russia, come per esempio il demo-etno-antropologo Lev Gumilëv (1912-1992), scienziato sociale di fama, fautore dell’eurasismo e teorico dell’etnosi, secondo cui i popoli affronterebbero «un processo lineare e progressivo, diviso in stadi evolutivi – ascesa, acme rottura, inerzia, omeostasi e memoriale -, che li accompagna dalla nascita alla morte».
Passando per quegli autori ottocenteschi con il mito della Terza Roma e della Russia come erede dell’Impero romano, quali Nikolaj Berdjaev, Ivan Il’in e Konstantin Leont’ev, per citarne alcuni. Fino ad arrivare ai pensatori più prossimi e vicini, quelli ancora in vita e maggiormente influenti dell’impianto ideologico putinista, ovvero i big five: Aleksandr Dugin, indubbiamente il più famoso del gruppo, l’affarista Malofeev, il politologo Igor’ Panarin, il tuttofare Vladislav Surkov e il metropolita Tikhon. Limitandosi a Dugin, il teorico della cosiddetta “quarta teoria politica”, cioè il sogno di una nuova ideologia per una nuova Russia, il suo best-seller di fine anni Novanta Fondamenti di geopolitica, riletto oggi, appare sinistramente prefigurativo di tutte le sciagure presenti e future, tra le quali: l’alleanza con l’Iran in chiave antiamericana, mantenere l’Ucraina entro la sfera d’influenza russa e alimentare le tensioni interrazziali negli Stati Uniti. A riprova del fatto che il mondo secondo Putin, così plasmato da idee tanto radicate quanto efficaci, è, e sarà per molto tempo ancora, differente da come lo avevamo immaginato. In questo senso, al saggio di Pietrobon, fuori da ogni stereotipia del pensiero, si dovrebbe solo che dire grazie, perché di prenderne coscienza, ancora mentre scriviamo, in tanti non ne vogliono proprio sapere.