OGGETTO: La grande spartizione sino-americana
DATA: 10 Luglio 2023
SEZIONE: Geopolitica
Il Segretario di Stato USA Blinken vola a Pechino, che ricorda una piccola Tordesillas, la cittadina dove nel 1494 Spagna e Portogallo si divisero l’America appena scoperta. E' il primo, timido tentativo di immaginare un modus vivendi tra l’aquila e il dragone nel mondo di domani. Che non include la Russia di Putin.
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Niente dichiarazioni congiunte, niente retorica, nessuna intesa formale. Neppure il consuetudinario tappeto rosso. Sono le assenze il vistoso leitmotiv della visita del Segretario di Stato americano Anthony Blinken in quel di Pechino, la prima dopo un lustro di separazione, ben più che fisica, tra Stati Uniti e Repubblica Popolare. Abbastanza da catturare l’attenzione degli osservatori, altrimenti monopolizzata dal conflitto russo-ucraino; troppo poco per far sperare i diplomatici delle due parti, che alla tre giorni di incontri hanno partecipato, appunto, senza pretese e ancora meno aspettative. Chi immaginava un rewind dello storico viaggio di Richard Nixon nella Cina maoista appena uscita dalla Rivoluzione Culturale dovrà accontentarsi; Joe Biden non è Nix, Blinken non è Henry Kissinger, Xi Jinping non è — almeno per carattere — il Grande Timoniere. E, trascorsi oltre cinquant’anni, pure il mondo non è più quello di allora: stavolta, infatti, l’aquila e il dragone giocano ad armi (quasi) pari.

È da pari che gli yankees e i funzionari comunisti si sono trattati a vicenda: lo si evince con chiarezza dalle note ufficiali di entrambi i dicasteri degli Esteri, che parlano di una “conversazione franca” e “costruttiva” sui “princìpî per guidare la relazione bilaterale“. Toni sorprendentemente distesi, anche e soprattutto alla luce dei temi affrontati. In primis la guerra, e contestualmente il chiaro desiderio di Washington che i cinesi ne rimangano fuori; ancora, le comunicazioni militari tra i due Paesi, finora troncate dal reiterato rifiuto dei vertici dell’Esercito di Liberazione Popolare di interfacciarsi con le loro controparti a stelle e strisce, complici le crescenti tensioni nel Pacifico. E infine Taiwan, tassello chiave della sterminata scacchiera oceanica: significativa a tal proposito la dichiarazione di Blinken, secondo il quale gli USA “non supportano” l’indipendenza formale dell’isola. Si consolida la politica di ”ambiguità strategica”, inaugurata proprio da Nixon e che l’attuale Casa Bianca era sembrata in procinto abbandonare.

Più un’occasione per chiarire le rispettive posizioni, insomma, che non per tentare di dirimere le numerose dispute tra il gigante occidentale e quello orientale; il viaggio del primo emissario di D.C. nel Regno di Mezzo è da considerare come un’opera di buona fede, ingrata ma quantomai necessaria. La sfida reciproca ha da tempo travalicato la sola dimensione geostrategica, e  sempre di più si estende all’ambito politico, economico e culturale: con gli americani richiamati nel Vecchio Continente dalla sanguinosa avventura di Putin, Xi e i suoi pensano di ritagliarsi un posto al sole nella comunità internazionale, mentre prosegue ininterrotto il tiro alla fune sui chip e le relative materie prime, le preziosissime terre rare con le quali la Cina, che ne è ricca, aspira a guidare la prospettata quarta rivoluzione industriale. Tanta carne al fuoco; forse troppa per una potenza diplomaticamente e militarmente ancora acerba come la RPC, che nei trent’anni passati ha preferito interpretare il ruolo di grande — e innocua — fucina della globalizzazione.

Quel periodo sembra ora giunto alla fine, anche a causa dell’emergere di mercati del lavoro più competitivi (segnaliamo il Messico) e della strisciante crisi demografica del Paese, la cui enorme popolazione è già oggi composta per quasi un quinto da cittadini over 60. Che sia per necessità o per virtù, è comunque chiaro che Pechino intende entrare a pieno titolo nel circolo dei grandi, e che non è disposta a farsi sbattere la porta in faccia da quanti ne fanno già parte: meglio allora per questi ultimi, USA in testa, mettere le cose in ordine. E cercare un equilibrio che consenta alla vecchia guardia della politica mondiale di convivere con l’ultimo arrivato in relativa armonia, traendo ove possibile mutuo beneficio dall’inedito assetto di potere che va chiaramente delineandosi. Se non puoi batterli fatti parente, vuole la saggezza popolare: è plausibile che il pur timido approccio statunitense segua una logica analoga, e rappresenti dunque il preludio ad una più articolata e duratura spartizione dell’influenza planetaria.

Pechino come una piccola Tordesillas, la cittadina dove nel 1494 Spagna e Portogallo si divisero l’America appena scoperta sotto l’occhio vigile della Santa madre Chiesa: vero, manca il Papa, ma il mondo nuovo c’è eccome. Da un lato, l’improvviso esplodere della questione ucraina ha permesso agli Stati Uniti di riasserire la propria egemonia europea: il pluridecennale flirt della Germania con la Russia è stato bruscamente interrotto dalla distruzione — a tutt’oggi senza responsabili certi — del controverso gasdotto NordStream 2, la Francia è isolata, e le nazioni del cosiddetto Fianco Est assicurano con zelo para-religioso l’adesione della UE alla linea  atlantica. Dall’altro, la Cina è riuscita ad insinuarsi nei numerosi spazi a malincuore lasciati liberi dallo Zio Sam in Medio Oriente, inanellando una serie di successi tanto inattesi quanto dirompenti: è alla mediazione della Città Proibita che si devono il rientro della Siria baathista di Bashar Al-Assad nella Lega Araba e la normalizzazione dei rapporti tra la monarchia saudita e l’Iran.

Resta l’Africa, verosimile prossimo teatro della contesa sino-americana. La mole impressionante (e la spregiudicatezza) dei suoi investimenti, accoppiata con un’efficace retorica anti-colonialista, ha conferito a Pechino un distinto vantaggio nella rinnovata corsa al Continente Nero: la regione subsahariana è diventata un gigantesco cantiere di grandi infrastrutture, per la maggior parte finanziate a debito, mentre le imprese cinesi — di cui, lo ricordiamo, lo Stato è azionista ex lege — hanno pressoché monopolizzato il settore minerario e, quindi, l’estrazione delle citate terre rare. Scricchiola anche la testa di ponte statunitense nel Maghreb, con la Tunisia diretta verso l’involuzione democratica e l’Algeria, da tempo alle prese con una devastante recessione, che strizza l’occhio alla munifica nazione asiatica e, in misura minore, al Cremlino. Uno scenario che, a discapito dell’enorme distanza, la accomuna con il Sudafrica, la cui corrottissima classe dirigente  ha preso a corteggiare i due regimi nell’estremo tentativo di rimandare un collasso ormai ritenuto inevitabile.

Così si spiega il rifiuto da parte di Pretoria di ottemperare al mandato di cattura emesso dalla Corte Penale Internazionale nei confronti di Vladimir Putin; esercitazioni navali congiunte con la flotta russa e una (fallimentare) intesa riservata per la fornitura di munizioni rappresentano altre avances del claudicante governo a guida ANC nei confronti di Mosca. La Federazione ricambia, attratta dalla possibilità di espandere ulteriormente la sua presenza nell’area anche allo scopo di contrastare gli analoghi intenti dei fratelli-coltelli cinesi. Il recente avvicinamento e le comuni velleità revisioniste che vi sottendono non nullificano infatti una rivalità storica che, ne sono consci ambo i Paesi, è destinata a riaccendersi non appena l’incendio in Europa dell’Est sarà stato estinto; non è un caso che, conclusasi la surreale prova in costume di golpe del loro capo Yevgheny Prigozhin, ad un corposo nucleo di mercenari Wagner sia stato permesso di riparare in Bielorussia, da dove con  ogni probabilità proseguiranno le operazioni di penetrazione in Africa e altrove.

È presto per dire che impatto questa tensione latente avrà sulla compagine dei BRICS e sul progetto, assai caldeggiato ma per ora fermo allo stadio embrionale, di farne un ente dall’esplicito carattere politico. In ogni caso, simili organismi multilaterali si profilano come strumenti essenziali nella grand strategy complessiva non soltanto del dragone ma pure degli USA, che al blocco dei Paesi in via di sviluppo contrappongono in chiave anti-cinese la partnership regionale AUKUS (Australia, United Kingdom, United States) e il controverso meccanismo di cooperazione d’intelligence Five Eyes. Continua invece a mancare un contraltare credibile alla monumentale Belt and Road Initiative di Pechino, approdata infine anche sulle sponde di un’Europa incorreggibilmente sensibile al richiamo dei lucrosi affari promessi da Xi. Prendono dunque forma gli schieramenti della contesa a venire: con le mani legate dal macello che da oltre un anno porta avanti nel cortile di casa, almeno per il momento la Russia ha da aspettarsi nulla più di un ruolo gregario.

Lo sanno bene sia gli americani che i cinesi, divisi su tutto e però uniti nel contempo dal cinismo realista che da sempre appartiene ai protagonisti della Storia. Che torna ad essere un gioco a due: nonostante allo strenuo unipolarismo degli uni e alla decantata visione multipolare degli altri, per entrambi il mondo del futuro è spaccato in due perfette metà geografiche, politiche ed ideologiche, in barba alle vacue fantasie di terzietà di europei e russi. Siamo di fronte, senza alcun dubbio, ai prodromi della Seconda Guerra Fredda, che si svolgerà nell’arena materiale del Pacifico come nella piazza virtuale dei mercati mondiali, fronte parimenti importante e in effetti decisivo di questo scontro. E stavolta, lo ribadiamo, si combatte alla pari.

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