È un tema bollente delle ultime settimane lo scontro violento e all’ultimo sangue che sta opponendo di là dall’Oceano l’amministrazione Trump alla prestigiosissima università di Harvard, da sempre fonte di cascate di brevetti scientifici e sul podio delle migliori istituzioni accademiche del mondo per qualità di istruzione, pubblicazione di paper influenti ed elevati standard della docenza. La storia è nota, il presidente americano avrebbe vergato una lettera minatoria nei confronti del noto ateneo per stringere in una morsa le proteste antisraeliane gravitanti attorno ai campus e ai luoghi di produzione del sapere universitario, lanciando così una campagna per fare abbassare la testa a docenti e giovani riottosi lamentando una perniciosa infiltrazione antisemita dei ribellismi studenteschi. Scopo della mossa dimostrativa fiaccare i contrasti interni ad un fiore all’occhiello della ricerca americana, generatrice di forti spinte all’innovazione e asset strategico e capitale culturale nella guerra egemonica che lo contrappone al progressismo dem del suo paese. In breve, ipotecare pezzi del mondo culturale americano che resistono al sogno della golden age trumpiana propalato dai suoi seguaci, cannibalizzare piazzeforti del consenso progressista radicale, assediare e sfaldare le resistenze di quei contropoteri legati al mondo della trasmissione delle competenze e delle informazioni.
Gli effetti di questa guerra di posizione nel mondo della cultura non hanno tardato a farsi avvertire, e l’università ha visto congelarsi oltre due miliardi di fondi federali d’investimento e assottigliarsi vistosamente le proprie esenzioni fiscali. Questo mentre montava la protesta degli altri atenei e altre istituzioni universitarie (la Columbia) cedevano alle minacce. Finora la reazione del mondo della ricerca ha sfruttato l’eco mediatico della stretta controversa cercando di dimostrare l’illegittimità delle azioni della presidenza organizzando proteste, con la sottoscrizione di un manifesto che ha destato scalpore di un considerevole numero di accademici blasonati e studiosi uniti nella rivolta verso l’amministrazione e il suo illiberalismo.
C’è del vero in questa lettura esegetica, e sarebbe ingenuo attendersi da Trump per la sua storia politica una distensione e un’apertura al dialogo con le sue controparti in guanti bianchi; rimane però sotto il tappeto il macrotema così centrale anche per il nostro paese della politica di costruzione del consenso che turba i sonni del presidente. In un’epoca crepuscolare per il dominus americano, costretto a vedersela con quella che l’Economist definiva nel 2024 una superpotenza culturale, la Cina, l’amministrazione americana intende risolvere con una prassi decisionista il suo nemico interno, come già Nixon nel 1971 ai tempi dell’ostilità dell’opinione pubblica e accademica alla guerra nel Vietnam. In altri termini, messi in stato di allerta sul piano internazionale dal contrasto sempre più marcato con paesi che minacciano di sottrarsi al suo cortile di casa dedollarizzandosi e sviluppando partnership economiche alternative, gli States si riscoprono isolazionistici e rispolverano una politica muscolare per resistere ad una lancinante crisi di identità che minaccia di metterli in ginocchio.
Trump più che l’araldo del neofascismo globale e dell’internazionale nera di Musk (come rappresentato su molti settimanali patinati) assomiglia alla sintomatologia di un basso impero, che non potendo permettersi il lusso delle libertà e dei valori che ne hanno caratterizzato l’ascesa sul piano della pubblicità e del soft power attraversato com’è da crisi interne sempre più dannose reagisce serrando i ranghi e chiudendosi su se stesso. Non riuscendo ad arginare il disequilibrio geopolitico in corso che può travolgere i piedi d’argilla del gigante statunitense costringendolo a vedersi sottratti degli alleati, con lo scacco in terra ucraina e l’impasse dei dazi che da arma per taglieggiare paesi poco allineati sul fronte commerciale rischia di risolversi in una strategia non risolutiva, agli americani sembra convenire una chiamata alle armi neomaccartista per allineare e omogeneizzare l’opinione pubblica evitando entropie pericolose.
Se la politica come voleva il Platone dei dialoghi della vecchiaia consiste in un allevamento di esseri umani allo scopo di avvilupparli meglio nel consorzio umano, tessendoli assieme gli uni agli altri a partire da modelli forti, come ripeterà aggiornando il filosofo dell’Accademia secoli dopo anche il pensatore Peter Sloterdijk in una controversa conferenza del 1999, l’amministrazione Trump e le sue eminenze grigie di tecnodestra mira ad un restyling della cittadinanza americana insidiando le casematte del potere liberal. In questo senso sotto la lente sloterdijkiana la presidenza repubblicana mira attraverso un setting ben preciso di antropotecniche (tecnologie di domesticazione dell’animale uomo come il linguaggio, i media, ecc.) allo scopo di foggiare un “parco umano” su misura per gli scopi del tipo d’uomo promosso dal pensiero ultraconservatore nutritosi di suggestioni di Curtis Yarvin, Nick Land e Peter Thiel che troneggiano nel pantheon ideologico di membri importanti dell’amministrazione.
Più che il fascismo, che sembrava affascinare esponenti della neonata presidenza Trump del 2016 prima del loro allontanamento (si pensi alle dichiarazioni di Steve Bannon su Maurras), sembra più plausibile ritenere che con questa e simili mosse il presidente voglia da un lato fare terra bruciata del ceto colto che può dargli fastidio sul piano della costruzione del consenso e dall’altro imporre la propria visione allungando la sua longa manus sul mondo dei saperi in analogo a quanto (pur fallendo) cercarono di fare i sovietici con l’ideologizzazione della scienza agraria con Trofim Lysenko, pupillo di Stalin. Con gli occhi di oggi è fin troppo facile deridere quei fragili tentativi di sferrare un contraccolpo sul piano della guerriglia del pensiero alle acquisizioni scientifiche occidentali, minando i successi e le relative certezze del campo capitalista e contribuendo a catturare consensi risolvendo una volta per tutte la crisi agraria della neonata unione delle repubbliche socialiste sovietiche contrastando la scienza borghese di Mendel e Darwin. Ma ora come allora il disegno di chi cerca di espugnare la cittadella del sapere consiste nel calcolo astuto ma potenzialmente mortale (da parte sovietica in quel caso) di avvincere a sé il campo della produzione dei saperi per attagliarlo alle proprie esigenze propagandistiche, di cingere in un abbraccio tentacolare il mondo della produzione delle informazioni per attuare una sottile politica della conoscenza volta a partorire un modello antropologico. Un obiettivo che non è solo di marca totalitaria, se si pensa al tipo di essere umano frutto dell’humus neoliberale ed esito del sistema postfordista, flessibilizzato e caratterizzato dalla corrosione intima e dalla destrutturazione delle proprie esperienze soggettive, come descrittoci dal sociologo Richard Sennett vagliando le vite delle sue vittime.
Anche l’antropologia da capitalismo flessibile come scrisse il geografo urbano marxista David Harvey caratterizzante la tarda modernità e il regime produttivo postindustriale aggredisce l’esperienza umana costringendola ad un cambio di passo, rimodificandone l’humanitas votandola al postmoderno come sua logica culturale. Più in generale ogni grande cambiamento nell’asse di un’epoca, ogni rivoluzionarismo sia esso conservatore (à la Trump e sodali che contrappongono una Kultur americanocentrica ad una degenerazione indotta dalla Zivilisation liberaloide e scollata dal genio del popolo) o ispirato a valori progressivi e volto all’organizzazione pianificata di una rivolta allo scopo di un rovesciamento dell’ordine vigente funziona e carbura al prezzo di una compenetrazione di politica e sapere, conoscenza e potere. Questo al di là del caso concreto è importante rilevare della politica intrusiva del presidente americano: in ballo c’è molto di più che un semplice sforamento del potere esecutivo sul diritto alla conoscenza.