OGGETTO: Il 2025 è un nuovo 1971
DATA: 08 Aprile 2025
SEZIONE: Economia
FORMATO: Analisi
Gli Stati Uniti scelgono di riscrivere le regole prima che siano le regole a travolgerli, riaprendo con i dazi una fase di riordino industriale e riequilibrio macroeconomico. Trump, voce del disagio produttivo, traduce il malcontento in un cambio di rotta che mette in discussione il libero scambio come dogma.
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Il 2025 assomiglia al 1971, gli americani staccano la spina e creano una crisi prima che questa nasca da sé. Aspettiamoci un decennio di crisi, recessione, e alla fine ristrutturazione dell’ordine internazionale. 

Trump è pragmatico, poco amante delle narrative universaliste, schietto e cesaristico. Tra il criminale ed il geniale, il Richard Nixon del XXI secolo è un palazzinaro populista che non ha paura di scardinare le ortodossie politiche ed economiche dell’era a lui precedente, che sia per il suo interesse o per una visione del mondo che cambia. L’entrata in vigore dei dazi a tutto campo è un momento nixoniano, ovvero un momento di rottura dell’ordine economico da parte dell’egemone che non ne è più soddisfatto. Il breve e medio termine sarà caos in borsa, recessione, malcontento popolare, proprio come negli anni Settanta. Sorprendentemente per un uomo che appare come un presentista, Trump propone una politica di periodo lungo, lunghissimo.

Trump è la più recente incarnazione di quello storico repubblicanesimo duro e puro, preoccupato per lo stato dei fondamentali del paese: debito pubblico, moneta, produzione industriale, sovra-estensione imperiale, cultura politica comune, rapporto tra Stati e Stato. L’impressione o la realtà di un sistema di governo, economico e mediatico sempre più lontano dalla realtà della cittadinanza è stata impersonata dal MAGA, che per riportare la nave sulla giusta rotta ha bisogno della stessa forza di cesura della amministrazione Nixon. Al tempo si trattava di chiudere il capitolo del dispendioso containment in Vietnam, come in Ucraina, di riasserire la propria dominanza dell’emisfero americano sostenendo la caduta di Allende (spezzando il gioco commerciale del Messico), si trattava di vedere il mondo kissingerianamente – i BRICS come il campo comunista possono unirsi forzando le loro enormi diversità solo sotto una pressione cieca ed orizzontale dell’Occidente. 

Tanto di Nixon quanto di Kissinger è stato detto che fossero dei volgari banditi della politica internazionale, e che il loro brutale America First non fosse nulla più che tradimento degli alleati e della causa anticomunista. Che la realpolitik più estrema e le rivoluzioni radicali siano amorali non è in dubbio; forse però le ortodossie che hanno prodotto orrori come la guerra in Iraq o in Corea non sono tanto meglio. Le cricche del business as usual, che siano falchi anti-russi o le grandi aziende delocalizzate, hanno bisogno di una scossa per rivedere la propria traiettoria – e la scossa è Donald J. Trump.

Varis Varoufakis, 3 aprile sulla BBC e UnHerd. “Questo strappo trumpiano, che comunque tutti si aspettavano, non manca di precedenti. Il primo grande strappo del genere lo fece il Presidente Nixon nel 1971”. Individuare i punti di svolta della storia economica è un’arte in cui si possono raggiungere infinite conclusioni, ma sul fatto che la fine del sistema di Bretton Woods sia stata una decisione unilaterale e dalle conseguenze epocali non c’è dubbio. Come oggi, gli Stati Uniti erano il perno centrale del commercio globale – che all’epoca includeva economie sviluppate, in via di sviluppo e post-coloniali allineate con gli Stati Uniti. Il Dollaro, come oggi, era la valuta di riserva e il sistema era pensato per favorire gli scambi. Alla sua nascita, gli USA erano impareggiati in quanto a capacità tecnologica ed industriale. Nel corso degli anni però l’economia americana passò da essere una esportatrice ad una sempre più importatrice – una situazione insostenibile nel contesto dei cambi fissi e della convertibilità Dollaro/oro di Bretton Woods. Nixon, a sorpresa, diede la spallata, sospendendo (poi definitivamente) il peg e lanciando un’epoca di dazi e protezioni commerciali (gonfiata poi in Europa dallo shock petrolifero). Quella di Nixon fu una guerra commerciale con l’intero mondo capitalista, che si accompagnò alla détente con l’URSS, la chiusura della guerra in Vietnam e l’accordo storico con Mao Zedong. All’epoca la leadership americana aveva un piano preciso: aprire un periodo di egoismo economico e di apertura diplomatica talvolta a-ideologica per ricompattare le proprie forze. Dai difficili e forse confusi anni Settanta nacque l’ortodossia ideologica dei diritti umani, sospinta da Carter, e quella neoliberista nonché neo-guerrafreddista di Reagan. 

Come Trump, anche Nixon giocò un ruolo centrale nella Presidenza prima del suo mandato più decisivo (Nixon fu Vice di Eisenhower per due mandati). E le due esperienze di governo si assomigliano nella misura in cui l’amministrazione Eisenhower-Nixon chiuse una costosa proxy-war in Corea, riuscì a contenere le spese in armamenti convenzionali e ordinare il bilancio, ed infine promosse un equilibrio istituzionale più favorevole all’Esecutivo. Trump non ha potuto agire in profondità nel suo primo mandato, nonostante fosse Presidente; ora, con in mano un potere che appare quasi indiscutibile, può veramente sospingere gli Stati Uniti in una direzione diversa. Del resto alcune tendenze della politica e dell’economia statunitensi, quali la deindustrializzazione o la crescita della diseguaglianza economica, stanno raggiungendo livelli tali da intimare una azione dirompente. 

Trump e Vance hanno vinto le elezioni catturando il popolo del Midwest, ovvero quel popolo americano che è stato travolto dalla deindustrializzazione del Paese. Il peso della manifattura nell’economia americana è sceso drasticamente dall’apice del 1944 (che, va ricordato, era a sua volta ingigantito dall’economia di guerra): dal 28% del valore aggiunto del prodotto nazionale all’attuale 10, dal 39% dei lavori impiegati nella manifattura all’8. Di imprese americane colossali ce ne sono ancora, ed il consumatore consuma più che mai; gli impianti ed i posti di lavoro però sono altrove, disseminati in lunghissime catene del valore che partono da Stati estrattori e passano per potenze industriali di base, come la Cina o il Vietnam, ed eventualmente da assemblaggi o lavorazioni specializzate in Europa, Giappone o Corea del Sud. 

Tra i tanti settori preoccupati della deindustrializzazione americana c’è il mondo della difesa, mai ricoperto d’oro come oggi ma anche mai, in proporzione, così incapace di produrre munizioni, navi e macchinari in grandi quantità. Vance ha sottolineato la debolezza cantieristica americana; ne ha ben donde, considerando che il disfunzionale military industrial complex della Marina non sia più capace di ordinare, progettare e costruire fregate, e si sia dovuto rivolgere a Fincantieri e la sua Fremm. O ancora, i militari statunitensi si sono espressi frequentemente in pubblico riguardo allo svuotamento degli arsenali causato dalle guerre in Ucraina e Medio Oriente – uno svuotamento che non è recuperabile da una industria abituatasi a produrre per una forza altamente specializzata e supportata da un bilancio senza fondo. 

Perdere una grande base industriale significa perdere un mercato del lavoro che, senza necessariamente tornare al mondo sindacale del New Deal, può distribuire benessere in maniera molto più equa di una economia alla Florida, California o Texas – spaccata in due tra tecnologia, finanza e turismo ad altissimo profitto e lavoro estemporaneo e dal salario insufficiente per rincorrere bolle immobiliari ed inflazione sanitaria. La politica americana ha una forte tendenza a collassare nell’obbedienza ad un lobbying feroce e potente, soddisfacendo solo verbalmente l’elettorato. Eppure il problema della diseguaglianza economica è conosciuto e problematizzato a Washington. La ricchezza americana è diventata principalmente finanziaria e tecnica, in mano a pochi, troppo pochi. Trump è al potere con il mandato dei perdenti della globalizzazione. Obama aveva promesso una società più equa, ma si è rivelato fallimentare: decise di non usare la crisi finanziaria ad uso economicamente rivoluzionario, e rimase saldamente nel centrismo neolib e nella sinistra americana di stampo razzista anziché classista. Trump d’altro canto sembra avere abbastanza consenso e forza da potersi permettere il cambio di passo. Nel breve, forse anche medio periodo saranno proprio i suoi elettori a soffrire la tempesta economica di una possibile recessione, ma i loro figli potrebbero vivere una stabilità, se non una richiusura della forbice della diseguaglianza. E se è vero che Trump non sembra un uomo che eticamente si attenga troppo alle promesse, non può non sentire alcuna responsabilità nei confronti dei suoi perdenti dopo così tanto parlare. 

Trump non è un santone del pareggio in bilancio, né contrario aprioristicamente alla spesa pubblica. Nella sua prima presidenza non abbiamo visto nulla che si avvicinasse alla motosega di Milei. L’avventura del DOGE non avrà un grande impatto sul bilancio, quanto piuttosto eliminerà istituzioni federali invise ai repubblicani e cementerà l’immagine di Trump come potente-contro-i-potenti, come efficentatore ed ordinatore, ed infine come mente dall’istinto imprenditoriale. Il problema del debito americano però resta. L’accumulo dei deficit, soprattutto dalla crisi finanziaria in poi, sta sbancando uno Stato che può funzionare economicamente solo con aliquote ben lontane da quelle scandinave o italiane, ma che deve tenere in piedi il più grande e costoso esercito della storia, distribuito su ogni continente della Terra. Finché il Dollaro sarà la valuta di riserva del mondo intero, e finché ogni investitore e Stato del mondo desidererà montagne di debito pubblico americano, la baracca potrà reggere. Questa ipotesi egemonica e unipolare però è sempre meno realistica.

Il free riding del mondo intero denunciato dal MAGA (vero o no che sia) è stato a lungo sostenibile e, perlomeno per una buona parte della società americana, un equilibrio vantaggioso. Per potere essere poliziotti e consumatori del globo intero però è necessaria una posizione di forza indiscutibile. E qui giunge il problema cinese del XXI secolo,che in alcuni suoi aspetti assomiglia a quello posto dai paesi europei e dal Giappone lo scorso secolo. Finché la Cina giocava il ruolo di formidabile piattaforma di delocalizzazione per le imprese americane ed europee, il gioco poteva reggere. L’ordine neoliberale era stato pensato favorendo la crescita economica fuori dagli USA, ma mai in maniera tale da permettere a qualcuno di uscire da una posizione ancillare. La Cina però non è semplicemente una versione in grande del Bangladesh, della Tailandia, del Messico. Oltre a essere enorme e industriosa, è governata sotto lo strettissimo centralismo dal Partito Comunista Cinese, con un sistema di governo dove le cariche di Partito si sovrappongono a quelle economiche e amministrative. Il Partito è nato ed ha sempre coltivato un’anima ferocemente nazionalista e anti-occidentale. Quando nel 1989 scoppiò la protesta contro il corrotto capitalismo di Stato del Partito, questo non si fece alcun problema ad affermare la sua visione del mondo ed il suo interesse, rivendicando un assoluto principiò di sovranità. La delocalizzazione occidentale fu accolta dal Partito, che tolse la museruola a quel così peculiare anarco-liberismo imprenditoriale e contadino cinese, ma mantenne completamente il controllo dei suoi frutti. Arrivato al potere Xi Jinping nel 2012, la sinistra del PCC poté finalmente alzare la testa dopo quasi trenta anni di politica estera e commerciale dominata dalla destra, conciliatoria e scambista. Imprese di Stato, riarmo navale, investimento in manifattura e tecnologia di alto livello, nonché una esplosione della propaganda revanchista hanno caratterizzato l’ultimo decennio di storia cinese. Per uno stratega americano la situazione è allarmante: la Cina può competere con gli Stati Uniti grazie al sistema creato dagli Stati Uniti stessi. Se l’URSS non aveva il dinamismo economico per reggere un bipolarismo simmetrico, la crescita giapponese si rivelò una bolla, e l’Europa di Maastricht non riuscì a sfidare con l’Euro il Dollaro, l’avversario cinese si dimostra assai più completo. Per contenerlo e magari anche soffocarlo è necessario imitarne la politica commerciale: sussidi, dazi, manifattura. 

La Cina non offre solamente il problema e la soluzione dei problemi economici americani. È anche una forza in quanto ad esempio politico. Il principio fondamentale del commercio internazionale, per Trump, è oggi solo uno: sovranità.Caricare di massimo significato questo principio è una lezione cinese. Nell’epoca del globalismo liberale la RPC ha conservato la sacralità del principio di sovranità politica assoluta – anche accettando una guerra culturale sui fatti di Piazza Tienanmen o sul governo del Tibet. Questo fatto è evidente in campo politico, con il rifiuto della visione occidentale dei diritti umani o il fenomeno dei diplomatici d’assalto dell’era Xi. Economicamente si è espresso nel rifiuto di smantellare le mega-aziende di stato, di implementare norme commerciali e privatistiche occidentali nel proprio ordinamento e nella gestione del Renminbi. Trump pesca pienamente dai principi fondamentali di governo del PCC.

L’ascesa cinese ha rotto il monopolio della più alta tecnologia detenuto dagli USA. Non avendo più in mano né tutto il know-how né la base industriale per mettere in campo la forza armata del futuro, gli Stati Uniti devono muoversi a dare il colpo di coda. Il sistema commerciale va riallineato, cosicché si smetta di nutrire l’avversario, anche a prezzo di rompere la propria stessa ortodossia. Non che importi a Trump, cui lo smantellamento dell’ordine liberale all’estero giova per marciare verso qualcosa che assomigli a Project 2025. 

Roma, Marzo 2025. XXV Martedì di Dissipatio

Leggendo ed ascoltando gli strateghi economici di Trump si intravede un grande progetto alquanto coerente. Tanto Stephen Miran, maggiore consigliere economico della Presidenza, quanto Scott Bessent, Segretario al Tesoro, hanno lodato l’uso dei dazi e la rottura del principio libero-scambista dell’Organizzazione Mondiale del Commercio. Il difficile equilibrio da raggiungere sarebbe questo: reindustrializzare gli Stati Uniti senza perdere né il ruolo di riserva globale del Dollaro né i rapporti speciali con i paesi alleati. 

Spezzare i flussi commerciali globali di certo porterà danni all’economia americana, ma la spirale dei dazi sta soprattutto minando il modello economico cinese. La sventagliata di dazi precedenti non è stata così efficace. Come, in una certa misura, con le sanzioni ai danni della Federazione Russa, la Cina li ha semplicemente aggirati delocalizzando la logistica o la produzione, ad esempio, in Vietnam e facendo passare le merci per Messico o Canada – ed ecco che si spiega l’accanimento doganale dell’amministrazione contro i paesi NAFTA e del Sud-Est asiatico. Per avere un qualsivoglia effetto significativo, Trump sta bloccando il grande tapis roulant atlantico e pacifico, dove in una direzione si muovevano manufatti e credito e nell’altra Dollari e treasuries. Secondo Miran gli Stati Uniti si trovano nella specialissima condizione di essere all’incirca un monopsonio, ovvero il loro mercato di consumo è l’unico realmente disponibile per stabilire una economia di esportazione, in quanto è enorme ed è l’unica grande fonte di valuta di riserva. Nessuno tra Europa, Giappone, Tigri Asiatiche e Cina può davvero pensare di sostituire il mercato americano in toto. La quasi totalità dei governi del mondo, in qualche modo tutti inseriti nelle grandi catene del valore globali, si trova davanti ad una scelta: decrescita economica, altroché se felice, o negoziare. 

Con tutte le leve negoziali che sta costruendo, Trump o il suo successore potranno ristrutturare il sistema commerciale globale. Già ora, dall’Europa e dall’Asia Orientale, si levano voci conciliatorie. E gli Stati Uniti stessi hanno assolutamente bisogno di portare a casa questi deals, e non solo per motivi politici. Il Dollaro non può, ad oggi, svolgere sia la funzione di valuta di riserva (apprezzamento, deficit commerciale) che di supporto alla reindustrializzazione(svalutazione, tendenza all’equilibrio commerciale). Il Dollaro ad oggi è principalmente “stampato” ad uso straniero. La storia economica però non prevede economie moderne altamente interconnesse che non generino, spontaneamente, una valuta di riserva. Gli Stati Uniti semplicemente non possono perdere la loro egemonia finanziaria, perché corrono il rischio che qualcun altro trovi un modo per sostituirla – che sia con reti di criptovalute o con una moneta unica dei BRICS. Per riformare il Dollaro è necessario un nuovo grande regolamento monetario globale, una Bretton Woods o un Plaza Accord – e la guerra commerciale è l’unico modo per arrivare al tavolo.

Il comportamento dell’amministrazione Trump nei confronti dei suoi alleati è pienamente giustificabile se è in vista una rinegoziazione dei propri rapporti speciali. Per spiegare l’idea, Bessent ha usato una espressione secca, cruda e colorita, ovvero trumpiana: green, yellow and red buckets. Le economie globali si dividerebbero tra vassalli libero-scambisti, normali Stati sotto dazi, nemici. Effettivamente, per combinare il ruolo di riserva del Dollaro e una sua diminuzione di valore, sarebbe necessario un accordo monetario simile a quello di Bretton Woods, una qualche forma di tassi di cambio fissi. Le pressioni degli attori economici a favore di un ritorno al libero scambio, tanto sul governo statunitense quanto su quelli giapponese, coreano o europeo, sono tali da rendere plausibile un negoziato dal quale uscirà fuori un’area di scambio americana dove si commercia (meno di oggi) con il Dollaro e vi si indicizzano Euro, Yen e Won. Questa idea potrebbe avere senso nel campo anglofono e magari con partner come Taiwan; potrebbe mai reggere un peg con economie e monete corpose come quelle di Giappone ed Europa? L’altro problema resta nella sostenibilità dei contenitori giallo e rosso. Senza più l’OMC e con un Dollaro più discreto è possibile fermare la nascita di un contro-progetto egemonico e globalista incentrato sulle potenze eurasiatiche? Ad oggi sì, sempre a causa del monopsonio. La riforma interna delle economie cinese, indiana o indonesiana sarebbe così dolorosa e lenta da vincere agli Stati Uniti il tempo per rimodellare il mondo a propria immagine, come fu dal 1971 al 1985. 

La tesi di questo articolo è che la politica trumpiana sia nixoniana, non che necessariamente ricalchi il successo del successivo periodo reaganiano. Come accadde negli anni Settanta, gli Stati Uniti sono già in uno stato di diminuita coesione sociale, di caduta dei principi collettivi unificanti, di sfiducia nei confronti delle istituzioni. Certo, la scossa di fine anni Sessanta veniva da sinistra, ed oggi da destra, ma effettivamente negli ultimi 10 anni si sono percorse vie non troppo diverse da quelle della grande riforma ideale, costituzionale, diplomatica e politica dell’epoca Nixon-Carter. Se però Trump è davvero nixoniano, allora le sue scelte resteranno in piedi e non dovrà ritrattare. Questo dipenderà da quattro gruppi di attori che dovranno decidere che fare del trumpismo: 1) i grandi magnati finanziari e gli speculatori 2) il mondo della ricerca e degli investimenti in tecnologia 3) il partito d’opposizione, 4) Stati ed economie straniere. 

Lo strappo di Trump deve confrontarsi con l’ira di gran parte degli attori economici. Una borsa certo gonfiata oltre la sua reale misura sta discendendo rapidamente, e l’incertezza regna. Trump ha toccato sostanzialmente la ricchezza di tutti gli interessi costituiti. È stato eletto da quelli che Chris Hedges definisce oligarchs, ovvero singoli individui che concepiscono il capitalismo americano non come un sistema istituzionale di aziende e Stato, ma in un senso molto più libertario. Trump gli ha dato potere e gli darà esenzioni fiscali pagate in parte con i dazi; ma siamo sicuri che la perdita di terreno in borsa non porti enormi malumori tra gli immobiliaristi della Florida e i titanici fondi di investimento? Di nuovo, è questione di breve e lungo periodo. La rottura della politica istituzionale americana e la visione abbastanza prevedibile offerta dall’amministrazione è una manna per i feudatari, pronti a imbrigliare ed accentrare il capitalismo americano, in cambio delle perdite attuali in borsa e dei mercati più chiusi. Quando una recessione è prevedibile è possibile prepararvisi. 

Nell’equilibrio commerciale internazionale gli Stati Uniti sono una calamita per il credito di tutto il mondo, che si accomoda nei listini americani, si nutre di treasuries e finanzia quel formidabile apparato di ricerca medica, digitale e militare che domina la scena globale. Con il Dollaro in pericolo e lo status quo in dubbio molti investitori stranieri si recheranno altrove. Trump deve a tutti i costi proteggere i distretti scientifici statunitensi, perché non può rischiare un ritorno della ricerca europea o un rafforzamento di quella cinese. Gli Stati Uniti sono il polo globale della scienza già dagli anni Trenta; tra dazi, attacchi alle università e possibile esplosione delle bolle tech Trump sta minando la linfa dell’impero americano. Che la reindustrializzazione offra abbastanza opportunità al credito e alla ricerca americane, in sostituzione al ruolo di vertice di un sistema globale? 

Trump non potrà mai vincere il midterm, posto che non provi un colpo di stato postmoderno. Il futuro del MAGA e della guerra dei dazi è completamente nelle mani del partito democratico. Esso ha oggi degli enormi incentivi a essere semplicemente conservatore, a difendere l’ordine globale e quindi gli interessi trincerati, dalla burocrazia di Washington alla classe media urbana. D’altro canto, già sotto Biden i democratici hanno vissuto dei sussulti keynesiani con stimoli monetari e sussidi – per quanto nel contesto di una retorica elettorale classicamente liberal e di una politica estera copiata dall’agenda di Hillary Clinton. Oggi, in America, è la destra a presentare nuove visioni del mondo, e la sinistra a dovervisi adattare. Questa è una dinamica tipica di ogni democrazia: una parte decide la direzione, l’altra la segue e porta al centro. I democratici dovranno rappresentare un nuovo centro, un nuovo consensus. Se accettano il piano nixoniano, i democratici devono prepararsi a diventare più social-democratici e sindacali, ovvero ad accettare una economia in via di reindustrializzazione e puntare alla redistribuzione della ricchezza – Trump sta spezzando l’attuale meccanismo socialmente diseguale, ma non è nelle sue corde di certo promuovere una politica redistributiva, anzi. E ancora, negli USA i repubblicani rappresentano i momenti diplomatici isolazionisti o kissingeriani. Sta ai democratici riformulare coerentemente l’impero americano post-OMC e, forse, post-democrazia.  

Infine, le potenze straniere, e soprattutto la Cina. Ricordiamo che uscita dal COVID la Cina non ha colto l’opportunità per diventare una economia dalla bilancia equilibrata; anzi ha rincarato la dose con il modello di sovrapproduzione ed esportazione. Ha puntato sull’automobile, il simbolo tangibile con cui l’occidentale valuta la salute della propria economia. E ora si trova soffocata, perché gli europei, gli indiani ed i russi non permetteranno la distruzione della propria industria da parte dell’export cinese. La Repubblica Popolare dovrà avviare un percorso economico molto duro, al netto di quanto riuscirà a mercanteggiare con i BRICS o l’Europa. E al potere in Cina c’è un uomo solo, che comanda con la sinistra del Partito. Dinanzi all’affondo americano, a Beijing sorgerà l’idea di risolvere una volta per tutte la questione taiwanese – ovvero quella questione la cui risoluzione abbatterebbe l’egemonia americana? l’Isola è tra il martello e l’incudine, e se le logiche diventano sempre più strettamente bipolari… Chiaramente l’incubo massimo è una decisione cinese di usare la forza.

Dopo la Cina, dobbiamo discutere della variegata coorte dei BRICS che partecipano al commercio globale senza sanzioni, dall’India alla Turchia, nonché ai non-BRICS del Sud globale. I dazi americani riducono sensibilmente la convenienza di strategie economiche libero-scambiste pacifiche. La battaglia anche violenta per questi mercati si potrebbe fare troppo pericolosa per governi che, storicamente, hanno ben donde di essere paranoici della loro indipendenza (soprattutto in Africa). Più che un effetto domino di dazi, il momento nixoniano può portare ad una scelta contemporanea di molti del Terzo Mondo a favore di soluzioni economiche semi-socialiste. Questa fu la scelta tipica di tutti gli Stati decolonizzati e indipendenti degli anni Sessanta e Settanta. L’alternativa è rimanere aperti a potenze che accettano la sopravvivenza delle catene di libero scambio globale, come probabilmente l’Unione Europea, ma aprendo negoziati duri – quindi in sostanza imitando la mossa di Trump. Sudamerica, Africa, Asia meridionale e Medio Oriente vedranno un fiorire di percorsi divergenti, da chiusure al mondo ad assunzioni di sovranità e responsabilità globale a un proliferare di colpi di stato e proxy wars

Infine, l’Unione Europea e noi stessi. Siamo completamente dipendenti dal monopsonio americano e dal buon funzionamento delle altre economie globalizzate. Tra negoziazione della guerra ucraina e riarmo, l’Unione sta dimostrando un moderato e forse caotico piano di presa di sovranità. Può accadere lo stesso in campo commerciale? L’Unione ha necessità di essere libero-scambista perché, senza mercati globali, non ha energia, cibo e materie prime a sufficienza – si trova in una posizione simile, peggiore, di quella cinese. In pochi anni ha perso il mercato russo, sta perdendo e dovrà murarsi da quello cinese e perderà porzioni di quello americano. Come già detto, non può convertirsi e riversarsi in India o Nigeria senza difficoltà. Ha però qualcosa che la Cina, o qualsiasi altro aspirante egemone, non ha: l’Euro. L’Euro è ad oggi l’unica moneta che può anche solo vagamente ambire di affiancarsi al Dollaro come valuta di riserva globale, in quanto il Renminbi deve rappresentare una economia enorme, estremamente diseguale e protetta come quella cinese. L’Europa potrebbe scegliere di non fare di tutto per entrare nel green bucket, ma di diventare ella stessa la garante del commercio globale (meno rivali e Stati canaglia) e quindi il punto di riferimento per il Sud e i BRICS – che hanno bisogno sì dei fiumi di credito cinese, ma anche di consumatori. L’Europa sì esportatrice, ma il suo squilibrio non è spinto come quello cinese. I dazi stanno riportando il capitale europeo in Europa, e questo capitale non potrà sfogarsi più nelle vaste praterie asiatiche come negli anni Novanta e Duemila. L’Europa non può proteggere il commercio marittimo come gli USA, ma non può neanche minacciarlo. Può essere il punto di riferimento per il mondo che rifiuta una dura sfida tra USA e RPC. Ma dovrebbe cambiare profondamente e governarsi in maniera centralizzata. Improbabile. 

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