Confessione

Tonino Bettanini, cento vite in una

«Diciamo che il mio personaggio, Brando Costa, esaspera quelle che sono effettivamente delle mie propensioni. Io sono sempre stato un servitore leale delle istituzioni e delle persone con cui ho lavorato. Però ho sempre ubbidito a un mio ideale etico di libertà, non intesa come libertà dalla responsabilità, ma di libertà di destino. Sono sempre stato molto capace di dedizione, volta alle persone e alle buone cause, e questo a livello istituzionale può essere visto criticamente.»
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Pigramente l’intercity notte attraversa le gallerie a ridosso del mare. Genova è vicina, e mi rileggo un’ultima volta le biografie online del mio intervistato. Tonino Bettanini, universitario ai tempi del ‘68, storico portavoce del Ministro Franco Frattini e malato di Genoa. Da anni racconta il suo mondo e la sua storia in romanzi il cui protagonista, Brando Costa, da commis d’etat fedele al suo Ministro naviga le acque spesso insidiose (ma di certo affascinanti) di Bruxelles (Bruxelles. La Pelouse des Anglais, 2022), San Pietroburgo (L’icona di San Pietroburgo, 2023) e infine Kabul. MAGOG pubblica nella sua Collana Visibile L’Impermeabile di Kabul, una storia ispirata alla sconfitta storica del ritiro occidentale dall’Afghanistan – una situazione caotica che Costa aiuta a sbrogliare, cercando connazionali e aiutando gli afghani che per vent’anni hanno provato a costruire un paese nuovo. 

Adesso è ora di conoscere la persona dietro una vita avventurosa e spesso vicina al cuore dell’azione, dal PSI Craxiano, alle stragi di mafia, alla Farnesina negli anni del Centrodestra. Scendiamo dal taxi in Via Cairoli, pienissimo centro di Genova. Tonino mi porta prima a inzuppare una focaccia nel cappuccino, e poi mi accompagna in un androne buio e fresco. Il tintinnio delle chiavi fa eco fino al clac, entriamo. Tonino custodisce e utilizza come suo palazzo delle meraviglie questi tre grandi cameroni a volte, con pareti color canna di zucchero che si abbinano bene al suo vestire: giacca, gilet e camicia di tre verdi diversi, dall’oliva all’alga, movimentati da una cravatta in maglia aragosta. Si apre un finestrone ed ecco uno strano chiostro: al posto del piano di calpestio c’è una cupola di ferro e vetro, come nel grande mercato coperto di Barcellona o nelle stazioni di Budapest. Una luce azzurra ci fa compagnia, una volta seduti tra mille poster cinematografici. Colore, luce e piccoli piaceri dei sensi sono una costante tanto del vestire quanto delle abitazioni storiche di Tonino, da quelle liguri a quelle romane. E sono lo sguardo di Brando Costa nell’Afghanistan dell’Impermeabile di Kabul.

-Partiamo dalla sua gioventù a Genova. 

La mia gioventù è stata molto segnata, inizialmente, da una passione per il calcio e per il tennis. Passione che ha naturalmente anche sacrificato le mie performance scolastiche, tanto che a un certo punto in prima liceo sono entrato in una sorta di crisi e ho abbandonato la scuola. 

L’anno successivo, cercando di recuperare l’anno perduto, facendo due anni in uno ho avuto l’occasione di incontrare un professore di materie letterarie che mi ha molto motivato alla lettura. Siamo nella metà degli anni Sessanta, quindi si passa per la psicoanalisi e il marxismo. Mi spinse all’interesse politico, ma avevo una formazione e una famiglia liberale. Sono rimasto sempre più amico della libertà che non dell’uguaglianza. 

Coltivando anche questo interesse per la politica e più complessivamente per il mondo sociale, mi sono appassionato della ricerca sociologica. Non c’erano ancora le facoltà di sociologia in Italia – la prima sarà a Trento, poi è diventata sciaguratamente famosa per Curcio e le BR – e però c’era la tradizione cattolica che aveva preso soprattutto dalla cultura nordamericana le tematiche del servizio sociale. Era una sociologia minore ma comunque era un interesse sociologico. Non c’è l’insegnamento a Genova nella facoltà di Lettere e Filosofia a cui mi scrivo e vado a Milano, dove seguo il corso di sociologia di Martinotti. Poi scoppia il ‘68, e visto che ho tantissimi amici a Genova torno a vivermi il cambiamento giù.

Frequento anche il mondo extraparlamentare, ma non mi andava giù né il troppo senso di appartenenza né l’accento rivoluzionario. Nel frattempo mi laureo a Genova con una tesi in sociologia su Max Weber e Talcott Parsons. Il mio professore mi propone di continuare. Un anno dopo avrò una borsa di studio, inizio un percorso universitario e siamo già verso la metà degli anni Settanta. Non mi chiudo nella torre d’avorio – non potrei mai farcela – e quindi mi metto a fare di tutto: divento per esempio segretario dei giovani industriali, che allora hanno molta e forse esagerata enfasi nel ruolo sociale dell’imprenditore. Attraverso il mondo imprenditoriale entro in contatto con una costola del mondo socialista, genovese ma non solo, e sempre per questa mia attività organizzativa mi viene offerto di dirigere un centro culturale, il Club Turati. 

-Cos’era allora il Partito Socialista? 

Siamo nel 1977-78, comincia a nascere la stella di Craxi nella politica italiana. C’è un grandissimo impegno di rinnovamento e di disboscamento, soprattutto nella parte cultura con Claudio Martelli. Ci sono convegni molto importanti che hanno segnato anche il cambiamento della politica italiana, uno dedicato ai socialismi: viene usato di proposito questa declinazione plurale per uscire fuori da questa babele di linguaggi della sinistra, peraltro poi piena di dogmatismi anche molto acerbi e molto aspri. Un altro convegno carinissimo portava come titolo “Le velocità e la politica”, che pone il problema di come le dinamiche dell’economia e della società corrono veloci di fronte a un mondo della politica lentissimo a decidere. È un po’ il tema che Craxi svilupperà, e perciò verrà accusato di decisionismo. 

L’esperienza dei club socialisti è per me bellissima. Vi racconto due azioni fantastiche. Assieme ad un mio amico mi metto in contatto con André Glucksmann a Parigi. Glucksmann fa parte della nidata dei filosofi che lavorano con Jean-Paul Sartre. Sartre ha lanciato una campagna che si chiamaun bateau pour le Vietnam, importantissima per la sinistra dogmatica di allora perché riconosce che il vincitore ha creato una dittatura. Noi diventiamo l’antenna italiana di questa iniziativa, e portiamo in cinque città italiane questi intellettuali, alcuni dei quali vengono dai paesi comunisti, come testimoni; è un’iniziativa assolutamente controversa con il Partito Comunista che fa in contemporanea delle manifestazioni di piazza. O ancora, organizzammo noi al Palasport il concerto De André e la PFM

-La gioventù culturale e politica socialista si stava preparando all’89. Eppure il Partito rimase intrappolato nella morte del mondo della Guerra Fredda.

Uno dei problemi del PSI era quello di essere un’aristocrazia della politica, che non vedeva riconosciuto il proprio valore in termini di bacino e risultato elettorale. Rimaneva una specie, come diceva Bettino Craxi, di Ghino di Tacco, di brigante o di lepre della politica italiana. Grazie anche (non credo ai complotti) all’alleanza con una parte della magistratura questo mondo subisce lo scacco. 

Il finanziamento illecito era praticato da tutti, ma forse parteciparvi fu una ingenuità da parte di Craxi. Quale sarebbe stata la soluzione? In Francia la soluzione fu trovata perché un primo ministro si suicidò quasi nello stesso periodo, e l’intero Parlamento fece una nuova legge sul finanziamento dei partiti. 

Teniamo presente che in Italia finanziamenti illeciti erano stati amnistiati con legge del Parlamento fino a quasi gli anni 90. L’inizio importante di Tangentopoli è il famoso discorso del conto protezione in Svizzera, un finanziamento illecito che per la verità aveva riguardato i tre maggiori partiti, ma che essendo intestato allo PSI… Questo reato era un reato che si rifaceva ad anni precedenti, quelli amnistiati, eppure il caso scoppiò. 

L’altra cosa sicuramente è che l’89 genera nell’alleato americano, rispetto all’Italia, una minore attenzione agli equilibri del sistema politico: non c’è più il comunismo, non dobbiamo più puntellare quelle forze che hanno garantito la prosecuzione di un sistema liberale e democratico. 

Il paradosso è che il PSI era vincitore sul campo. Stavamo recuperando il PCI. Poi tra Tangentopoli e l’esplosione della Lega come legittima risposta a problemi storici…

-Il Partito riuscì a sopravvivere indirettamente. Tutte le sue innovazioni vengono riprese dalla politica della Seconda Repubblica. Si attiva poi uno strano imbuto dal PSI a Forza Italia. 

C’è una spiegazione. Io non credevo che le nostre idee fossero trasmigrate in Forza Italia. La criminalizzazione che stavamo subendo proveniva quasi esclusivamente dalla sinistra (e devo dire un po’ anche dalla MSI). Forza Italia era l’unica entità che mostrasse rispetto nei nostri confronti, e difatti la votai nel 1994. Comunque in Forza Italia trasmigrano prevalentemente le seconde e le terze file del PSI, perché hanno subito una minore esposizione. Forse l’unica persona grande era De Michelis. La nuova classe dirigente di Forza Italia non era molto entusiasta di avere accanto a sé delle prime donne, quale anche involontariamente poteva essere la prima fila del PSI. Noi socialisti che eravamo in una completa diaspora ci siamo subacqueamente riconosciuti quasi tutti dalla stessa parte, per avere quantomeno avuto da Forza Italia l’onore delle armi. 

-L’Italia, soprattutto di recente, è affetta da PSI-stalgia e Craxi-stalgia. Anzi, nostalgia primorepubblicana. 

Diciamo che dall’ex PCI si coltiva il mito berlingueriano, che ha veramente poco senso. Al netto del rispetto per la figura e per la sua fine tragica, non ricordo sinceramente un’idea di quella stagione comunista che sia servita al mio Paese. Ricordo solo delle battaglie di retroguardia. Tutta la costruzione riformista artificialmente proseguita ha semmai un’origine nel primo centrosinistra italiano, anche con delle punte criticabili. È il riformismo che nazionalizza l’ENEL, che prolunga la scuola dell’obbligo, che apre la strada a un primo welfare. Questo ritorno piccista è un ritorno che è determinato dal meccanismo della cronologia giornalistica – sono vent’anni da…

Mentre secondo me la Craxi-stalgia, comunque legata alla cronologia dei vent’anni, fa parte di un sentimento, non voglio dire di colpa, ma di debito che il Paese ha nei suoi confronti. A lui non è mai stato riconosciuto da vivo quello che gli era dovuto. Il tempo allarga a dismisura il cono di luce su Craxi. La dimensione del coraggio non era mera retorica, ed è assolutamente fuggita dalla politica, perché si ragiona con i sondaggi a breve. La lungimiranza della politica consiste nel rischiare l’impopolarità per avere un risultato superiore.

-Da qui come arrivò a lavorare a Roma e cambiare professione?

La mia esperienza di portavoce nasce con Claudio Martelli alla fine del 1990, quando è Vicepresidente del Consiglio. Questa esperienza poi matura subito dopo nel ’91 quando Martelli diventa Ministro di Grazia e Giustizia e io vado a dirigere l’ufficio stampa del ministero. Con Claudio dovetti gestire gli anni delle stragi. 

Claudio è stato per me una persona e un amico importante per le molte cose che ho imparato da lui nella professione, nella scrittura e anche nell’apertura intellettuale e culturale al mondo. Come portavoce, da una parte, non dovevo fare nulla perché lui era fantastico – mica aveva bisogno di citazioni per apparire erudito. D’altro canto la situazione comunicativa era difficile: il PSI stava semplicemente antipatico, e la quasi totalità dei media (PCIsti o DCisti) ci dava addosso. Grazie anche alla popolarità della lotta alla mafia riuscii a recuperare molto, a riallacciare. Non rispondevamo nemmeno alle sciocchezze delle polemiche quotidiane. 

Nella narrativa che vede contrapposti alla fine del percorso Martelli e Craxi, ex post, secondo me aveva ragione Craxi. Martelli all’epoca inseguiva un sogno, che era stato anche Craxiano, che era quello di cambiare l’architettura costituzionale e presentarsi come alternativa alla DC.Probabilmente poi la malattia cambia Craxi, che non è più combattente, ma governatore del patrimonio acquisito, nel senso buono del termine. Martelli, in funzione anche della popolarità che si era guadagnato nella battaglia anti-mafia, punta invece a fare del PSI il campione di un’alternativa di sistema, cioè creando un sistema bipolare. Cosa che poi c’è stata, con dei giocatori completamente diversi. Poteva fare il New Labour di Blair, che stimo molto, tanto più dei pasticci dalemiani e clintoniani, perché era visionario. 

Con Frattini la mia avventura inizia nello stesso periodo di quella con Martelli. Nel 1995, con il governo Dini, lui diventa Ministro della Funzione Pubblica, e sto con lui. Poi il governo si dimette, si preparano le elezioni e io rimango con Frattini che si candida al collegio uninominale in Alto Adige. Faccio la campagna elettorale per lui, vinciamo, però la coalizione perde. Lui diventa presidente del COPACO e per un periodo di nuovo lavoro con lui. 

-Il protagonista dei suoi romanzi, Brando Costa, è un uomo indubbiamente libero. È una sua caratteristica? Se sì, era la caratteristica giusta negli ambienti altamente competitivi dove ha lavorato?

Diciamo che nel romanzo vengono esasperate quelle che sono effettivamente delle mie propensioni, di cui non è che mi penta, ma un poco mi dispiacciono. Mi hanno un po’ reso la vita difficile. Io sono sempre stato un servitore leale delle istituzioni e delle persone con cui ho lavorato. Però ho sempre ubbidito a un mio ideale etico di libertà, non intesa come libertà dalla responsabilità, ma di libertà di destino. Io sono sempre stato molto capace di dedizione, volta alle persone e alle buone cause, e questo a livello istituzionale può essere visto criticamente. 

Mi sento ancora adesso nonostante la valanga di anni che ho una persona che deve crescere, in qualche caso un bambino e in qualche caso una persona che vede nell’altro un coetaneo e qualche volta una persona ancora più grande di me. Sono sempre stato curioso di queste relazioni e ho sempre frequentato da bambino delle persone più grandi di me.

Al lavoro, quando capivo che la situazione diventava complicata, avevo sempre un piano B. La mia tattica era smarcarmi e sorprendere chi mi voleva ostacolare, o addirittura mollare a sorpresa. Mi ricorderò sempre un episodio di quando ero segretario del partito socialista di Genova. Ero in consiglio comunale, avrei dovuto avere anche l’incarico di capogruppo consigliare. Questa cosa aveva generato in alcuni una forma di contrarietà, ma come sempre accade in politica era una contrarietà di tipo negoziale. Non ci ho pensato due volte, sono andato in questa riunione dove tutti affilavano i coltelli e ho detto ma non c’è nessun problema, io non lo faccio il capogruppo. L’allora sindaco di Genova, Fulvio Celoforini, mi ha preso da parte e mi ha detto eh belin Bettanini hai fatto filotto. Alla riunione dopo mi hanno nominato subito. 

Mi sono spesso districato con una forma di intuizione senza in realtà un pensiero strategico. Mi sono salvato in molti casi soprattutto con le persone molto in gamba, cattive ma molto in gamba, che sono abituate a ragionare secondo delle regole. Io facevo delle cose che loro non si aspettavano, perché dovevo uscire dal buco. La mia irresponsabile generosità nel buttarmi nelle cose a volte mi creava delle situazioni complicate, e quindi dovevo in qualche modo uscire. Ne sono sempre uscito senza fare feriti.

-Ci racconti il lavoro del portavoce. 

Questa mia esperienza è stata un po’ spartiacque nel mondo della politica italiana. Al contrario del mondo anglosassone, il portavoce non aveva un ruolo marcatamente pubblico. Era più che altro una persona di fiducia, di estrema fiducia da parte del politico e delle istituzioni per cui lavora. Teneva al più un rapporto di pissi-pissi con la stampa. Io ero iscritto all’albo dei giornalisti, sezione pubblicisti, ma non mi ero formato da giornalista. Però nel mio percorso universitario avevo virato verso la sociologia del linguaggio. Avevo incontrato il mondo di Umberto Eco, ma soprattutto il centro di semiotica a Urbino. Avevo tra l’altro scritto con un mio amico nel 1970 un saggio sul linguaggio del calcio, dei giornali e della televisione, che si chiamava Il linguaggio giocato. Ero andato a presentarlo a Eco, mi ero fatto consigliare da lui; poi mi era uscito un testo non troppo scientifico, ma è stato anche lì il primo testo parascientifico a occuparsi di calcio nella dimensione accademica. 

Tornando alla mia situazione, ero uno abituato a smontare i testi, ma non a produrli. Nel 1995 in una fase di depressione, perché Tangentopoli mi aveva messo all’angolo. Poi, grazie a un mio amico, scrivo un libro che si chiama Io il portavoce. Questo lavoro è stata la prima riflessione sul ruolo del portavoce in Italia, questa volta però non più inteso come l’amico confidenziale del politico, ma come la persona che comincia a ragionare con i media con cui si deve confrontare, distinguendoli e facendo della comunicazione un elemento proattivo, cioè costruendo la notizia e il personaggio. Nel libro avevo coniugato formazione accademica e racconti di esperienze personali – chiaramente in un’epoca comicamente pre-digitale. 

Roma, Febbraio 2025. XXIV Martedì di Dissipatio

-Perché le riuscì bene il lavoro di portavoce? 

Gli aspetti personali dell’esistenza intervengono sempre molto nel lavoro, sia positivamente sia negativamente. In quella fase io mi ero separato da mia moglie e vivevo solo di lavoro quindi, come si dice a livello istituzionale, ero h24 in servizio. Lavorando prima con Claudio Martelli mentre la mafia faceva guerra allo Stato, e poi con Franco Frattini alla Farnesina in piena guerra iraqena e afghana non si poteva non essere h24. 

Nel mio carattere poi ritrovo improvvisi ed intensissimi innamoramenti per le cause, capacità letteraria ed una certa simpatia. Insomma, qualità utili. 

-E di Franco Frattini quale ricordo porta?

Quello con Franco è stato un rapporto lungo, pieno di bellissime esperienze. Io sento una forte riconoscenza nei suoi confronti, ma è stato anche un rapporto molto particolare… pur avendo avuto tanti anni di condivisione, di esperienze, di amicizia, non abbiamo mai avuto quella intimità che l’amicizia lascerebbe presupporre. Ci siamo sempre molto tenuti sul formale. 

E come sempre succede nella vita questo rapporto è diventato più bello, per molti aspetti, quando lui era meno importante. 

Lui aveva la caratteristica di non volere nessuna increspatura nella propria equipe. Invece noi eravamo spesso attraversati da micro o macro competizioni. Questo qualche volta mi ha creato delle difficoltà, perché non ero persona che andava a tirare la gonna della mamma per segnalare. Questo mi ha creato qualche periodo e situazioni di abbandono, ma poi sono ritornato sempre alla grande a lavorare con lui.

-Come politico come è stato? 

Non è stato. Noi abbiamo avuto anche in qualche occasioni delle discussioni, non tanto direttamente con lui, ma il mondo che ruotava attorno a lui. Io ho sempre pensato che siccome Frattini era entrato nell’orbita berlusconiana, ricavandone delle importanti prospettive di carriera istituzionale, era entrato per il suo profilo istituzionale, non per un’appartenenza politica o per una militanza politica.

Questo significava essere a rischio del cambio di umore o di idee, della leadership, ma nello stesso tempo ti metteva al riparo della conflittualità e delle cattiverie e del fastidio che, diciamo, un’attività politica classica ti dà. 

L’avventura in Alto Adige fu anch’essa un catapultamento dall’alto, in modo poi secondo me intelligente. L’uninominale dell’Alto Adige è difficilissimo da vincere, ma in quel caso Frattini aveva beneficiato del fatto che l’SVP aveva fatto la desistenza e non appoggiava il candidato dei DS. 

Nel 2011, a 65 anni, andai in pensione da dirigente ministeriale. In quel momento secondo me Frattini rimase in balia dell’ambizione di diventare segretario generale della NATO, cosa per la quale aveva titoli, alleanze e appoggi. Berlusconi era fuori dai giochi; Napolitano credo che lo abbia appoggiato; il prosieguo di questa vicenda è finita col governo Renzi. Renzi ha sempre manifestato contrarietà nei suoi confronti, tanto che a Bruxelles si aveva questa singolare situazione del Presidente della Repubblica che diceva di appoggiare Frattini e il Presidente del Consiglio che diceva che Frattini non era il candidato suo. In quell’occasione però c’è stata una frattura col mondo di Forza Italia.

-Di cosa aveva bisogno Frattini, in termini di figura pubblica? 

Due cose. La prima era il linguaggio: gli avevo subito detto che lui doveva assolutamente parlare nel linguaggio della vita, scappando (quando consono) dalla gabbia del linguaggio giuridico. Nel sito della Funzione Pubblica creammo quella che oggi si chiamerebbe un’app, si chiamava Chiaro!:i funzionari ci mandavano dei testi, che noi sistemavamo per renderli corretti e comprensibili. Io fuia capo di una struttura dedicata appositamente alla semplificazione del linguaggio nella p.a. Non ti dico la disperazione, perché poi quando te ne vai via è come se nessuno avesse fatto niente.Secondariamente, Frattini doveva non solo parlare, ma agire pensando che il suo lavoro andasse comunicato. Come spesso gli accadeva, si appassionò quasi fin troppo. 

-Lei fu portavoce di Frattini al Ministero degli Esteri nel 2002-04 e nel 2008-11. Che Farnesina ha vissuto?

Gli Esteri e la Difesa erano gli unici due ministeri che resistettero all’idea di avere un capoufficio stampa che non fosse della carriera, quindi c’era un diplomatico con cui poi si andava più o meno d’accordo. Io ho portato al Ministero degli Esteri una cultura della comunicazione che prima non avevano, in particolare nella comunicazione di crisi, che necessita di rapidità e preparazione – nel mondo digitale non si possono limitare le informazioni. Nella seconda esperienza di Frattini agli Esteri avevo fatto in modo che si costituisse una piccola troupe televisiva, chiamiamola così, che seguiva tutte le attività e non solo, ma faceva delle micro-produzioni di trailer per gli eventi che facevamo. Con una mia collaboratrice, Lucrezia Pagano, ora capo della comunicazione al DIS, avevamo inventato questo evento in un periodo in cui l’Italia era un po’ depressa, anche psicologicamente, secondo noi, parlo del 2010: Winning Italy. Avevamo un sito dove raccoglievamo dalla rete e dalle agenzie anche internazionali la miniera di buone notizie che riguardavano gli italiani, dai successi sportivi alla ricerca scientifica. 

Chiaramente la mia professione era cambiata. Avevo vincoli istituzionali, tecnicamente ero un Consigliere, Consigliere per il Ministro. Più che preparare il singolo comunicato, lavoravo sul funzionamento complessivo della comunicazione e cercavo di influenzare quanto possibile i colleghi dell’Ufficio. 

-Nei suoi libri filtra quanto lei ritenga personalmente importante la diplomazia culturale italiana, e di come questo convincimento sia condiviso in Farnesina. È soft power, proiezione di interessi strategici, mecenatismo…?

Le parole sono mobili: il loro significato e il loro indirizzo si precisa nel tempo. Non c’era una forte consapevolezza inizialmente. Sicuramente, se noi facciamo riferimento ad una autodefinizione compiaciuta che i diplomatici danno dell’Italia, cioè di un Paese dal soft power, dentro a questa etichetta la dimensione gioca un ruolo tutt’altro che secondario. L’appeal dell’aristocrazia del design e della manifattura italiane, il Made in Italy, è innegabile. Tecnicalità tutte italiane, comel’archeologia o il restauro, sono elemento di scambio appetibile in alcune aree non industrializzate del mondo, e che quindi sono a tutti gli effetti asset della politica diplomatica. 

Nel mondo diplomatico italiano c’è un humus storicamente molto ricettivo alla dimensione culturale. In tema Afghanistan, prendiamo il caso dell’ambasciatore Quaroni, un personaggio straordinario. Faceva un po’ la fronda al fascismo, protetto da Galeazzo Ciano. È mandato per punizione a Kabul, che non è ancora più di una legazione. Impara la lingua persiana ed è un raffinatissimo conoscitore del mondo e della cultura afghana, tanto che da lì muoverà frequentemente delle pedine fatte di gruppi tribali, non solo afghani, in funzione anti inglese, in questo modo recuperando la sua non simpatia per Mussolini per il fascismo. E una volta finita la guerra, nominato ambasciatore a Londra, non fu stato accettato dagli inglesi, un caso quasi unico di rifiuto. Per non parlare poi della Collezione Farnesina, che è un’idea dell’Ambasciatore Vattani: è un vero e proprio termometro della cultura delle arti visive italiana. Particolare interessante, la fascinazione per l’Oriente, Medio ed Estremo, è tipico della carriera di destra. 

Diciamo quindi che questa dimensione non è artificiosa. Aggiungiamo poi che Berlusconi diede un importantissimo contributi alla modernizzazione del Ministero. La promozione dell’Italia e della sua economia e delle sue aziende è oramai una skill base dell’ambasciatore. E con il passo successivo si creò una direzione al Ministero che univa l’economia e la cultura. Lea cultura era ed è considerata, uno dei contenuti che contribuisce al successo competitivo delle aziende italiane e della loro diplomazia all’estero.

-A proposito di modernizzazione della Farnesina. Il libro con cui Frattini si candida al Ministero nel 2004, Cambiare rotta, è curato da Tonino Bettanini e parla costantemente dell’ampliamento d’orizzonte che era necessario al Ministero. 

Quella è un’opera di Carlo Panella. Io l’ho rivisto, Frattini l’ha approvato. Questo però è un libro che aveva fatto un po’ storcere il naso a qualcuno in Farnesina… Frattini era arrivato lì dopo le dimissioni dell’ambasciatore Ruggiero, che era stato nominato da Berlusconi anche per compiacere Gianni Agnelli. Non si capivano i due, Ruggiero e Berlusconi, quindi elegantemente Ruggiero se ne andò. Frattini così, come frutto di una promessa passata, diventa Ministro. Ebbe la fortuna di trovare collaboratori avviati che gli diedero orientamento. Quindi Cambiare rotta era nato senza l’approvazione dell’ambiente.

-In effetti il testo era molto aggressivo ed elettorale, fuori dallo stile di Frattini quanto del suo. 

Sì, Frattini era un uomo che amava l’equilibrio. Credo però che quel libro presentasse opinioni ed idee realmente sue.

-“Cambiare rotta” oggi appare come un oggetto archeologico. È un manifesto di quello che si credeva oramai venti anni fa, incluse le polemiche. Tempestando l’Ulivo, dice chiaro e tondo che piazza, partiti e Parlamento non hanno posto nella formulazione della politica estera. 

Non direi che questi mondi politici vadano esclusi, ma la politica estera necessita di continuità. Cioè, salvo con l’emergere improvviso di guerre o tensioni, ci fu ad esempio una grande continuitànella politica verso la Libia, prima delle Primavere Arabe e della fine terribile di Gheddafi. Con Prodi, con D’Alema e con Berlusconi. Così come c’è sempre stata una corrente di simpatia verso la Russia, l’ex Unione Sovietica. Io ho avuto la possibilità anche di testarlo sia pure come un testimonio di quarta fila, seguendo anche le visite del Presidente Napolitano, non solo quelle di Berlusconi o di Frattini. E lo stesso verso gli Stati Uniti. Semmai verso Israele, pur mantenendo un contatto anche con l’autorità palestinese, con Berlusconi ci fu un’accelerazione del rapporto. 

Ancora, in tema continuità, noi abbiamo sempre interpretato una posizione fondamentalmente di lealtà al campo occidentale. Ma ci siamo presi anche la libertà, a volte creativa, di agire anche da ponte verso i mondi che non condividevano questa cultura delle libertà. Per esempio, nei confronti dell’Iran, ci fu un momento in cui una parte del mondo diplomatico italiano era sensibile a un tentativo di appeasement, nonostante la disapprovazione americana. L’esclusione dal quartetto negoziale sul nucleare non era stata digerita. Parliamo della fine degli anni Dieci.

-Il suo nome compare in Wikileaks proprio nel contesto delle frizioni italo-americane sull’Iran a fine anni Dieci. 

Il mio nome compare e in un modo distorsivo e per motivi assurdi. Wikileaks è una raccolta di documenti istituzionali, aziendali etc. Tra questi c’era una lettera indirizzata a Washington dall’ambasciatore americano a Roma in cui mi descriveva come un familista amorale che, forse, giocava un ruolo nel commercio marittimo con l’Iran. Falsissimo. Il malinteso nacque perché io al tempo ero inserito in Farnesina e un mio parente imprenditore, portuale, aveva rapporti con l’Iran dai tempi dello Shah con l’Iran. Le due cose erano collegabili, ma non erano connesse.  

Ho pensato di riparare il malinteso, perché questi dispiaceri possono metterti in difficoltà. Una mia omologa all’ambasciata americana mi combinò un incontro con un personaggio da cose riservate. Non volli però parlare di quella questione, parlammo d’altro. E un anno dopo mi sono trovato di wikileaks – una cosa vergognosa che mi ha macchiato in modo non ininfluente. Alla fine, però, ho quasi sempre goduto di buona reputazione. 

Roma, Marzo 2025. XXV Martedì di Dissipatio

-Nella sua esperienza al Ministero degli Esteri, come era il rapporto con la Presidenza del Consiglio? 

Questa idea per cui dovremmo rilevare del fastidio eventuale della Farnesina per la presidenza del Consiglio è molto figlia della Prima Repubblica. I governi erano evidentemente di coalizione e le posizioni apicali erano la presidenza del Consiglio e il Ministero degli Esteri. Le forze maggiori che davano vita alla coalizione si dividevano i due portafogli e nasceva conseguentemente una certa idea e immagine, non dico di autonomia, ma sicuramente di identità profonda e netta del Ministero degli Esteri. Siamo ancora un po’ orfani di questa diarchia che si era istituzionalizzata. Ma negli altri Paesi non è mica così: la gerarchia tra Presidente/Cancelliere/PM e Ministero è netta. Nella mia immagine di architettura costituzionale tutto quello che è coalizione o assemblea condominiale mi causa l’orticaria. Ma non lo dico in spregio al dibattito liberale democratico. Vivi un contesto mondiale, internazionale, di competizione con soggetti che non hanno vincoli nella presa di decisione. Nel rispetto di un consenso che è stato certificato da un voto democratico e liberale non ti puoi permettere di non avere dei meccanismi di decisione veloci. 

-Frattini fu Commissario europeo per giustizia, diritti cittadinanza dal novembre 2004 al maggio 2008. Lei lo seguì. Ci racconti il lavoro a Bruxelles.

In quel momento, parliamo del novembre del 2004, ero messo benissimo agli Esteri, perché avevo un ottimo rapporto con l’ufficio stampa e lavoravamo proprio bene. In quella giornata mi trovavo a Praga dove avevo istigato una cordata di imprenditori italiani a fare una sponsorizzazione del restauro di una chiesa dei Gesuiti che si chiama la Cappella degli Italiani, un gioiello dell’architettura vicino al Ponte Carlo. Mi aveva raggiunto lì la telefonata di Frattini. Lui non era assolutamente contento di andarci, perché andare alla Commissione Europea era ancora considerato come un comodo parcheggio che ti lasciava fuori dai giochi. 

Era comunque una sfida nuova. L’inglese lo masticavo male e purtroppo ho continuato a masticarlo male, perciò non ho potuto vivere Bruxelles a pieno… anche se poi l’inglese della Commissione è tremendo.

Detto questo, andavo molto volentieri lì. Per la carriera di Frattini è stata una svolta importante, perché pur avendo un portafoglio che i media italiani – che non capiscono niente – consideravano modesto, in realtà metteva insieme i temi della sicurezza e i temi dell’immigrazione. Quindi noi abbiamo trattato lì dei dossier pazzeschi. In quegli anni partirono l’Agenzia dell’Immigrazione e Frontex, con mezzi e navi di molti dei Paesi membri. Nel 2005 “sicurezza” significava rispondere alle bombe di Londra – quindi tutta la legislazione sugli aerei, dei liquidi, sicurezza delle infrastrutture. Abbiamo fatto tantissimo contro la pedofilia sulla rete. Poi siamo andati a investigare anche, nel rispetto delle confessioni religiose, su come venivano finanziate le moschee – lì abbiamo toccato dei nervi abbastanza scoperti. Lavorammo alla legislazione che ha a che fare con la privacy

-Perché i media italiani non hanno occhi per Bruxelles? 

Come nella politica, la redazione di Bruxelles nei grandi giornali era considerata una sede minore. Non così per gli altri Paesi: accade in Italia, che è provinciale. Si creò questo circuito malsano dove il corrispondente da Bruxelles doveva in qualche modo incendiare il bosco, altrimenti quello che scriveva non interessava nessuno. E me lo ricordo, perché a Frattini facevano delle domande… 

-Finita la sua storia con Frattini ha continuato a fare di tutto. Recentemente, tra le sue esperienze più colorite, c’è stata quella al Genoa. 

Il Genoa Calcio mi ha incaricato di preparare attività per i suoi 125 anni. Siccome è stata fondato dagli inglesi ho fatto fare un messaggio della Regina Elisabetta, un messaggio da Mattarella, insomma, tutta una serie di gabole di questo genere. 

Però la cosa più difficile, che non mi è riuscita, era un’altra. Esistono dei contenziosi storici riguardo l’attribuzione di determinati scudetti. C’è una catena di contenziosi assai curiosa. La Lazio lamenta al discapito del Genoa di non avere avuto nel 1915 lo scudetto, perché con lo scoppio della guerra la federazione decide di dare lo scudetto al Genoa, che è primo in classifica, ma solo nel girone del Nord Italia. Due, il Genoa lamenta dal Bologna uno scudetto nel ‘24 che si deve alle farmacie di Arpinati, che era un gerarca fascista, molto amico di Mussolini e Presidente della federazione di atletica. Arpinati maneggiò la finale di spareggio tra Bologna e Genoa, che si rigiocò e rigiocò con le squadre fasciste a bordo campo… finché non vinse il Bologna. Infine c’era un contenzioso tra Torino e Bologna.

Ho fatto una proposta molto democristiana: fare tre ex-aequo. Il Genoa avrebbe preso il decimo scudetto, cioè la stella, che è una cosa che funziona anche in termini di marketing. Avevo messo insieme un dream team di giuristi, e la gazzetta dello sport era pronta a uscire con una prima pagina dedicata. Poi alla sera alle 10 mi chiama il giornalista della gazzetta, non si fa più niente. La società stessa senza dirmi niente aveva bloccato la cosa. Ci sono rimasto male, e mi sono dimesso.

-Infine, parliamo dell’Afghanistan dell’Impermeabile di Kabul. Come ha conosciuto il paese? Il suo racconto ha un che di salgariano. 

Ci sono stato un paio di volte, ma solo di passaggio in visite con Frattini. 

La mia prima fonte è Ferdinando Rollando [guida alpina dedicatasi all’insegnamento dello sci in Afghanistan, morto nel 2014 sul Monte Bianco, soggetto di un saggio diaristico di Tonino, Il Mullah dello sci], più altre testimonianze di ricercatori passati per l’Afghanistan. 

Un personaggio della storia, una giurista persofona di Kabul, l’avevo conosciuta davvero in Farnesina: l’aveva invitata Frattini, che era sensibile al tema dello stato di diritto e della condizione femminile nel paese. Ancora, l’amicizia dell’Ambasciatore Margini della storia con un capoclan talebano è ispirata da una storia vera, quella di Pontecorvo, Presidente di Leonardo. Era figlio dell’Ambasciatore d’Italia in Afghanistan, e da ragazzino giocava con ragazzi della famiglia reale. Ho conosciuto poi Padre Moretti, barnabita – i Barnabiti sono presenti in Afghanistan. Mi è stato molto utile questo libro intitolato Afghanistan Crocevia del Mondo, un testo scritto negli anni ’30 da due Barnabiti.

-Nell’Impermeabile si affronta la degenerazione dell’Afghanistan, da paese in pace con una capitale che assomigliava ai moderni Emirati all’anarchia e la violenza diffusa. Si è fatto un’idea di cosa è accaduto?

Più che le entrate militari dei sovietici e degli americani, credo sia stata roba loro. Nel mondo musulmano c’è un alternarsi di secolarizzazione e dogmatismo. Vedi l’Iran sotto lo Shah, o la Turchia sotto Atatürk, con le rispettive (ma diverse) re-islamizzazioni. Poi, sia chiaro, un conto è la grande metropoli che è più liberale, più aperta, e poi però c’è tutto il resto che continua nella tradizione. 

Io ho una considerazione molto negativa dei Talebani. Nella generazione più giovane però noto un punto di vista diverso. 

-Credo che il punto sia come interpretiamo (o ignoriamo) gli eventi pre e post 11 settembre. Un tempo si definiva l’entrata occidentale in Afghanistan un atto di civiltà, forse oggi l’ha vinta un giudizio quasi post-coloniale. 

Infatti l’unica cosa che salvo della dominazione occidentale è il tentativo di riscatto del mondo delle donne.

Io ero rimasto affascinato nella mia prima esperienza farnesinica da un saggio di Condoleezza Rice, fondamentalmente sull’esportare la democrazia. Poi ragionandoci, con le vicende della storia e con la sconfitta che i fatti hanno dimostrato… È il perenne tentativo di riscatto universale che porta avanti il mondo occidentale, a partire dagli 89isti della Francia che invadono l’Italia, e che però impatta dentro società che hanno propri ritmi e consuetudini che non sono necessariamente negative. Non puoi esportare un modello democratico in una società tribale, dove i meccanismi di decisione sono diversi. Non esiste l’universalismo. Esiste una gerarchia che ha a che fare anche con l’età, con l’esserci prima, con la parentela. 

Questa storia mi lascia perplesso. Leggendo Arendt, Le origini del totalitarismo, c’è una sezione dedicata alla nascita del razzismo nella società inglese. Una forza politica nascente come quella laborista sposò il colonialismo come l’esportazione in un mondo nuovo di un modello di società che non ripeta gli stessi errori di quello che loro stanno combattendo. I primi esportatori di civiltà sono gli umanisti e gli umanitari. Poi, c’è modo e modo. Il tatto dimostrato dalle missioni italiane è tutt’altro rispetto alla cecità americana. Va detto che noi possiamo permetterci di recitare la parte dlpoliziotto buono perché siamo coperti da quello cattivo. 

Il dibattito è paralizzante. L’alternativa ad un universalismo potenzialmente ipocrita qual è? Il relativismo culturale, e con esso l’abiura di sé stessi?

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