Questa quarta storia di Brando Costa, avventuroso commis di Stato, conosce una ancor più lontana geografia. Partito da Roma e dagli oleandri profumati di Sicilia, Brando si è poi innamorato di Bruxelles e dei suoi cieli magrittiani per scivolare in anni a noi più vicini lungo il tappeto ghiacciato della Nevskij Prospekt a Pietroburgo. Per dirvi e capire però perché ora in questa nuova puntata lui si trovi a Kabul dovremmo forse cercare aiuto e conforto nei meccanismi che comandano la scrittura e nei suoi attrezzi. Pretendendo assai, a Napoli direbbero così, da noi stessi (incontentabili e incontenibili?) per spiegare e spiegarsi da dove nascono le storie, questa mia, in particolare. E perché.
C’è per certo bisogno di un gancio o di un’illuminazione per appendere e accendere l’inizio del racconto. Ma poi, tutto intorno, andrà costruito un orizzonte popolato di persone, luoghi e oggetti da mettere in ordine. Scontando quel va-e-vieni della memoria che ti assale e disturba, ma arricchisce anche, la linearità della storia tirando fuori dalla miniera scura dei ricordi qualche lampo di ingegno. Che renda il raccontare meno piatto.
E ancora mentre questa favola mi scorre tra le mani navigo nel presente e nelle sue distrazioni. Scrivo a mia nipote un whatsapp che sa di appuntamento, condivisione, ma anche di pensiero-regalo. Chissà che non sogni di affidare a lei il ricordo di me, una volta inghiottito nella grande biblioteca dei libri senza nome che ci prepara il destino. E spunta il passo lento e sofferto di mio nonno, lungo la via XX settembre; gli incontri e il salutarsi cerimonioso tra conoscenti: “le presento il sindaco di Genova!” fa lui che una tosse notturna non abbandona mai. Le nostre mani la sera sbucano dai due letti affiancati per toccarsi appena prima di spegnere la luce. Rassicuranti per me. Per poi parlarmi – il corpo stanco e pesante, affonda ormai nel cuoio lucido della poltrona – in quei suoi pomeriggi d’inverno, di buio e di silenzi, di soldi. In preda di pensieri accesi solo di nostalgia. Perché si fa tenue ormai e ti abbandona fioca anche la luce delle stelle morte del passato. Così non sia per me.
Sapevi già tutto e invece ora ti accorgi che non sai e che il racconto deve ancora crescerti addosso. Gli è che quando mi infilo dentro alle cose che non so (e sono moltissimissime) e mi scatta quella che un mio amato autore chiamava rilevanza, allora, come tutte le bilance zodiacali, finto-distratte, ci vado così dentro da subire un’attrazione-coazione che a volte può anche essere rischiosa. Poi per fortuna stacco. E guarisco, fino a una nuova dipendenza. È stato così per il collezionismo di scatole di sigarette e di lattine di birra, per i manifesti di mostre e di cinema; i vhs, la linguistica e la semiotica, le sociologie della vita quotidiana, le cravatte e i graffiti metropolitani, l’etnometodologia, i profumi, la fotografia, la scrittura, le scarpe e la politica. Forse anche per i colori: l’arancio a un certo punto.
Ma poi proprio per caso, ascoltando la radio, mi arriva il blu. Nemmeno troppo originale come suggestione. Eppure me ne convinco. Parlo di quello che chiamano oltremare e che viene dall’Afghanistan. Che fosse usato come pietra o come pigmento colorato, nelle decorazioni delle tombe d’Egitto di cinquemila anni fa, o nei manti delle madonne rinascimentali, quel blu proviene, fin dalla notte dei tempi, dalle miniere afghane del lapislazzuli scavate nelle montagne del Badakshsan, che è poi il Balasciam di Marco Polo, oggi l’Afghanistan. Per raggiungerle devi partire da Fayzabad, capoluogo della provincia nordorientale, punti poi a sud-est seguendo il corso del fiume Kokcha, dentro una valle dai fianchi stretti, lungo una strada accidentata. Una volta raggiunto il paese di Sare-Sang, la grande fatica è premiata dalla vista e dal riverbero – che quasi ti abbacina – di questi blocchi di pietra azzurra portati a valle da uomini carichi come muli per arricchire oggi alcuni “signori della guerra” che si contendono da decenni il controllo del territorio.
Ecco, se cerco il gancio di questa storia lo trovo proprio qui, in questo colore (e nel titolo che lo richiama, scelto tempo fa per un libro. Invano). Lo trovo in questa pietra che mi rimanda a un luogo. E il luogo a un dialogo e insieme a un’amicizia. Ma perché proprio Kabul? Potrei rispondere: perché almeno ci sono stato e in qualche modo il racconto poggerebbe così su di una base più solida (ma allora Salgari?). Appunto, non basta. Allora e anche forse perché la città evoca una lunga storia di conflitti e il nostro Paese vi è assai più coinvolto di quanto non si immagini (per non parlare poi dei preziosi reperti di una civiltà antica che abbiamo contribuito a ritrovare come pure a salvare). Ma poi per ragioni anche mie. Per avere anche visto tante cose con gli occhi di un amico che ora non c’è più.
Il bello è che Kabul al tempo di questa vicenda è in pieno marasma. Gli Americani la stanno vergognosamente abbandonando e i Talebani, i turbanti neri, stanno ritornando. E io finisce che ci sto andando – così vuole la storia – in un momento che più sbagliato non è. Tanto che il racconto potrebbe cominciare così:
– Lei non ci crederà ma c’è una cosa che ci lega all’Afghanistan. Se le dicessi per esempio: Cappella degli Scrovegni?
– Dovrei andare in cabina per rispondere.
Mi concedo questa battutaccia per far capire al mio interlocutore che brancolo nel buio.
E lui allora, con un piccolo colpo di tosse:
– La aiuto. Il cielo della volta della cappella affrescata da Giotto, a Padova, è di un colore intenso, straordinario e prezioso.
– C’entra per caso il lapislazzuli? Che io sappia il suo peso costava l’equivalente in oro.
– É così: quel blu d’oltremare viene dall’Afghanistan (“il manto azzurro o l’azzurro rappresentano di per sé la trascendenza”) ed è talmente costoso, Albrecht Dürer ad esempio se ne lamenta in una lettera al suo mecenate Jacob Heller, che verrà poi abbandonato. E ci si dovrà accontentare di altri pigmenti più a buon mercato: l’azzurrite o il blu egizio). E a riprenderlo con coraggio penserà Raffaello, due secoli dopo Giotto: per la veste di Giunone nel Trionfo di Galatea alla villa Farnesina.
– Che si trova a Trastevere, se non sbaglio, fatta costruire da un ricco banchiere, e mecenate, Agostino Chigi.
Mi guarda, compassionevole, per questa mia ovvietà poi si ricongiunge alla levità di cui sta dando prova e passa sopra quest’interruzione non richiesta:
– …E userà questo blu di lapislazzuli, antico pigmento, per colorare i cieli, il mare e la sfera degli occhi dei personaggi dell’affresco. Ma oggi ce ne interessiamo per un altro motivo…
– Per cosa?
– Secondo l’inchiesta di Global Witness ci sono le prove che «Le miniere del Badakhshan sono una priorità strategica per il cosiddetto Stato Islamico». Nell’area infatti opera la banda dell’Islamic State of Khorasan Province (IS-K), affiliata al Daesh siriano-irakeno.
– Perdoni ambasciatore, continuo a non capire
– …forse perché ancora non ho realizzato se per caso non le manchi un passaggio.
Il diplomatico esita un poco, poi con i palmi delle mani raccolti quasi a voler dare vigore a quanto sta per dire, va giù diretto:
– Ma gli Americani non le hanno detto niente?
È Umberto Margini il nostro ambasciatore in Afghanistan a intrattenermi. Ho appena attraversato una siepe umana che non esita ad aggrapparsi disperata persino agli aerei in decollo, qui a Kabul. Ma poi, ancora non so come, sono arrivato qui, in questa calma surreale, nella sua residenza. Per fare cosa non è facile a dirsi. Del resto nemmeno io lo so ancora, almeno con precisione.