Una valanga: è questa la prima immagine che viene in mente di fronte agli ultimi, drammatici sviluppi in Afghanistan. A pochi mesi dall’annuncio del ritiro americano, cinquantamila talebani calati dai monti si sono abbattuti come l’ira di Dio sui villaggi e le città a valle avanzando a passo di corsa, decine di chilometri al giorno. Dietro si sono lasciati mucchi di cadaveri, donne violentate, bambini rapiti e una reputazione da far impallidire gli Unni. Alla fine hanno preso Kabul. Il governo è collassato, l’Esercito Nazionale Afghano non ha combattuto né si è arreso: i mujahideen giustiziano chi alza le braccia e così i soldati dell’ANA, addestrati, armati e di fatto pagati dall’Occidente, hanno smesso le uniformi e sono andati ad ingrossare il fiume in piena dei rifugiati che scappano dalla capitale. Sono vigliacchi, non stupidi.
Dall’ambasciata USA dicevano che gli studenti sarebbero arrivatientro tre mesi, ma con l’ordine di evacuazione già diramato a tutti i cittadini statunitensi e i Marines pronti a partire l’impressione, corretta, era che l’Afghanistan non potesse reggere più di tre giorni. Tocca andarsene, e di corsa: è la conclusione di un disastro annunciato. Non si contano i generali e gli analisti che avevano preconizzato lo scenario vietnamita di una guerra a bassa intensità, senza obiettivi e impossibile da vincere; il pantano è stato il destino ultimo di (quasi) tutte le operazioni di controinsurrezione, dalla Spagna napoleonica al Sudest Asiatico passando per la Fortezza Europa di Hitler. Lo stesso Afghanistan ha respinto ogni invasore, forte di un’estensione vasta e di una geografia impervia, ideale per la guerriglia; prima degli americani dovettero impararlo a loro spese sovietici e inglesi.
Si sapeva. E ciononostante, coloro che avevano sottolineato le criticità strategiche dell’intervento hanno finito per essere le Cassandre di questa vicenda, sovrastati dal volere del Dipartimento di Stato e delle cancellerie europee al suo seguito. Scriveva Von Clausewitz in Della Guerra che “la guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi”, e la linea politica la dettava D.C.; dopo vent’anni di occupazione internazionale, quale sia lo scopo politico che si è perseguito rimane però incerto. Rovesciare il regime talebano e assicurare Bin Laden alla giustizia? Garantire la sicurezza regionale e privare l’islamismo militante della sua principale base operativa? Esercitare un’influenza diretta sull’Asia Centrale in funzione anticinese?
La risposta all’interrogativo di fondo è che, per un verso o per un altro, tutti questi propositi facevano parte dell’agenda di Washington e della Coalizione in Afghanistan; ed è innegabile che tutti siano stati, seppur con tempistiche nettamente diverse, realizzati. Tuttavia, la preservazione sul lungo periodo dei traguardi raggiunti presupponeva per forza di cose la creazione di uno Stato afghano, a meno di non negare l’indipendenza del Paese, e quindi contravvenire alla Carta ONU – svuotandola peraltro di ogni legittimità, visto che nel teatro afghano sono stati presenti tre membri del Consiglio di Sicurezza su cinque – o di essere disposti a restare a tempo indeterminato. Non solo: dotare l’Afghanistan di istituzioni ed infrastrutture moderne era in sé un obiettivo, per giunta il solo che agli occhi dell’opinione pubblica giustificasse l’invasione.
È il paradigma del nation building: mettere su uno Stato dove non ce n’è uno. Nella prassi questo ha significato formare un governo e farsene garanti; assisterlo nella stesura di una costituzione; sorvegliare la democratizzazione. Il tutto sullo sfondo di un processo di ricostruzione (termine improprio, da distruggere c’era poco in primo luogo) di proporzioni bibliche, interamente finanziato a fondo perduto: ci sono voluti più soldi di quelli del Piano Marshall perché sulla sabbia e le rocce del Regno di Mezzo facessero la loro comparsa strade, ponti, scuole ed ospedali. Dietro questa bella facciata di cemento e asfalto, però, l’Afghanistan liberato è sempre stato un guscio vuoto; uno Stato, sì, ma senza una Nazione, un comune sentire in grado di fare da sintesi delle singole istanze etnico-tribali. Ad unire gli afghani c’è la comune fede maomettana e poco altro: terreno fertile per quell’identitarismo religioso che è la linfa vitale della jihad.
Spettava alle autorità di Kabul fornire un’alternativa laica convincente; hanno fallito, screditate agli occhi della popolazione dalla loro vicinanza alle potenze straniere e per questo incapaci di esercitare su di essa alcuna influenza di rilievo. I talebani ne hanno prontamente approfittato, legittimandosi nonostante la cocente sconfitta subita nel 2001 fino a poter imporre-grazie anche alle vittime civili causate dagli occupanti-una propria narrazione del conflitto come lotta (islamica) di liberazione reminiscente dello scontro con l’URSS. Il prevedibile risultato è stato un indebolimento del potere reale dell’esecutivo e, per riflesso, degli apparati cui quest’ultimo faceva capo: primo fra tutti l’esercito che, decimato dalle diserzioni e infiltrato dal nemico, nulla ha potuto di fronte all’intensificarsi dell’insurrezione integralista.
L’effetto è stato quello del domino. Costretti a posticipare il rientro, gli Stati Uniti e i loro alleati hanno cercato di reagire al deterioramento della situazione lanciando una serie di grosse offensive volte a strappare definitivamente il controllo del territorio ai talebani e investendo in uno sviluppo che speravano venisse identificato col governo locale, rafforzandone così la posizione traballante. Ma l’assenza di risultati militari tangibili e la sempre maggiore pressione per un ritiro hanno fatto sì che quella che avrebbe dovuto essere un’operazione simpatia di dimensioni relativamente contenute divenisse de facto la strategia adottata in Afghanistan: coprire le nudità dell’imperatore coi soldi. Tanti, tanti soldi. Nel 2002 il Congresso aveva stanziato trentotto miliardi di dollari in aiuti; nel 2018 risultava ne fossero stati spesi centoventisei, comunque una frazione minuscola degli oltre due trilioni sborsati in totale dal contribuente americano.
Cifre difficili da immaginare, e ancor più da tracciare; non sorprende che qualcuno abbia cercato di prendersene una fetta. L’afflusso di denaro estero ha generato e alimentato un fenomeno di corruzione dalla portata impressionante, in grado di minare le fondamenta del sistema-Paese e impedire agli afghani di affrancarsi dalla curatela politica, militare ed economica occidentale, precipitando una spirale discendente che ci ha infine condotti dove siamo adesso. Bisognava uscirne, o la nostra sarebbe divenuta una presenza perpetua, utile solo a tenere al loro posto i rapaci potentati della capitale. L’Afghanistan post-2001 era insomma nato prematuro: l’abbiamo tenuto in vita noi, restii ad affrontare il fatto che una volta andati via i nostri soldati sarebbe stata solo una questione di tempo prima che venisse giù tutto. D’altronde quella della campagna afghana è una storia di fatti ignorati; e così perfino ora, davanti all’ineluttabile, si levano da ogni parte le voci di quanti vorrebbero che restassimo contro ogni logica.
Gli eventi degli ultimi vent’anni qui descritti lasciano il posto al colpevolismo facilone dei soliti noti per cui la responsabilità della débacle, tutta, è nostra. Per una volta hanno ragione: siamo noi che ci siamo illusi di poter vincere dove nessun altro c’era riuscito prima e convertire alla democrazia un popolo di analfabeti e pederasti. Non si è trattato di hubris, ma di ottusità ideologica. Riconoscere il fallimento dell’intervento umanitario avrebbe significato a sua volta dover mettere in discussione i meriti del modello politico che lo ha espresso, quell’internazionalismo americano di matrice wilsoniana che, incontrastato, dal 1989 tiene banco nella diplomazia globale. E soprattutto accettare che forse l’idea che vi sottende, quella per cui bastano una tessera elettorale e un assegno in bianco a riscattare dalla barbarie un’umanità derelitta, non è che una fantasia puerile. Troppo, per le nostre fragili coscienze; meglio piuttosto rifugiarsi nella consuetudine del pietismo melenso e, armati della solita retorica sentimentale, proseguire il conflitto con la realtà.
Perché è in definitiva alla realtà stessa che abbiamo mosso guerra: ogni colpo l’abbiamo esploso contro l’intima consapevolezza che alla fine quella terra e quella gente ci avrebbero rigettati come un corpo estraneo. Alla promessa della libertà e del mercato aperto, alla Coca Cola e ai blue jeans, gli afghani hanno sempre preferito la tradizione della sharia edel burqa, la frusta e le pietre, o semplicemente una comoda indifferenza. In ogni caso, l’epilogo di questa tragedia era già scritto; con o senza di noi, il nostro denaro, il nostro sangue, l’Afghanistan sarebbe diventato un califfato. Se lo tengano pure, è autodeterminazione anche questa. Quanto a noi, dovremo fare i conti col fatto che la realtà ci ha battuti, e che soprattutto ha battuto la nostra visione del mondo; per ora siamo impegnati ad autoflagellarci. Tempo al tempo, ne verrà fuori un’altra guerra delle perle ai porci; e quando sarà finita male come questa (probabilmente peggio), saremo lì pronti a scrivere di nuovo che noi l’avevamo detto. Magra consolazione.