Di interferenze all’interno della multinazione afghana non se ne parla: i Talebani, su questo punto, sono stati intransigenti sin dal principio – il vero principio, cioè quello del mullah Omar – e hanno costretto la Turchia ad abbandonare il proposito di autoinvestirsi del diritto di controllare l’aeroporto internazionale di Kabul.
Perché quando si tratta di preservazione della sovranità nazionale, i Talebani ne sono la prova, non c’è parentela etnica o religiosa che tenga. Falliti i tentativi di agitare le bandiere del sunnismo e dell’islam politico – che la Turchia, in combutta con gli Stati Uniti, sperava di esportare in Afghanistan via Fratellanza Musulmana –, Recep Tayyip Erdogan non ha potuto che accettare (a malincuore) la realtà dei fatti: mantenere un dispositivo militare a Kabul significa guerra. E di guerra, qui, dopo vent’anni, non ne ha più voglia nessuno. Meno che mai la Turchia, che sull’immagine di potenza-guida del mondo islamico ha puntato in maniera crescente a partire dal 2010 e che, dunque, non può permettersi passi falsi.
Erdogan, ad ogni modo, ha optato per l’annullamento di quel piano – maliziosamente suggerito dall’amministrazione Biden, alla quale una Turchia impantanata in qualche sabbia mobile non dispiacerebbe affatto – anche per un’altra ragione: inimicarsi i Talebani equivale a giocarsi l’amicizia (ritrovata) con il Pakistan, tanto matto per le serie televisive neo-ottomane made in Turkey – le dizi – quanto legato indissolubilmente agli studenti del Corano per ragioni di profondità strategica – un Afghanistan talebano significa, tra le varie cose, messa in sicurezza del Belucistan e proiezione sul Kashmir.
Gli eventi successivi, comunque, hanno giocato a favore della Turchia, che dal caos afghano sperava di capitalizzare (geo)politicamente e che, forse, potrebbe riuscire nell’intento. Come? Strumentalizzando la crisi migratoria in divenire allo scopo di attivare un nuovo gioco del ricatto con la debole, miope Europa, la cui dirigenza non sembra aver capito che l’ascesa talebana potrebbe innescare un esodo di proporzioni bibliche. Negli ultimi otto mesi più di 550mila afghani hanno abbandonato la propria dimora per paura dell’ascesa dei Talebani (fonte: Nazioni Unite) e una parte di essi, non si sa bene quanti, si è diretta verso l’estero. Altri li stanno seguendo. Molti altri seguiranno. E mentre l’Unione Europea si divide sulla questione migrazione, con i suoi politici che, da Nord a Sud e da Ovest ad Est, sembrano non saper distinguere tra le entrate illegali di migranti economici e profughi – e gli afghani, tutti, sono profughi –, tra l’Anatolia e la Persia sta accadendo qualcosa di tremendamente significativo: l’ammassamento degli afghani in fuga dai Talebani.
La Turchia, nonostante i duri proclami anti-immigrazione – emblematizzati dall’apertura di un cantiere di un muro divisivo ed ultra-tecnologico al confine con l’Iran – sta chiudendo gli occhi (uno o entrambi?) sugli sconfinamenti illegali di orde di afghani al proprio interno – le stime vanno dai cinquecento ai duemila ingressi giornalieri. L’Europa, in luogo di discutere del sesso degli angeli, ha il dovere di agire. Perché le linee dure caldeggiate da Sebastian Kurz ed Emmanuel Macron vanno bene soltanto per tranquillizzare la pancia degli elettorati di destra. Perché se dovesse esplodere una nuova crisi dei rifugiati, la prima vittima non sarebbe l’Italia, ma l’Unione Europea nella sua interezza. La crisi dei rifugiati dello scorso decennio ci ha illuminati su quanto sia relativamente facile e veloce transitare dall’Anatolia alla Rumelia e, non meno importante, su quanto sia costoso chiudere quel rubinetto che perde a piacimento.
Perché oggi come ieri, accogliendo intelligentemente delle masse spaventevolmente enormi, la Turchia sta scommettendo sulle potenzialità destabilizzanti della strategia della militarizzazione dei flussi migratori. Ieri, ed ancora oggi, sono stati i siriani, che alle casse di Ankara hanno fruttato miliardi di euro, permettendo ad Erdogan di trattare con Bruxelles da una posizione di forza su una varietà di fascicoli. Domani, viene da chiedersi, saranno gli afghani?
Per nulla trascurabile è il fatto che, da diverso tempo, vadano rincorrendosi le voci di un presunto accordo sottobanco tra Erdogan e Joe Biden, incentrato proprio sulla questione migrazione. La domanda, in questo caso, non può che essere una: confini aperti e accoglienza a oltranza in cambio di cosa? La risposta potrebbe essere questa: nonostante la retorica europeista di Biden, gli Stati Uniti continuano a ritenere la Turchia un ariete multivettoriale con cui contrastare i russi nel Caucaso e nel Mediterraneo, sabotare la BRI in Asia centrale e schiacciare la debole Europa, che, sia mai, un giorno potrebbe risvegliarsi dal coma poststorico su spinta franco-tedesca. Un giochetto vecchio come il cucco, che gli Stati Uniti hanno imparato dall’osservazione attentivo-mnestica della storia dei rapporti tra Europa e Sublime Porta.
Memori della recente esperienza del ricatto di Erdogan sui migranti, che a Bruxelles è costato sia soldi che potere negoziale, i dirigenti europei dovrebbero agire ora in un’ottica di prevenzione. Debbono, cioè, evitare che questo esodo in divenire possa essere utilizzato da Ankara per minacciare (di nuovo) la stabilità del Vecchio Continente. Il tempo scorre come sabbia in una clessidra e l’Europa non ha molto tempo prima che gli afghani diventino un’arma di distruzione di massa, come furono i siriani a loro tempo.