OGGETTO: Una Piaggio turca e un Tolkien italiano
DATA: 31 Dicembre 2024
SEZIONE: Società
AREA: Italia
Se in Italia nemmeno la cultura nazionalista riesce ad esser italiana, malgrado gli sforzi che da anni molte piccole realtà compiono contro le oceaniche e irresistibili ondate del progressismo globale, figuriamoci il mantenimento dei campali segmenti industriali della Nazione. Tolkien vate italiano, Piaggio ai turchi e Kerschbaumer eroe dell’Alto Adige.
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Nell’ultima visita natalizia ai militari della forza azzurra di stanza in Lituania per la Nato Baltic Air Policing, la Meloni ha parlato per voce di Tolkien recitando un passaggio di Faramir: «Non amo la lucente spada per la sua lama tagliente, né il guerriero per la gloria, né la freccia per la sua rapidità, amo solo ciò che difendo. Non si sceglie di essere un soldato per odio, si sceglie di essere un soldato per amore, non perché si ama la guerra ma si sceglie di essere un soldato perché si ama la patria e quella patria ha bisogno di essere difesa».

Malgrado dal settembre del 2022 una solida coalizione di Destra, con dominanza di connotati nazionalistici, governi la Penisola e malgrado gli sforzi culturali di produzione, pubblicazione ed esposizione che da decenni molte case editrici indipendenti compiono sugli aedi del passato italiano, FdI continua a sostenere Tolkien come autore di riferimento della gioventù di Destra e della catarsi che avrebbe contribuito a vivere e godere nei duri anni di piombo, m’ancor più nei successivi.

La fascinazione per Tolkien e per il suo capolavoro ha radici lontane. Nell’aprile del 1975 è Marco Tarchi, celebre esponente del Fronte della Gioventù poi politologo, a portarne il verbo sulla dissacrante, da lui diretta, Voce della Fogna: «Il libro più fantasmagorico che ci sia mai capitato tra le mani». Umberto Croppi, che poi lascerà la Destra sociale per un percorso “ideal-radicale”, avrebbe annotato più avanti: «Ci accorgemmo che offriva la chiave per una via d’uscita dalla retorica del neofascismo», come rammenta Repubblica.

Ottima tattica, forse, per quegli anni difficili, nei quali era quasi impossibile esporre un tricolore pubblicamente, salvo in caso di scudetto o di nazionale di calcio, ed altrettanto per nuclei più o meno ribellistico-giovanili, comunque ancillari all’emanazioni istituzionali. Un po’ meno oggi e comunque lontana da ciò sul quale dovrebbero poggiare i nazionalisti. Già la scelta d’intitolare il Ministero delle Imprese e del made in Italy, al battesimo di Governo, destò qualche dubbio, forse avrebbe avuto più senso «del prodotto italiano». Certamente questa posizione manifestata in più occasioni, dall’augurio della sorella della Presidente del Consiglio alle celebrazioni di Atreju, è veramente sentita e vissuta con affetto dagli esponenti della Destra sociale italiana.

Tutto ciò non sorprende perché, come hanno replicato molti organismi di stampa, Il Signore degli Anelli fosse di culto tra le fila dei “figli dei fiori” nei Sessanta e nei Settanta e fra i preferiti degli appassionati di storie fantastiche successivamente, bensì perché Tolkien non ha nulla a che vedere con la Penisola e la sua madre patria è stata ed è un avversario geopolitico di Roma, al di là degli errori d’interpretazione eventuali sul piano letterario che contano meno in questa riflessione.

John Ronald Reuel Tolkien, nato in terra sudafricana, vuole dare una mitopoiesi alla cultura nazionale britannica. «Fin da quando ero piccolo la povertà del mio amato paese mi rattristava: non possedeva delle storie veramente sue. […] Desideravo creare un insieme di leggende più o meno connesse fra loro, dalle più complicate e cosmogoniche fino alle favole romantiche… e volevo semplicemente dedicarle all’Inghilterra, al mio paese» è ciò che appare nel volume vergato dal figlio Christopher Tolkien, dal biografo inglese Humphrey Carpenter e curato in Italia da Bompiani. Ciò la dice lunga sull’inconciliabilità e quasi l’antitesi tra un movimento che non vuole esser soltanto partito e questo filamento di letteratura. Non basta, anche le posizioni dello stesso autore legate a quel conservatorismo elitario dell’Inghilterra imperiale, britannica, sono contrarie all’esaltazione della giovinezza e della modernità da dominare, seppur nel solco delle tradizioni.

Si sprecherebbero gli autori utili a ricostruire i miti e i simboli dal patriottismo al nazionalismo: da Asinari di Bernezzo a Mario Morasso, da d’Annunzio e Marinetti, piuttosto che Corradini e Papini – almeno il primo, fino alla conversione cattolica – o ancora Giovannino Guareschi. Seppur completamente diversi fra loro: sul piano del pensiero, della condotta e del temperamento come dell’estrazione sociale, potrebbero (dovrebbero?) albergare almeno di tanto in tanto nelle orazioni del Primo ministro e sodali di Governo, prim’ancora dell’insegnamento se il fine è quello, come dichiarato più volte, di disarticolare l’egemonia culturale della Sinistra in tutte le sue declinazioni e forme.

Nel frattempo, in Italia, in Alto Adige, il Südtiroler Heimatbund (partito indipendentista tedesco) fa affiggere, e non è la prima volta, manifesti celebrativi il terrorista Kerschbaumer per il sessantesimo anno dalla morte, come segnalato dalla Rai il 5 dicembre scorso, e questo fatto narra di quanto bisogno di ricostruzione nazionale e d’assimilazione ci sia, senza nemmeno spingersi sul nodo immigrazione; altro che Tolkien.

Il 28 dicembre appena trascorso, poi, è grandinata la notizia che ancora un altro pezzo d’industria strategica nazionale, di natura anche militare, ha lasciato il territorio nella programmazione e nella pianificazione, dopo sei anni d’agonia.

Il ministro delle Imprese e del made in Italy (sempre più magro e “anglofonizzato”) Adolfo Urso è parso contento, come riporta Agenzia Nova: «Dopo sei anni di attesa ridiamo un futuro a Piaggio Aerospace, un asset strategico per il nostro Paese, con una prospettiva produttiva di lungo periodo, salvaguardando complessi aziendali e forza lavoro». Esatto, un segmento strategico sotto il controllo e l’eventuale tallone altrui: uno Stato che, dettaglio, si pensa impero a scapito di tutti i vicini, anche di quello italiano.

I turchi, oltre che proiettarsi dal litorale tripolitano dal 2019-20 e magari favorire pure i flussi della migrazione dal Sahel attraverso Gat e il Fezzan libico, già in passato erano approdati in Italia inserendosi quella volta nella logistica portuale di Taranto, uno dei due porti militarmente strategici più rilevanti per Roma insieme alla Spezia-Muggiano ed Augusta; insieme a cinesi di Cosco.

Il gruppo Yildirim, nella sua filiazione societaria Yilport Holding, nel luglio del 2019 formalmente, firmando l’accordo con l’autorità portuale, ma sostanzialmente nello stesso mese dell’anno successivo acquistò parte dei terminali tarantini successivamente aver puntellato già nel 2011 l’isola di Malta nel porto di Marsa Scirocco. «L’interesse turco è di creare vere e proprie «fortezze» marittime commerciali nei paesi di riferimento», come precisamente commentò in quell’occasione l’analista Alessandro Panaro per Limes.

Al di là della scarsa contezza sulla diplomazia dell’industria e delle acquisizioni tipo Monopoli e sui piani dei “vicini di casa” sulle zone contigue e proprie, della consueta abitudine italiana nel superare il punto di non ritorno di decadimento di un’area produttiva o un complesso e dover accettare l’ingerenza straniera per salvarsi, l’intervento turco non ha nemmeno dato i frutti sperati, come riporta Shipmeg: all’inizio di dicembre di quest’anno, “i fratelli Yildirim” si sono separati, quindi se ne va una parte di capitale, e nel ricalcolo imprenditoriale i 1800 metri di banchina del molo polisettoriale è al momento fermo. Anche l’autorità portuale ha chiesto chiarimenti che al momento non sono giunti dalla nuova Yildirim. Alla stessa maniera, già nel 2016 la società di terminali Global Ports Holding, sempre anatolica, acquisì la maggioranza delle quote della gestione crocieristica catanese: la Catania Cruise Port etnea.

Roma, Ottobre 2024. XX Martedì di Dissipatio

Nonostante ciò, anche la delegata regionale ligure Stefania Pucciarelli, tornando a Piaggio, s’è detta soddisfatta: «[…] Baykar si è impegnata a mantenere e potenziare sia le attività di produzione di aeromobili – compresi i relativi servizi di supporto tecnico, logistico e di formazione – sia le attività di manutenzione motori e di produzione di componenti motoristici. Attendiamo adesso la programmazione industriale che ne rappresenti gli obiettivi di crescita e i relativi investimenti per lo sviluppo dell’azienda e dell’intero territorio». Beh, difficile pensare che una società ne acquisisca un’altra legata alla Storia di quel territorio e di quel Paese e dichiari di voler smantellare tutto quanto. S’aggiunga poi che a quel Paese sta sottraendo industria strategica. Inoltre, pare non vi sia ancora alcun dettaglio della pianificazione e quindi non v’è certezza su molti elementi.

Dall’altra parte della barricata politico-partitica, Movimento 5 Stelle e Partito Democratico si sono reinventati attenti strateghi. Cominciando dai primi, i capigruppo di Senato e Camera per la Difesa Bruno Marton e Marco Pellegrini hanno detto sulla vicenda, come riporta Agenparl: «La cessione di Piaggio Aero alla turca Baykar preoccupa non solo per le possibili ricadute occupazionali, su cui il governo dà garanzie che però potranno arrivare solo dal piano industriale, ma anche per la vendita di futuri droni “made in Italy” a Paesi in guerra attraverso la Turchia. Una preoccupazione motivata dalla spregiudicata politica commerciale internazionale dell’azienda guidata dal genero di Erdogan e dalla volontà del governo Meloni di riformare la legge 185/90 per limitare il potere di controllo del Parlamento sull’export bellico nazionale». Che cosa cambia per un partito contrario in assoluto alla spesa militare per le necessità di Roma? Da quella per gli F35, ai rifornimenti in Ucraina?! Non dovrebbe rappresentare un dramma la cessione d’un segmento di produzione bellica.

Dal canto suo il Pd, per voce dei senatori Alberto Losacco e Simona Malpezzi ed altri componenti dell’assemblea parlamentare per la Nato, s’è espresso con le seguenti parole: «Una realtà storica come Piaggio Aerospace passa oggi in mani straniere e il “ministro Patriota”, invece di favorire una soluzione italiana alla crisi aziendale, benedice l’operazione, con buona pace di un settore della difesa nazionale che perde un pezzo importante». Persino Il Manifesto urla alla sconfitta strategica nei confronti d’un diretto avversario, accusando l’Esecutivo di tradimento dell’interesse nazionale. «Nel pieno del boom della produzione di armamenti, l’Italia cede al genero del leader turco Erdogan uno dei suoi pezzi pregiati in fatto d’industria della Difesa». 

Ankara ragiona come Washington e Pechino, le società e le aziende strategiche, ovvero: navigazione, traffico marittimo, estrazione risorse, logistica, crocieristica e trasporto e gestione turistica del mare sono importanti per esprimersi, contare e imporsi sugli specchi d’acqua. Le capacità aeree che riguardino il traffico civile, si pensi a Turkish Airlines che smista quasi tutto il traffico fra Europa e Asia-Africa, giocando sempre su quella posizione e ruolo di cerniera della Turchia, oppure la produzione militare, i circuitanti Bayraktar Tb2, chiudono il cerchio della manovra d’avvolgimento diplomatico-produttivo-logistico dell’Impero ottomano. La produzione aeromilitare vale ancor più da quando Ankara, nell’aprile del 2023, s’è dotata della prima portaerei, la TCG Anadoglu.

L’Italia continua ancora ad esser in balia delle proprie paure, dei propri fantasmi del passato (presunti o reali che comunque non contano più); delle sue improvvisazioni e delle sue soluzioni dell’ultimo minuto, quando ormai la polvere non si riesce più a celare sotto al tappeto. Dei suoi strilli isterici di partito, validi alla giornata per quattro consensi, nella tombola del toto elezioni perenne.

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