OGGETTO: Tutte le fatiche del made in Italy
DATA: 19 Ottobre 2023
SEZIONE: Economia
AREA: Italia
Se negli ultimi anni l'espressione è entrata prepotentemente nella retorica nazionale italiana, in pochi ancora comprendono cosa essa rappresenti.
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L’attuale governo, ma si potrebbe dire lo stesso anche dei precedenti, fin dall’inizio ha fondato parte della propria legittimazione elettorale sul concetto di Made in Italy, inteso quale sinonimo di tutte le virtù del nostro sistema imprenditoriale, quando non la prova di una presunta superiorità del genio italiano. Frutto di malintesi e strumentalizzazioni, questo discorso ha rappresentato, e continua tuttora a farlo, un’arma efficacissima per fomentare quella parte dell’opinione pubblica sensibile ai richiami identitari.

Quando si è parlato di istituire il liceo del Made in Italy, (un vero e proprio percorso di studi con l’obiettivo di formare giovani capaci di comprendere e valorizzare i prodotti italiani nel mondo) in molti sobbalzarono dalla sedia, chiedendosi se quel progetto fosse solo nelle intenzioni di qualche esponente della maggioranza o il tentativo di alimentare un immaginario simbolico più che mai utile nella logica del consenso. Le ultime notizie parlano di una prima versione del Ddl approvata dal Consiglio dei ministri lo scorso maggio ma attualmente in standby.

Tutti questi elementi sembrano suggerire la necessità di imprimire un nuovo corso nei settori trainanti dell’economia nazionale (design, moda, cibo etc.) che, a cascata, interessano tanto i rapporti con altri paesi quanto l’immagine e la narrazione dell’Italia all’estero.

Se, dunque, le finalità sono chiare, più difficile è la messa a fuoco di cosa realmente sia il Made in Italy, divenuto ormai più un brand di facciata che una certificazione di qualità.

Negli ultimi anni, da prospettive diverse, le pubblicazioni dedicate al tema si sono moltiplicate e ciascuna ha tentato di storicizzare, sgombrare il campo, illuminare questo o quell’aspetto di un argomento irriducibile a etichette di comodo. Vediamone alcune.  

Elena Dellapiana, studiosa di architettura del Politecnico di Torino, in Il design e l’invenzione del Made in Italy (Einaudi, 2022) conduce un’indagine di ampio respiro soffermandosi su come un marchio d’origine sia diventato un brand dall’influenza globale capace di fondare miti e narrazioni ossessive.

Nel suo studio, l’autrice segue tre direttrici: un approccio interdisciplinare sul tema dell’italianità; uno più strettamente storiografico, che muove dalla cosiddetta “invenzione ottocentesca del Rinascimento” fino al glamour degli anni Ottanta del Novecento; infine, abbracciando un punto di vista spaziale dove lo sguardo viene rivolto al Mediterraneo, all’Atlantico e al Nord Europa. 

Una disamina che aiuta a comprendere non solo il lungo processo che, fin dalle esposizioni universali del XIX secolo, ha collocato il prodotto italiano al centro dell’attenzione generale, ma anche quanto la stessa nozione di Made in Italy, specie nel design, sia «qualcosa di impalpabile quanto potente, condiviso in tutto il mondo e sinonimo di eleganza e della magica alchimia tra innovazione e tradizione».

Oggetti e arredi per la casa, abiti, scarpe e borse, auto e motocicli, cibi raffinati o in scatola, ma anche atmosfere e stili di vita: tutto rientra nel disegno più ampio di dare «prestigio alle merci sul mercato globale» e ciò non può che essere «oggetto di discussioni e protezionismi». Da cui la scelta, a metà strada tra evoluzionismo e ideologia, di attingere ad un modello identitario italiano, stratificatosi da secoli, e farne un valore assoluto cui tendere.

Queste ultime considerazioni le ritroviamo ben argomentate anche da Carlo Marco Belfanti, docente di Storia economica all’Università di Brescia che, nel suo ultimo saggio Storia culturale del Made in Italy (Il Mulino, 2019), rimarca l’elaborazione mitopoietica sottesa alla reclamizzazione di ideali e principi quali bellezza, eccellenza, sapienza. Parole d’ordine utilizzate con l’interesse di sottolineare l’unicità dell’offerta e di chi cede alle sue lusinghe.

Come nel campo della moda (dall’autore assunto a paradigma del Made in Italy) che dal secondo dopoguerra ha incrementato il proprio status, all’interno di un settore fino ad allora dominato dalla “haute couture” francese, fino a consolidarsi proprio grazie all’impiego di narrazioni legate alla cosiddetta Italian way of life. Ecco perché l’autore, nelle prime pagine, chiarisce la scelta del titolo del suo lavoro in questi termini: «È una storia culturale perché la costruzione dell’immagine del Made in Italy merita altrettanta attenzione di quella dedicata alle dinamiche produttive e rappresenta una modalità attraverso la quale il capitale culturale, tangibile e intangibile, dell’Italia ha trovato forme di valorizzazione – ed è forse proprio questo il vero elemento di continuità».

Più attento, invece, alle contraddizioni di sistema, Giuseppe Iorio, con l’inchiesta Made in Italy? Il lato oscuro della moda (Castelvecchi, 2018), decide di raccontare la sua esperienza trentennale nel mondo della moda denunciandone, non senza coraggio, menzogne e ipocrisie.

L’autore, già impiegato in aziende quali Louis Vuitton, Versace e Dolce & Gabbana, descrive vicende inquietanti legate a schiavismo, delocalizzazione selvaggia e logiche mafiose interne a un settore che (ecco la forza di questo reportage) mostra una natura ben diversa e indicibile. Fatta di stilisti e operatori del settore che costituiscono una vera e propria casta di intoccabili. «Nell’immaginario comune l’argomento moda e “Made in Italy” è spesso considerato frivolo, ma l’impoverimento generale dell’economia italiana è anche una diretta conseguenza delle scelte fatte dai cosiddetti “maestri della moda”».

Senza addentrarci nei particolari di come si dovrebbe o meno operare nei settori che compongono l’industria italiana e volendo evitare facili soluzioni che, come spesso accade, non esistono per questioni di tale portata, l’ultimo titolo che segnaliamo pone l’accento su uno dei fattori davvero dirimenti cui abbiamo accennato solo in parte, ossia la comunicazione. In Raccontare il made in Italy (Marsilio, 2015) Marco Bettiol segnala l’urgenza di un cambio di paradigma nel racconto del prodotto italiano. Per valorizzarne adeguatamente la complessità culturale è necessaria «una comunicazione dotata di una maggiore sensibilità umanistica e meno agganciata ai classici automatismi del marketing» in quanto «cercare di imporsi all’attenzione dei consumatori attraverso la ripetizione di messaggi preconfezionati rischia di banalizzare la nostra produzione».

Per molti settori dell’economia nazionale è importante, e lo sarà sempre più, «adattare la comunicazione alle caratteristiche dell’interlocutore che si avvicina al prodotto, offrendo la possibilità di diversi livelli di approfondimento». Valorizzare il processo produttivo, personalizzare l’offerta, trasmettere le tradizioni culturali che hanno determinato quel prodotto per come lo conosciamo: sono tanti gli spunti per un modo diverso di comunicare. Se non si vuole «che siano gli altri a raccontarci», come spesso viene ripetuto fin troppo enfaticamente, bisognerà avere il coraggio di puntare, contro ogni appiattimento, sulla complessità che soggiace alla nostra proposta industriale. Una sfida che, per molti versi, riguarda tanto l’economia quanto la sopravvivenza culturale di un paese.

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