Sono passati 163 anni dall’unità d’Italia e il monito di Massimo d’Azeglio (“Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani”) riecheggia ancora in tutta la penisola. Molti obiettivi che ci si era posti fin dagli albori del regno sabaudo sono ormai stati raggiunti: parliamo tutti la stessa lingua, condividiamo la stessa cultura, ci sentiamo tutti italiani. Tuttavia, alcuni problemi hanno resistito alle levigature del tempo: differenze economiche e infrastrutturali fra nord e sud e, soprattutto, un precario senso di coesione nazionale. Non si può dire, quindi, che gli italiani non siano ancora stati “fatti”. Il problema semmai è quello di costruire la coesione nazionale, di riportare gli italiani alla storia per (ri)fare lo stato.
Il principale sintomo di questo deficit nazionale è l’incapacità di fare (e quindi pensare la) strategia. Siamo l’unico Paese del G7 a non aver mai pubblicato un documento unificato di Strategia di Sicurezza Nazionale. Ancora oggi non si riesce a focalizzare gli elementi sostanziali che la definiscono. Ciò deriva dall’incapacità di porsi tre semplici, ma fondamentali domande:
1) Chi siamo?
2) Di cosa necessitiamo?
3) Quali sono gli inaggirabili vincoli rispetto ai nostri obiettivi?
Chi siamo?
In primis, comprendere chi si è. Troppo spesso l’idea di noi stessi viene importata dall’esterno, dagli stereotipi che gli altri hanno di noi. Il primo passo per poter pensare alla propria strategia è sapere chi siamo, qual è la nostra storia, la nostra cultura, lingua e geografia. Tutto ciò che inevitabilmente determina il nostro essere. È l’autocoscienza. Termine che per molti appare un concetto intuitivo, di facile comprensione, a tratti banale. Chi mai potrebbe dire di non avere un’autocoscienza? Eppure, ogni giorno dimostriamo a noi stessi di non possederla, scambiandola per la banale (questa sì) coscienza di sé. Quest’ultima non è altro che l’intuizione della propria esistenza, quando invece l’autocoscienza ha a che fare (Hegel docet) con quel processo di autocomprensione nel quale ogni cosa (noi stessi, gli altri e il mondo) contribuisce a definirci. Autocoscienza è approdare in terra ferma dopo una lunga traversata. È il momento in cui ci si volta all’indietro contemplando il viaggio che ci ha portati ad essere lì, in quel luogo, in quel momento. È la riflessione sulle paure affrontate e superate, sugli smarrimenti e le sfide incontrate che poi, come un’epifania, spalancate le porte sul presente, fa riemergere la consapevolezza che quel trascorso, che quell’esperienza, non sia altro da sé, ma al contrario ci costituisca. È in questo senso che si può dire che siamo ciò che siamo stati. Non fatti morti obliati in un passato mai più rievocato, ma l’esperienza che la coscienza fa di questo passato. Questa è l’autocoscienza! Il punto di arrivo (non definitivo) di un viaggio, in cui la coscienza intuitiva di sé è solo il punto di partenza. Non avere un’idea chiara di sé significa essere in balia di ciò che gli altri pensano di noi. Altri che, a differenza nostra, possono agilmente usare stereotipi e retorica come arma per perseguire i loro interessi.
Per comprendere chi siamo, per poter rispondere alla prima ed essenziale domanda, è il caso di interrompere quel rapporto col passato segnato da un’alternanza manichea che oscilla tra indifferenza e tabù. Dobbiamo digerire la nostra storia. Accettarla non significa giustificarla, ma comprenderla. La storia ci serve per il futuro. La storia, per certi versi, è come la politica: puoi decidere di non occuparti di essa ma lei continuerà ad occuparsi di te. Dunque, meglio interessarsene.
Ma chi siamo, dunque? Cerchiamo di far emergere quest’autocoscienza analizzando il viaggio che ci ha portato sin qui. Ricerca essenziale per formulare qualsiasi strategia nazionale. Fissiamo alcuni punti.
In molti paesi europei le divisioni interne sono sostanziali e stabili nel tempo, poiché trattasi di popoli diversi riuniti nel medesimo stato. Si pensi, ad esempio, agli scozzesi nel Regno Unito, ai catalani in Spagna, ai bavaresi in Germania. Divisioni che, in momenti di crisi, riaccendono lo spettro dell’indipendentismo. In Italia la storia è ben più articolata.
La deposizione di Romolo Augusto spalancò le porte alla conquista e allo smembramento della penisola. Il centro nord, per vicinanza geografica, subì continue pressioni dai popoli germanici, fino a scivolare all’interno del Sacro Romano Impero. Condizione che durò per diversi secoli. Signorie, Principati e Comuni prosperarono grazie alla loro significativa autonomia dall’Imperatore il quale, a sua volta, trasse beneficio dalla frammentazione politica, evitando così rivali di pari importanza al di là delle Alpi. Il sud Italia ebbe una storia diversa. Fu soggetta a numerose dominazioni: dai bizantini agli arabi, dai normanni agli svevi, dagli angioini agli aragonesi (e poi, dopo l’unione tra Isabella di Castiglia e Ferdinando II d’Aragona, sotto la corona spagnola). Fu in particolare la lotta tra Francia e Spagna che modellò la storia di questi luoghi. Una disputa che, tra calma e tempesta, si protrasse per circa seicento anni. A differenza del centro-nord, il sud Italia fu sempre caratterizzato da governi centralizzati. O regni a sé stanti, dipendenti però delle dinastie europee, o integrati direttamente nel territorio dei dominanti. Ad ogni modo, governi centralisti che tra Napoli e Palermo, o riuniti in un’unica entità statale (Regno delle Due Sicilie).
Non sorprende, quindi, che ancora oggi si discuta di autonomia regionale al nord e la si rifiuti al sud. Impossibile superare in centocinquant’anni le logiche che si sono incastonate nel nostro essere per più di millequattrocento anni. La condizione italiana appare, dunque, sui generis. Le divisioni non sono etniche, culturali, linguistiche o religiose (aspetti cruciali per potersi chiamare nazione). Scaturiscono piuttosto da differenti concezioni di stato. È la diversità storica dell’amministrare che impedisce di ragionare su comuni obiettivi. È la consuetudine dell’essersi governati in modo diverso ad alimentare la percezione di alterità verso i propri connazionali. Il sentimento di italianità non è messo in discussione. Da Trieste a Palermo non vi sono dubbi nell’abbracciare lo stesso tricolore. Si è però incapaci di trovare una modalità condivisa di gestione.
Si sposa un’idea universalistica di Italia, dunque non concreta. Come vedremo più avanti, infatti, l’idea di Italia è immersa nell’universalismo. Il sentimento che genera va al di là dei suoi confini. Nel XIX secolo innumerevoli intellettuali stranieri (soprattutto inglesi) furono così affascinati da questa idea – profondamente storica e mitologica allo stesso tempo – da sposarne la causa e decantare le gesta dei suoi eroi. È il caso, ad esempio, di Lord Byron nell’opera “The Prophecy of Dante” (1821), di Robert Browning in “The Italian in England” (1845), o di Henry Wadsworth Longfellow nel suo “Garibaldi” (1860).
L’universalismo è un sogno, una missione. Vettore di potenza solo se coadiuvato da concrete possibilità. In assenza di reali condizioni, diventa concetto posticcio. Vuoto se non si riesce a riempirlo di altra sostanza. In altre parole, rimpicciolendo l’universale in nazionale. L’Italia è uno dei rari casi in cui l’idea di stato ha in sé il vettore universale pur rappresentandosi come nazionale. Questa incongruenza logica rimane tutt’oggi irrisolta ed è alla base della permanente assenza di coesione. L’oscillazione tra universalismo e campanilismo è il nodo di Gordio che non si è riuscito ancora a spezzare. Universalismo che, se abbracciato e non dosato, tramuta l’ambizione in pura avventatezza (vedasi il Fascismo). Campanilismo come ritorno al passato per proteggersi dai traumi causati dal primo e che, perciò, non può che vedere nell’idea di Italia il germe del fallimento.
Così, oggi, se c’è una idea che ci accomuna, è la percezione di sentirci diversi.
Per creare coesione, bisogna in primis comprendere questa intricata dimensione che ci contraddistingue. In un secondo momento, sciogliere il nodo tra alterità e coesione, cercando di mantenere la prima (impossibile farle guerra se non si vuole scivolare nell’autoritarismo) ma integrandola con la seconda, percorrendo le vie della scuola e dell’insegnamento della storia. Quella che in molti chiamano pedagogia nazionale. D’altronde, non vi è conoscenza che sia come “lo sguardo da nessun luogo”, soprattutto quando si tratta di storia, letteratura e filosofia. Da sempre queste (e altre) discipline si piegano al volere di chi le racconta. La storia si intreccia così con la mitologia per divenire pedagogia.
“Ci sono miti pubblici, racconti di imprese e di eroi tramandati dal popolo per il popolo, funzionali alla coesione della comunità. E ci sono i miti strategici, prodotti nello Stato per lo Stato, che ne orientano la geopolitica”.
Il problema italiano è che gran parte dei miti pubblici affonda le sue radici nell’Italia preunitaria, mentre l’unico unitario, il Risorgimento, ha esaurito la sua forza in epoca fascista. Cosicché oggi, il solo accenno alla nazione, rischia di evocare in molti il timore di un nuovo autoritarismo. Di miti strategici nemmeno a parlarne, ci accontenteremmo di ricostituirne uno pubblico e nazionale, poiché senza questo è impossibile imboccare la via che porta alla strategia.
L’assenza di coesione è alimentata anche dal percepirsi fuori dalla storia. Siamo uno dei paesi che più si è crogiolato nella favola dell’End of History, raccontata negli ultimi trentacinque anni. Una storia rassicurante che ci spogliava da qualsiasi responsabilità se non quella di badare al nostro benessere economico al grido “It’s the economy, stupid!”. Inutile elaborare una strategia nazionale. Il mondo intero stava spontaneamente adottando il modus vivendi di noi occidentali, retto solo da rapporti economici (questa l’illusione). Ma in una simile condizione, la coesione si misura solo in PIL pro capite.
Non vi è bisogno di sviluppare un sentimento collettivo per portare avanti i propri affari. Tanto meno è richiesto il sacrificio per un bene (obiettivo) comune, sia perché questo non può essere definito in assenza di coesione, sia perché la logica intrinseca non lo prevede. Qui vige, altresì, il detto “chi è causa del suo mal pianga sé stesso”. Oggi, in un mondo che cambia, la popolazione si mostra reticente ad abbandonare quell’illusione. Non comprendendo che anche lo stesso benessere economico è perseguibile solo facendo strategia (e quindi guardando al mondo non solo con gli occhi dell’economia), e dunque sapendo quando è necessario fare sacrifici per un obiettivo futuro.
Come accennato precedentemente, la storia italiana è immersa nell’universalismo di Roma e della Chiesa, due delle più grandi produttrici di storia dell’umanità. Cultura, arte, e bellezze italiane ammirate in ogni parte del mondo, originano soprattutto da questi immensi concetti (civiltà e Dio) divenuti realtà.
Partiamo dall’antica Roma. Dopo che il Fascismo – convinto che la forza di un passato glorioso stia nell’anacronistica (e perciò ridicola) riesumazione – consumò l’idea di Roma, da ottant’anni oramai, ogni richiamo alla città eterna rischia l’accostamento al Ventennio. Nel rifiutare il Fascismo – anche questo, relegato all’inferno ma mai pienamente superato – abbiamo buttato via anche Roma. Le condizioni in cui versa oggi la Città Eterna ne rappresenta il decadimento. Eppure, nel mondo, per secoli ma ancora oggi, Roma rimane un modello, tant’è che altre città, raggiunte l’apogeo, per sugellare la loro grandezza chiamavano (e chiamano tutt’ora) loro stesse Roma (Costantinopoli la seconda Roma, Mosca la terza Roma, e oggi spesso si parla di Washington come quarta Roma).
Roma come potenza imperiale e perno del mondo, certo, ma anche come diritto romano, arte, cultura e capacità di volgere a sé (con la forza ma anche con la semplice attrazione) le popolazioni circostanti. Roma come la più grande civiltà del mondo antico. Tutto ciò contribuiva alla sua maestosità. Fu proprio l’immensa capacità di produrre storia – una storia che sorgeva da un punto (Roma) e si irradiava su tutto il mondo antico – che ancora oggi incanta le coscienze degli uomini di ogni parte del mondo. Roma è un concetto che il perimetro nazionale non può contenere. Ed è questo il grande problema che l’Italia odierna non riesce a risolvere.
Con l’editto di Milano prima (313 d.C.) e con quello di Tessalonica poi (380 d. C), Roma divenne la casa del più grande universalismo religioso: la Cristianità. Per circa mille anni, l’Italia, pur essendo smembrata in una moltitudine di stati, rimase il centro d’Europa grazie alla Chiesa. Questa costituisce il popolo italiano e il suo territorio. Poco importa se centocinquant’anni fa l’unità fu raggiunta combattendo anche contro di essa. Ancora oggi la maggior parte della popolazione si definisce cristiana. L’insegnamento, l’educazione, i valori e i principi trasmessi, per quanto ovviamente mutati nel tempo, affondano le radici nella cristianità e hanno spesso in ferventi cristiani i loro eroi e modelli. La cristianità vive dentro e intorno a noi. Dai campanili presenti in ogni Paese, all’architettura e l’arte che il mondo ci invidia. Tutto trasuda cristianità.
Ma come l’Italia è profondamente cristiana, allo stesso modo la Chiesa è intrinsecamente italiana.
Per questo è necessario ripensare tale rapporto, che da troppo tempo si regge sulla consuetudine.
Siamo abituati ad una Chiesa che vive in mezzo a noi e non sappiamo più cogliere l’importanza sociale e geopolitica che ricopre. Così, pare sfuggirci il cambiamento in corso nella Chiesa stessa, la quale ha iniziato ad avere una vocazione molto più globale e meno eurocentrica. Una Chiesa missionaria che volge il suo sguardo verso il Sud del mondo, affrontando da vicino tematiche cruciali come l’immigrazione, la crisi climatica e alimentare, l’istruzione e la salute.
Recentemente, anche l’Italia sta timidamente riscoprendo l’importanza di quelle terre.
Per questo, coordinarsi con la Santa Sede potrebbe dare maggior slancio alle iniziative italiane.
Grazie a Roma e alla Chiesa, concretissimi concetti, produttori di storia per duemila anni, ancora oggi, nonostante uno stato debole e un popolo che vive fuori dalla storia, l’Italia può godere di una grande influenza nel mondo. L’Italiano rimane la sesta lingua più studiata al mondo e, secondo la classifica dei “migliori paesi” compilata annualmente da U.S. News and World Report, l’Italia risulta la prima al mondo per influenza culturale e per patrimonio storico-artistico. Tutto ciò nonostante il nostro totale disinteresse.
Siamo la patria di due immensi universalismi, nostro malgrado. Questi possono essere utilizzati come vettori di potenza solo se ben calibrati in base alle proprie capacità. Oggi, per mancanza di consapevolezza e per timore dei possibili effetti nefasti, abbiamo optato per il rifiuto o l’indifferenza. La sfida per l’Italia consiste nel riscoprire sé stessa attraverso questi concetti, riconoscendone tanto la forza quanto i rischi, così da poterli sfruttare con discernimento e prudenza.
Lo stato che ci ha federato poco più di centocinquant’anni fa non era certo una grande potenza. Un piccolo regno che si trovò tra le mani una possibilità inizialmente non ricercata: fare l’Italia. Le contingenze (diffuso sentimento nazionale e supporto di altre potenze), più che le capacità del regno sabaudo, contribuirono a formare l’Italia (anche se seppe cavalcarle). Ma per dar vita ad uno stato unitario, con solide strutture, è necessaria una potenza che sappia pensare uno stato più ampio di quello iniziale. Che sappia imporre un modello adatto all’intero perimetro nazionale. Decisamente più semplice, dunque, quando a federare è già una grande potenza che può così traslare il suo modello ai territori acquisiti. Assai più arduo quando la taglia del federatore è decisamente più ridotta.
Questo è il caso del regno sabaudo, il quale, nell’incapacità (data anche l’indubbia difficoltà) di individuare un nuovo modello, ha semplicemente esteso il proprio all’intera penisola. Dal 1861 ad oggi continuiamo a vedere i riflessi di quella debolezza nei gangli del sistema. Fragilità che non scomparvero certo col passaggio dalla monarchia alla repubblica. Cambiarono forma e addirittura si accentuarono a seguito della promulgazione della nuova Costituzione. Come ebbe a dire più volte Indro Montanelli, Italia e Germania (Ovest), paesi sconfitti nei quali nacquero i principali autoritarismi di destra, partirono da presupposti radicalmente diversi nella stesura delle nuove leggi fondamentali dello stato. Mentre in Germania si partì da ciò che aveva causato l’avvento del nazismo (Weimar e la precarietà e debolezza dell’esecutivo) al fine di costruire una struttura che potesse prevenirne il ritorno (alcuni elementi furono la soglia di sbarramento, per impedire il proliferare di minuscoli partiti, e l’introduzione della sfiducia costruttiva), in Italia si optò per l’approccio opposto. Si partì infatti, non dalle cause che generarono il fascismo, ma da ciò che il fascismo fu: un potere esecutivo smisurato. Pertanto, a differenza della Germania, in Italia si cercò di contenere questo potere attraverso un sistema di bilanciamenti e contrappesi, i cui effetti sono ben noti.
Per nostra fortuna, durante la guerra fredda tali problemi furono in parte ovviati dal fatto di essere collocati all’interno della sfera di influenza statunitense. Il rischio che l’Italia scivolasse Oltrecortina, comportava una grande attenzione alla sua stabilità. Ma l’Unione Sovietica è ormai crollata da più di trent’anni, e le storture del sistema sono ben presto riaffiorate.
Per geografia, economia, popolazione, forze armate e capacità umane, restiamo una media potenza. Tuttavia, con uno stato debole e un popolo assopito, la forza diminuisce gradualmente.
L’idea di essere uno stivale ci porta a volgere lo sguardo a nord, come se lì si rintracciasse la nostra anima. Bisogna capovolgere la prospettiva. L’Italia, nella sua prima forma, emerse dalle Guerre Puniche come strettamente mediterranea. Per secoli si sarebbe potuto parlare di continente mediterraneo piuttosto che europeo, giacché lì per lungo tempo albergò la civiltà mediterranea. L’Italia non è solo l’appendice d’Europa. Ieri come oggi, essa è il ponte fra tre continenti. Se la si vede dalla terra, proiezione d’Europa nel Mediterraneo; se la si vede dal mare, baricentro mediterraneo, ponte tra Africa, Medioriente ed Europa.
Come ricorda Egidio Ivetic in “Il Mediterraneo e l’Italia”, il Bel Paese ha perso i legami con il mare nel momento della sua formazione. Unito da un regno terrestre, la dimensione nord-sud prevalse su quella adriatica e tirrenica che aveva caratterizzato l’Italia fin dall’avvento delle prime repubbliche marinare. I Savoia cercarono di unire l’Italia tramite strade e ferrovie, mettendo da parte la dimensione portuale.
Oggi, a più di centosessant’anni dalla sua costituzione, l’Italia necessità di ricostruire i rapporti con il mare circostante, sia per riunire l’Italia attraverso una nuova dimensione, sia per riaprirsi ai paesi rivieraschi. Tentare di elaborare una strategia ignorando questo rapporto sarebbe come andare in battaglia con una mano legata dietro la schiena.
Questi, a nostro avviso, gli aspetti essenziali dell’essere italiani. Elementi da tenere a mente quando si vuole elaborare una strategia per l’Italia. La loro comprensione, infatti, porta a focalizzare obiettivi e vincoli, così da poter bilanciare volontà e necessità. Questi aspetti saranno quindi il punto di partenza del prossimo articolo, nel quale tenteremo di rispondere alla seconda e alla terza domanda poste all’inizio: di cosa necessitiamo? Quali vincoli inaggirabili rispetto ai nostri obiettivi?