OGGETTO: La profezia di La Pira
DATA: 27 Gennaio 2025
SEZIONE: Ritratti
FORMATO: Racconti
AREA: Italia
Dalla “città del monte” Giorgio La Pira lanciò negli anni Cinquanta la sfida allo sradicamento della presenza di Dio e al materialismo ateo portati dal comunismo, valorizzando il ruolo di “cerniera” tra Paesi occidentali e afro-asiatici che l’Italia aspirava a giocare. Sono passati settant'anni e il suo pensiero è ancora incredibilmente attuale.
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«Allora mi fu detto: devi profetizzare su molti popoli, nazioni e re» (Ap 10, 11).

Non si può entrare nella prospettiva di Giorgio La Pira sul rapporto tra storia e profezia se non considerando la sua singolare esperienza di vita e ponendosi sul piano della fede. Forte di una formazione basata sui fondamenti del pensiero tomista e della Neoscolastica, si convinse presto della bontà della visione personalistica di cui molti intellettuali cattolici si fecero latori anche in risposta alla tragedia immane della Seconda guerra mondiale e alle ferite lasciate dai totalitarismi. La Pira, che era stato ricercato dalla polizia del regime fascista e aveva perciò riparato in Vaticano, dove per un periodo soggiornò presso l’abitazione dell’allora Sostituto della Segreteria di Stato Mons. Montini, aveva riflettuto approfonditamente sulle maggiori culture politiche del secolo scorso. Questo percorso lo aveva portato a porre il valore e la dignità della persona umana sopra ogni altra cosa nell’esercizio della politica, affinché non la libertà, non lo Stato e neppure la classe sociale fossero in cima alla scala valoriale. Ed è nell’attività politica che La Pira intraprese ogni strada possibile per accordare il bene della persona con quello del “corpo sociale”.

Non c’è da meravigliarsi se, a suo avviso, “nel moto storico si porta a maturazione – nonostante le deviazioni possibili – il seme della dignità della persona umana e quello della umana fraternità deposto dall’Evangelo nella coscienza degli uomini(G. La Pira, Sotto l’unica legge di Dio, in “Vita Cristiana” 6 (1939) 562 in S. L. Carlino, Ricordando Giorgio La Pira. Aspetti della sua vita interiore, Editrice Domenicana Italiana, Napoli 2017, p. 93). Guidato nella vita pubblica dalla concezione di politica come “scienza architettonica”, secondo una definizione aristotelica, operò prima come Costituente, poi come Sindaco di Firenze ispirandosi alla convinzione che il suo servizio alla collettività si basasse su una “tecnica dei principi”, primi fra tutti quelli metafisici. Nelle sue intenzioni l’impegno politico, intriso di umanità e di santità, doveva tendere alla costruzione di un’architettura della città dell’uomo che non poteva “ricavarsi che dalla contemplazione e dalla imitazione dell’architettura della città di Dio.” (G. La Pira, Lettere alle claustrali. Introduzione di Giuseppe Lazzati, Vita e Pensiero, Milano 1980 inS. L. Carlino, ibidem, p. 77).

D’altronde, centrale era nella prospettiva lapiriana un orizzonte soteriologico in cui il moto storico si sostanziava nell’attesa della venuta di Dio, mentre con la connotazione profetica della sua attività quotidiana il Sindaco di Firenze prendeva la distanza da ogni idolo politico. Bisogna però guardarsi dall’errore di perdere di vista il contesto storico-culturale della Guerra fredda: infatti non smise mai di rappresentare ad Amintore Fanfani il timore di una penetrazione sovietica su scala mondiale, ma soprattutto nei Paesi “non allineati” di nuova indipendenza. Anche l’azione di La Pira era coordinata con quella della generazione post-degasperiana della Democrazia Cristiana nello sforzo di battere sul tempo l’Urss sul campo della guerra culturale. Come testimonia l’archivio delle fitte corrispondenze epistolari con interlocutori politici e religiosi, il democristiano strinse e coltivò un rapporto di intesa politica e culturale anche con il generale Gamal Nasser, specialmente nei mesi della crisi di Suez. A seguito di una serie di viaggi e incontri ufficiali che si susseguirono tra il 1956 e il 1958 in Siria e Libano, in Marocco, dove rese visita a Muhammad V, re del Marocco, in Giordania e Israele, dove si confrontò rispettivamente con il re Hussein e il Primo Ministro Ben Gurion, La Pira passò all’attuazione della visione profetica attraverso il “laboratorio” dei Colloqui Mediterranei. Dalla “città del monte”, espressione emblematica del ruolo che si intendeva attribuire a Firenze, si lanciava un messaggio in risposta alla minaccia dello sradicamento della presenza di Dio nel tessuto socio-culturale dell’epoca.

“[…] In che cosa consiste questa crisi nel mondo nella cui prospettiva questo convegno va visto e nel cui quadro esso assume particolare valore e rilievo? […] È crisi essenzialmente di cultura: e questa crisi consiste – proprio come dice l’Evangelo – nel fatto che Dio sia stato radicalmente escluso dal tessuto delle idee madri che costituiscono nel loro insieme una concezione omogenea, ma atea, nel mondo e nella vita.” (Intervento di Giorgio La Pira alla X Assemblea generale degli intellettuali cattolici “Pax romana” a Beirut nell’aprile 1956 in Giovannoni, M. P., Il grande lago di Tiberiade. Lettere di Giorgio La Pira per la pace nel Mediterraneo (1954-1977), Edizioni Polistampa, Firenze 2006, p. 33)

Nei propositi del “progetto architettonico” del Sindaco di Firenze c’era l’impegno a salvare la cultura dell’Occidente dagli eccessi e dalle “oscurità dolorose di un ateismo senza riserve e [da] un materialismo integrale”, di cui lo Stato comunista incarnava la massima espressione storica. (Idem, p. 37) Firenze assumeva così le fattezze di una prefigurazione della “città celeste” di derivazione agostiniana, dove veniva esercitata l’arte della pace, anche esplorando le vie più ardite per avviare processi di superamento delle divisioni e riconciliazione. In una di molte lettere alle suore conventuali nel 1959, La Pira mise in risalto come le delegazioni convenute a Firenze da Francia, Algeria, Egitto, Giordania, Libano, Marocco e Tunisia avessero riconosciuto il valore altissimo dei colloqui tenutisi a Santa Croce e al Palazzo della Signoria nel segno della pace e della speranza.

La Chiesa non è proprio la città sul monte destinata ad attrarre a sé tutti i popoli e tutte le nazioni (lumen ad illuminationem gentium)? Ed allora? Possono essere “estranei” a questo divino, misterioso, sotterraneo movimento attrattivo della grazia i popoli tanto numerosi e qualificati dell’Islam? Ecco come io vedo i rapporti che la Provvidenza mi ha fatto tessere […] con quei popoli: perché si tratta di rapporti che toccano non solo il Marocco, ma si estendono a tutti gli altri paesi arabi dell’Africa e dell’Asia (specie Medio Oriente). […] La speranza, lo sguardo, la gioia di Abramo (san Giovanni) non è appunto rivolta verso questo divino mistero [di Cristo, ndr], che è lievito, bellezza, ed anche dramma della storia e del mondo?” (G. La Pira, Lettera ai Monasteri di Clausura del Mondo, 30 settembre 1957 in Giovannoni, M. P., idem, p. 98)

La comunione di preghiera con le monache anticipava nel pensiero teologico del democristiano la comunione di tutta l’umanità che presto avrebbe trovato concreta realizzazione con i Colloqui che si tennero tra il 1958 e il 1964, ma anche con iniziative successive come il simposio per la pace nel Vietnam del 1965 insieme alla visita ad Hanoi e all’incontro con Ho Chi Min e Phan Van Dong. Mentre all’orizzonte si profilava la minaccia apocalittica delle armi nucleari, La Pira si adoperava per difendere il diritto delle città a esistere, ad assicurarsi che nessuna possibilità di distensione, e di conseguente disarmo, rimanesse intentata. Rivolgendosi alle comunità monacali, il Sindaco di Firenze delineò i tratti principali della sua visione metafisica, ponendo al primo posto l’urgenza di “riedificare Gerusalemme, dopo la schiavitù di Babilonia”, “penetrare in tutto lo spazio di Gerico” e “potenziare l’attrazione della città di Dio”, anche secondo i termini della “tesi di Abramo”: la fede monoteistica dei popoli mediterranei avrebbe identificato nel patriarca Abramo un’ascendenza comune, una pietra miliare di dialogo, unità e pace malgrado il profondo divario dottrinale tra le tre “religioni del Libro”.

Il processo di ambiziosa magnitudine che La Pira aveva in mente si sarebbe dovuto sviluppare con la “triplice famiglia di Abramo” a fare da apripista, riunita attorno al Mediterraneo, “Grande Lago di Tiberiade”. Nella sua opera incessante di “tessitore” di rapporti e percorsi di pace non era isolato e le iniziative di altre figure preminenti della DC andavano nella stessa direzione. Mattei “vide” per esempio la tesi storica fiorentina e se ne fece interprete con la Pignone che “divenne, infatti, un punto di forza – un punto di partenza – per l’intera politica economica in Italia, nel Mediterraneo, in Africa, in Asia, nell’America Latina, dell’AGIP e dell’ENI.” (Enrico Mattei e Firenze. Discorso di La Pira pronunciato nel trigesimo della morte, 27 novembre 1962 in Giovannoni, M. P., ibidem, p. 165). A guidarli era, secondo lui, la consapevolezza che l’utopia fosse destinata a diventare storia, la storia ad arrendersi all’utopia, come messo per certi versi in luce da papa Paolo VI nel suo ultimo discorso sulla pace. Erano, secondo la prospettiva lapiriana, grandi e misteriose correnti del moto storico, simili quasi al movimento della acque marine, come raffigurato anche nel bassorilievo dell’Ara Pacis, dove con la scena di una “processione di uomini e di donne camminanti dietro la portatrice di un ramoscello di ulivo […] l’artista seppe leggere nel profondo e individuare la legge della storia umana”, spiegò in un’intervista rilasciata al giornale “Il Popolo” nel 1976. Era il fulcro della “tesi della pienezza dei tempi”, in base alla quale alla famiglia delle religioni abramitiche era affidata una missione di pace, giustizia e prosperità per la salvezza eterna dell’umanità tutta. Di quel processo di cui La Pira aveva piantato i semi rimane un lascito vivo e in via di evoluzione: lo testimonia anche il convegno dei Vescovi dell’area mediterranea intitolato “Mediterraneo, frontiera di pace”, che si è svolto a Bari nel febbraio 2020 e si è tenuto nuovamente nel febbraio 2022. Spes contra spem.

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