«[…] Mi ricordo una cosa molto bella. Il 1° novembre ‘62 ero ad Algeri e lui era morto da poco: dei giovani per la strada ci fermarono e ci dissero: “Vous êtes italiens?”. “Oui.” E loro: “Mattei!” – la popolazione semplice [si ricordava bene, ndr]! – “Il nous a aimé, il nous a aidé pour notre indépendence, il nous a donné le pétrole.” Vede che uomo di visioni tutte, intiere del mondo? […]»
A rilasciare un’intervista in ricordo del capitano d’industria italiano è l’allora Sindaco di Firenze Giorgio La Pira, che insiste sul senso della Storia che caratterizzava Enrico Mattei. L’attivismo di cui il manager di Stato diede prova a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta battendo in lungo e in largo il Nord Africa e il Vicino Oriente, l’amicizia con le élite algerine che si erano distinte nella guerra del 1954-1962, l’attenzione mai negata ai tentativi arditi di dialogo e riconciliazione interculturale messi in moto da La Pira nei suoi Colloqui mediterranei. Ma c’era, in realtà, un manipolo più numeroso di democristiani, primi tra tutti Giovanni Gronchi e Amintore Fanfani, a offrire una visione ambiziosa della via che la politica estera italiana si apprestava a intraprendere al culmine della decolonizzazione.
Le “forze profonde” su cui si fondano i legami tra Roma e Algeri risalgono alla prima metà del XIX secolo, quando il Nord Africa era considerato da cospiratori e patrioti italiani un luogo sicuro dove trovare rifugio, fin dai tempi della prima occupazione francese nel settentrione della penisola italiana. Nel corso dell’Ottocento, i promotori dei moti insurrezionali che scossero la penisola nel 1821 e durante le guerre d’indipendenza ripararono spesso sulle coste algerine, che, a partire dal 1830, entrarono a pieno titolo nell’orbita dell’influenza francese. Come verrà chiarito più avanti, esiste un filo sottile che collega la storia di colonizzazione, oppressione e liberazione del popolo algerino alla riscoperta della vocazione mediterranea dell’Italia negli anni Cinquanta e Sessanta. Dalla mera occupazione della costa l’impresa francese si sarebbe presto trasformata in una penetrazione geografica e culturale nell’entroterra.
Con la caduta della Reggenza di Algeri, roccaforte di vitale importanza per i corsari barbareschi che imperversarono nel Mediterraneo per buona parte del XIX secolo, venne meno quella che dallo storico algerino Ahmed Tewfik El Madani venne definita “Repubblica ottomana di Algeri”. Iniziò così una lunga campagna di colonizzazione francese che assunse i tratti tipici della “missione civilizzatrice”. Dal 1848 al 1962, le acquisizioni territoriali nel Maghreb algerino furono parti integranti della France métropolitaine, amministrate da autorità francesi e divise in tre dipartimenti. Della resistenza organizzata dai potentati locali di Ahmad Bey, di Abd al-Qāder, dalla tribù di Awlad Sidi Shaykh e dalle comunità della Cabilia si conserva memoria, sebbene venne presto spezzata dall’esercito francese.
Il regime imposto dall’amministrazione francese ai territori algerini non si basava sul solo controllo politico e militare. Se è vero che l’Algeria doveva assimilarsi alla Francia, questo non poteva accadere se non con una profonda riscrittura dell’identità etnica e culturale della popolazione locale. Netta divenne, a cavallo del XIX e XX secolo, la linea di demarcazione tra gli indigènes e i pieds-noirs. Un simbolo dell’umiliazione inferta dai colonizzatori alle comunità locali di fede musulmana fu l’introduzione massiccia della coltivazione della vite, incompatibile con i dettami dell’Islam. Nella memoria storica francese, il generale Thomas-Robert Bugeaud viene ritenuto l’inventore dell’Algeria francese e l’impronta che i Résident Général de France lasciarono nelle colonie francesi rimase impressa nelle architetture, nella pianificazione urbana, nella cultura e persino nella mente della gente comune. Chi avrebbe saputo raccontare bene che cosa significasse la condizione di “inesistenza” della popolazione colonizzata è Frantz Fanon.
Dal punto di vista della storia delle relazioni internazionali tra Italia, Francia e Algeria a cavallo dei due secoli, valgono le stesse considerazioni già sviluppate nel caso del Marocco. Anche l’Algeria rientrava nelle logiche competitive che si delinearono tra gli ultimi vent’anni dell’Ottocento e i primi due decenni del Novecento. L’Italia post-unitaria aveva un piede nella Triplice, ma accarezzava l’idea di guadagnarsi una “quarta sponda”. Il governo di Roma si tutelò attraverso gli accordi Venosta-Barrère (1900) da possibili fughe in avanti del rivale francese. Fino al secondo dopoguerra e all’intensificarsi dei fenomeni di decolonizzazione, le sfere di influenza restarono pressoché immutate, nonostante la rinuncia alle colonie imposta all’Italia con la pace di Parigi avesse acceso l’interesse della Francia per la regione del Fezzan, a Sud della Tripolitania. E qui si innesta il ragionamento sul fil rouge che lega il processo di liberazione algerino alla tensione mediterranea dell’Italia nel secondo dopoguerra.
Esisteva, almeno ufficialmente, un sentimento di solidarietà che le più alte cariche italiane lasciavano trasparire, al culmine delle violenze franco-algerine, nei confronti della Francia, in quanto alleato dell’Italia nel club atlantico dal 1949. Ciononostante,
«nell’agosto 1955, dopo la svolta della guerra, delle manifestazioni di protesta presso le sedi diplomatiche francesi mostrano la nuova attenzione dell’opinione pubblica e politica per gli “avvenimenti” d’Algeria. Dal 1956, la stampa s’impegna a seguire e facilitare quest’evoluzione, offrendo, fra l’altro, un relais alla propaganda dei dirigenti del FLN; sempre nel 1956 un famoso editore di Milano, Giangiacomo Feltrinelli, pubblica Algeria fuorilegge di Colette e Francis Jeanson, un’opera ristampata più volte. […] Il 30 agosto 1957, il quotidiano indipendente “Il Tempo” pubblica un’intervista a Ferhat Abbas [leader del nazionalismo algerino, ndr] in cui il nazionalismo algerino è paragonato al Risorgimento. Durante la battaglia di Algeri, i reportage della stampa paragonano le azioni di repressione condotte dai francesi ai rastrellamenti del periodo fascista in Italia.»
(Bruna Bagnato, L’Italia e la guerra d’Algeria: il governo, i partiti, le forze sociali e l’Eni di Mattei in Enrico Mattei e l’Algeria durante la Guerra di liberazione nazionale, Atti del Convegno organizzato il 7 dicembre 2010 a Algeri, sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica Algerina Democratica e Popolare Abdelaziz Bouteflika, dall’Ambasciata d’Italia in Algeria e dall’Istituto Italiano di Cultura di Algeri in collaborazione con la Direzione Generale degli Archivi Nazionali algerini, Eni e O.N.C.I.)
A marcare le divergenze nella narrazione storica del dramma franco-algerino da una parte e dall’altra delle Alpi, il celeberrimo film di Gillo Pontecorvo, La battaglia di Algeri (1966), fu proiettato in due versioni diverse in Francia e in Italia. All’indomani degli accordi di Évian, restava acceso il dibattito non soltanto sul bilancio delle vittime della guerra (1.5 milioni di caduti algerini secondo Houari Boumédiène, un milione secondo David C. Gordon, 500000 secondo Benjamin Stora), ma anche sull’uso delle espressioni “guerra franco-algerina”, “guerra d’Algeria” e “guerra di liberazione nazionale”.
Consapevole della portata degli eventi che scuotevano il Nord Africa, la classe dirigente italiana si incuneò tra l’ostinazione di inglesi e francesi nel perseguire le rispettive ambizioni vetero-imperialistiche e l’intensificarsi della decolonizzazione. Fanfani individuò nel 1958 la missione di “cerniera” tra Paesi occidentali e afroasiatici che quell’Italia, privata delle sue colonie storiche e giudicata benevolmente dai popoli nordafricani, poteva prefiggersi. In quella direzione operava la palestra di politica come arte della pace che nacque nella “città del monte” grazie a La Pira.
Fu sempre nel 1958 che Mattei prese i primi contatti diretti con membri di spicco del Fronte di Liberazione Nazionale. Non fu un’iniziativa estemporanea: il capitano d’industria sostenne finanziariamente i Colloqui Mediterranei tra francesi e algerini, ingaggiò rappresentanti personali presso il Governo Provvisorio della Repubblica Algerina, si occupò di formare i futuri quadri dell’industria petrolifera algerina nelle scuole dell’Eni a San Donato Milanese. Non deve sorprendere che Mattei non solo suscitasse la preoccupazione della diplomazia francese, ma finisse presto sotto la sorveglianza del Service de documentation extérieure et de contre-espionnage. Mattei credeva nella necessità storica della decolonizzazione sia «per ragioni morali di dignità umana» che «per ragioni economiche di produttività», poiché considerava il “fatto coloniale” come condizione totalizzante (si veda E. Mattei, Il complesso di inferiorità, Edizioni di Comunità, 2018).
«L’Italia è l’unico Paese che ci è rimasto accanto nei momenti difficili. Abbiamo parlato della collaborazione economica, sapendo che in Italia c’è un’economia basata essenzialmente sulle piccole e medie imprese.» Sono dichiarazioni alla stampa del presidente algerino Abdelmajid Tebboune in occasione della visita di Stato del novembre 2021 in Algeria del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, impreziosita dall’inaugurazione del “Giardino Enrico Mattei” nel municipio di Hydra, alla presenza dell’ad di Eni, Claudio Descalzi. Nel gennaio 2023 è stata la volta del capo del governo, Giorgia Meloni, che ha reso omaggio al monumento dedicato al capitano d’industria, il cui nome è tornato in auge con l’elaborazione di un piano italiano per il Mediterraneo allargato. Sullo sfondo della seconda visita incombe il clima di insicurezza aggravato dalla guerra in Ucraina.
Le relazioni italo-algerine sembrano fare progressi come mai prima d’ora, tanto che viene quasi naturale inserire l’amicizia tra Roma e Algeri in un ampio e stabile schema di cooperazione mediterranea. Con il ruolo dell’Italia nella stabilizzazione e mediazione regionale che guadagna terreno, specialmente dopo il recente deterioramento dei rapporti tra Parigi e Algeri. Ma è una finestra di opportunità insidiosa, poiché potrebbe indurre il governo italiano a trarre conclusioni affrettate sui vantaggi reciproci derivanti dalle nuove forniture di gas algerino, senza calcolare intrecci di interessi e tensioni latenti che agitano il Maghreb. Interessi e tensioni che, all’indomani dello scoppio della guerra russo-ucraina, non si limitano più agli equilibri regionali (la cesura nei rapporti con Rabat, il dossier Sahara Occidentale, le divisioni sul processo di normalizzazione con Israele), ma definiscono i rapporti di forza nel nuovo (dis)ordine internazionale.
E in un contesto così mutevole, anche una potenza regionale come l’Algeria può aspirare a ricoprire un “peso determinante” nell’attuale Mediterraneo allargato, dialogando e commerciando, da una parte, con i partner europei e ricevendo, dall’altra, forniture di armi (80% dell’arsenale nel 2021) e sottomarini classe Kilo dalla Russia, con cui poter dire la propria nella contesa mediterranea per la spartizione delle ZEE. Il crinale su cui si muove la diplomazia italiana in Algeria, tra promesse di co-sviluppo e tutela dell’interesse nazionale, rischia oggi di assottigliarsi pericolosamente, ma, perché il piano Mattei prenda una forma compiuta, l’Italia non può permettersi di escludere neppure una delle potenze regionali.