«The World is Flat», sentenziava Thomas Friedman nei primi anni Duemila. Il mondo sarà pure divenuto oggi più piatto di quanto non fosse cinquant’anni fa, ma, non per questo, più sicuro. Tutt’altro: piaccia o no, i rapporti di forza che dominano la sfera politica sono tornati in primo piano, oscurando le ragioni dell’economia. «It’s not just the economy, stupid», ha osservato Rana Foroohar in un articolo comparso sul Financial Times il 21 febbraio 2022, quando già spiravano venti di guerra da Est. Ai vertici dei governi nazionali c’è chi si è affrettato a correggere il tiro: i rivolgimenti storici degli ultimi vent’anni, e non da ultimo le recenti crisi, impongono un ridimensionamento della fiducia riposta nelle leggi del commercio e della finanza internazionale. Una presa di consapevolezza che trae le mosse dalle considerazioni strategiche emerse dall’odierno dibattito scientifico sulla cosiddetta “interdipendenza armata”.
«Tutto è diventato guerra» nel contesto globale plasmato dalla globalizzazione, secondo l’analista Rosa Brooks. L’onda lunga dell’ottimismo suscitato nelle classi dirigenti dallo “scoppio della pace” all’indomani del 1989 ha esaltato a tal punto i benefici di un sistema economico globale e densamente interconnesso, imperniato sulla libera circolazione di beni, servizi, capitali e informazioni, che è passata in sordina la proliferazione dei punti di vulnerabilità e delle fonti di rischio. In un sistema internazionale percorso da un numero e una varietà incalcolabile di connessioni e legami, qualsiasi attore può far leva sulle interdipendenze esistenti per sfidare i rivali, disponendo di una vasta gamma di strumenti non necessariamente militari. È così che il “mondo piatto” entra nell’era dell’insicurezza, questione che si condensa nella difficoltà per gli Stati di conciliare l’esigenza di apertura al commercio globale con la stabilità dell’economia nazionale.
«Se gli studiosi del tema della sicurezza hanno da tempo riconosciuto l’importanza cruciale del mercato dell’energia nel determinare i risultati in termini di sicurezza, i mercati finanziari e dell’informazione stanno rapidamente assumendo un ruolo altrettanto importante. […] I flussi finanziari, informativi e di beni fisici attraverso i confini creano nuovi rischi per gli Stati e nuovi strumenti per sfruttarli o mitigarli.»
H. Farrell, A. Newman, Weaponized Interdependence: How Global Economic Networks Shape State Coercion, “International Security”, 44 (1), 2019
Inevitabile è un cenno a un argomento oggi al centro del dibattito non solo scientifico, ma anche politico e pubblico: con la guerra russo-ucraina è tornata in auge la riflessione sullo strumento delle sanzioni. Generalmente utilizzate per precludere a uno Stato rivale l’accesso a un mercato mediante un’iniziativa individuale (nel caso di attori dotati di sufficiente potenza economica) o collettiva, le sanzioni hanno offerto significativi esempi di studio negli ultimi vent’anni, tra cui spicca quello iraniano. Si fa qui riferimento alle sanzioni occidentali adottate contro l’Iran prima che prendessero avvio i negoziati per il Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA). Tuttavia, dopo l’uscita degli Stati Uniti dall’accordo nel maggio 2018, le sanzioni sono state riattivate con l’effetto, per giunta, di colpire non soltanto obiettivi iraniani, ma anche qualsiasi impresa di Paesi terzi (tra cui attività europee e cinesi) che facesse affari con le società iraniane sanzionate.
Nella letteratura scientifica sull’uso dell’interdipendenza come arma, altri esempi degni di interesse che vengono spesso menzionati dagli studiosi sono l’utilizzo delle fonti energetiche, principalmente fossili, per il perseguimento di obiettivi politici (si pensi alle crisi petrolifere dello scorso secolo e alla crisi energetica conseguente alla guerra russo-ucraina) e le falle infrastrutturali del World Wide Web. Basti considerare che la maggior parte del traffico Internet globale viaggia su circa 300 cavi. Si può ben immaginare che rischi possa implicare il fatto che i cavi che collegano direttamente l’Europa occidentale e l’Africa sono meno di una mezza dozzina. Tale fragilità infrastrutturale è apparsa in tutta la sua gravità nel 2008, quando una nave ha tranciato due di questi cavi (FLAG Europe Asia e SEA-ME-WE-4) al largo dell’Egitto, interrompendo gran parte del traffico Internet in Medio Oriente e in Asia meridionale.
«Un simile discorso si può effettuare per le filiere industriali e tecnologiche. Nel momento in cui le sanzioni vanno a colpire i salti tecnologici che un paese vuole realizzare, per esempio ottenere l’arma nucleare, l’interesse di chi è colpito è costruire filiere parallele che gli permettano di raggiungere il suo scopo seguendo una strada diversa da quella immaginata dalla potenza che sanziona. Pertanto, non si può valutare l’efficacia delle sanzioni in termini statici. La loro natura, nella convivenza con l’interconnessione economica globale, è sempre dinamica. Gli strumenti di guerra economica, per conseguire gli obiettivi (evitare i conflitti, indebolire e rallentare gli avversari, spezzare le filiere), hanno la continua necessità di rinnovarsi e di divenire più pervasivi, in grado di comprendere e limitare le mosse degli altri, che faranno di tutto per aggirarle o per pagare i costi minori possibili dei loro effetti.»
A. Aresu, Il dominio del XXI secolo. Cina, Stati Uniti e la guerra invisibile sulla tecnologia, Feltrinelli, 2022, pp. 105
Nozione classica da cui si sviluppa la riflessione sull’interdipendenza armata, embedded liberalism è l’espressione che John Ruggie ha coniato per distinguere l’assetto di governance economica internazionale del secondo dopoguerra da quello preesistente. L’idea fondante della categoria introdotta da Ruggie, che avrebbe trovato applicazione nel sistema GATT/OMC, è l’esigenza di conciliare un regime di commercio internazionale di marca liberale che consentisse la libera circolazione di merci e capitali con il potere dello Stato di intervenire nell’economia, specialmente nella sua funzione di stabilizzazione. È perciò che «a differenza del nazionalismo economico degli anni Trenta, esso avrebbe avuto un carattere multilaterale; a differenza del liberalismo del gold standard e del libero scambio, il suo multilateralismo sarebbe stato basato sull’interventismo interno.» (J. Ruggie, International regimes, transactions, and change: embedded liberalism in the postwar economic order, “International Organization”, 36 (2): 379–415, 1982)
Sarà l’ingresso della Repubblica popolare cinese nel sistema OMC a far traballare la validità dell’espressione di Ruggie. La difficile conciliazione dell’impegno assunto, da una parte, da Pechino nel favorire la progressiva liberalizzazione dei commerci e la stabilizzazione dell’economia nazionale e, dall’altra, della persistente e forte presenza dello Stato cinese nel mercato, con derive di nazionalismo economico e discriminazione tra investitori nazionali e stranieri e partner commerciali, interroga l’attinenza dell’embedded liberalism con l’indebolimento dell’assetto di governance economica internazionale di marca occidentale. Se è vero che nel contesto descritto da Ruggie rischi e punti di vulnerabilità determinati dalla stretta interdipendenza economica sono condivisi, nessuno Stato dovrebbe neppure accarezzare l’idea di usare proprio l’interdipendenza come arma in chiave competitiva. Farrell e Newman hanno illustrato una tesi contraria, avvalendosi anche della teoria dei network.
«Contrariamente alle convinzioni liberali, le reti economiche e informative globali sono spesso, e forse anche tipicamente, altamente asimmetriche. Ciò significa che la globalizzazione, come altre forme di attività umana basata sui network, genera tipicamente reti con una forte disparità in termini di influenza. […] Anche laddove le reti globali siano nate in gran parte attraverso processi interamente decentralizzati, hanno mostrato un’elevata asimmetria nella distribuzione di gradi [per esempio, di collegamenti tra nodi della rete, ndr]. In parole povere, alcuni nodi di queste reti sono molto meglio collegati di altri. Studi sul commercio e sulle banche mostrano che gli Stati Uniti e il Regno Unito sono nodi eccezionalmente connessi nelle reti finanziarie globali. È sempre più difficile mappare i collegamenti della rete Internet per ragioni tecniche, ma ci sono buone ragioni per credere che l’Internet mostri una simile disposizione rispetto ai nodi delle democrazie industriali avanzate come gli Stati Uniti e (in misura minore) il Regno Unito.»
H. Farrell, A. Newman, Weaponized Interdependence: How Global Economic Networks Shape State Coercion, “International Security”, 44 (1), 2019
Insistendo sull’elemento dell’asimmetria, che contraddistingue lo schema delle odierne interdipendenze (in contrasto con le assunzioni teoriche dell’embedded liberalism), Farrell e Newman hanno identificato due modalità che le grandi potenze possono oggi utilizzare nel proprio interesse per portar guerra ai rivali “senza combattere”. L’effetto “Panopticon” si riferisce al fatto che quanto più un attore è centrale, tanto più gode di un vantaggio informativo rispetto agli attori meno centrali e può, quindi, avvalersi della posizione privilegiata del proprio hub per tracciare le azioni degli attori periferici che dipendono da quello stesso hub. L’effetto “collo di bottiglia” spiega come attori centrali privilegiati possano limitare o penalizzare l’uso degli hub da parte di attori più periferici, cosa che assicura loro un forte potere di controllo.
Come osserva Harold James nell’articolo Cosmos, Chaos: Finance, Power and Conflict, già a cavallo tra il XIX e il XX secolo, «il fatto che la Gran Bretagna fosse il fulcro di commercio, finanza e assicurazioni, garantiva ai suoi vertici militari e ai suoi decisori politici una visione straordinaria di come e dove andassero i flussi globali di beni strategici e di come questi flussi potessero essere interrotti». Mentre dell’uso del circuito SWIFT nell’applicazione di sanzioni esiste oggi un’ampia gamma di esempi, dal global war on terror alle tensioni tra Stati Uniti e Iran, fino al caso recentissimo della guerra russo-ucraina, sembra più difficile da immaginare come si possa trasformare in arma l’interdipendenza creata dalle connessioni digitali.
Eppure, potrebbe bastare una semplice stima per chiarire l’entità di questa ennesima fonte di insicurezza del mondo globalizzato: il 70% del traffico web globale passerebbe attraverso Amazon Web Services nel Nord Virginia (che si era già affermata come hub grazie ad America Online). Un dato che si affianca alla rilevanza di due nodi cruciali come i cavi sottomarini e il ruolo dell’ICANN (Internet Corporation for Assigned Names and Numbers), organizzazione finalizzata alla governance della Rete globale nella quale gli Stati Uniti possono esercitare il diritto di veto. Non solo: costituiscono nodi vitali per il controllo del traffico Internet globale anche multinazionali e piattaforme come Amazon, Google, Alibaba e Facebook.
«Il fatto che Stati Uniti, Unione europea e Cina si siano avvalse delle interdipendenze nel perseguimento di obiettivi politici ha suscitato il timore che tale interdipendenza armata possa proliferare. In tutti e tre i grandi attori della politica commerciale è in corso un dibattito interno su come ridurre le interdipendenze e le vulnerabilità. L’interdipendenza armata ha minato lo spirito dell’embedded liberalism che ha permesso l’emergere di una fitta rete di commerciali internazionali e di sofisticate GVC. Se è vero che la gestione del rischio sta diventando sempre più una priorità, ciò equivale a ridurre la dipendenza da un singolo attore.»
C. Bluth, Europe’s Trade Strategy for the Age of Geoeconomic Globalisation, “Centre for Economic Policy Research”, 2021
Mentre la classe dirigente americana può storicamente fare affidamento su una ricca elaborazione teorica e una riflessione strategica sul national defense che prese avvio almeno dal primo dopoguerra, i vertici politici cinesi si sono dapprima concentrati sulla crescita economica e sul progresso tecnologico che l’interdipendenza avrebbe favorito, cercando pur sempre di minimizzare i rischi. Solo con l’ascesa di Xi Jinping, l’attenzione di Pechino si è rivolta a una valutazione più attenta di sfide e opportunità derivanti dall’interdipendenza, con un accento particolare posto sulla resilienza dell’economia cinese e sul rafforzamento delle capacità industriali e della produzione nazionale, come evidenziato nel piano Made in China 2025. Quello sino-statunitense è un braccio di ferro senza esclusione di colpi che, con la guerra commerciale scoppiata nel 2018, ha compiuto un salto di qualità.
Come ha ben ricordato Alessandro Aresu nel suo Il dominio del XXI secolo. Cina, Stati Uniti e la guerra invisibile sulla tecnologia, è almeno dall’ottobre 1917, data di approvazione del Trading with the Enemy Act, che gli Stati Uniti affinano le tecniche della sicurezza nazionale: «una smisurata ambizione resa possibile dallo sviluppo tecnologico, dall’eredità delle infrastrutture di telecomunicazione imperiali britanniche, dalla creazione e dalla gestione di tecniche in grado di raccogliere, processare, sfruttare, conoscere ogni cosa, secondo la formula della [National Security Agency, ndr] ». Un allargamento della sorveglianza sugli ambiti più disparati della sicurezza che negli ultimi anni ha raggiunto il suo apice, suonando un campanello d’allarme sia per la Cina che per i paesi membri dell’Unione Europea.
Le autorità politiche e militari americane non hanno fatto mistero della preoccupazione costituita dall’erosione della manifattura americana; non hanno esitato a incoraggiare lo sviluppo di droni da parte di industrie nazionali o di paesi amici dinanzi alla sfida posta dalla cinese Da Jiang Innovation (62% del mercato dei droni commerciali di Stati Uniti e Canada nel 2016 con possibili rischi di spionaggio); hanno dispiegato l’intero arsenale del sanzionismo, dalle entity list del Bureau of Industry and Security (BIS) alla vigilanza del Committee on Foreign Investment in the United States (CFIUS), contro campioni cinesi come Smic, Huawei e TikTok. Assetto combattivo a fronte del quale non poteva mancare la risposta cinese, mentre i governi e le istituzioni europee corrono ai ripari.
Che nel mondo contemporaneo, complesso e interconnesso, sia impensabile vivere isolati, è una considerazione che il presidente Woodrow Wilson, convinto del ruolo decisivo rivestito dal popolo americano nella storia globale, indirizzò al governo di Washington, ma si potrebbe estendere a uno qualsiasi dei maggiori attori nell’attuale panorama internazionale. Certo è che, in un mondo non meno globalizzato, ma piuttosto ri-globalizzato e diviso in macroregioni, attraversato da profonde spaccature tra singoli paesi o schieramenti di paesi, esposto a crisi concatenate, cresce l’esigenza di intelligence (anche economica), essenziale per non sottovalutare limiti, effetti non intenzionali delle armi economiche e ritorsioni dei soggetti sanzionati. Concetti come decoupling e de-risking riescono solo a mascherare, in fondo, il paradosso di un gioco micidiale tra potenze, in cui sembra che l’unica vittoria possibile sia una vittoria di Pirro.