«Dal servo di Dio, che in Dio confida, che da Dio dipende, il Principe dei veri credenti per sei generazioni nel Marocco […] si rivolge all’amato, grande e saggio re del Regno d’Italia Vittorio Emanuele II.»
Così si rivolgeva Mulay Hassan I del Marocco al Re d’Italia in una lettera del maggio 1861, quando proprio il Sultano del Marocco, governato dalla dinastia alawide fin dalla metà del XVII secolo, era tra i primi a riconoscere il neonato Stato italiano. Con un saluto affettato e solenne, qualcuno direbbe un “salamelecco”, il Sultano non manifestava soltanto la volontà di avviare proficue relazioni diplomatiche, economiche e culturali tra i vertici dei due Stati, ma confermava anche un certo credito che l’Italia ereditava dal Regno di Sardegna. Fin dagli esordi della politica estera italiana nell’area mediterranea, emerse tuttavia una tensione destinata a perdurare nel tempo, a partire dall’ultimo ventennio del XIX secolo: la storica frizione tra le sfere di interessi strategici di Italia e Francia.
Nell’assetto delle relazioni internazionali tra Stati-nazione europei ed entità statuali o protostatuali nordafricane, il Regno d’Italia si posizionava in ritardo rispetto alle principali rivali del tardo Ottocento. Era, d’altronde, uno Stato impegnato internamente nel rafforzamento economico, nell’ammodernamento amministrativo e nella riorganizzazione militare ed esternamente nello sforzo diplomatico di accreditarsi presso il “concerto” delle potenze europee. Acceso era il dibattito tra due anime della classe politica post-risorgimentale: da una parte, un’anima fedele all’idea cavouriana del “piede in patria”, incline a concentrare energie e risorse sul consolidamento interno dello Stato e a focalizzare l’attenzione sul vincolo continentale della penisola; dall’altra, un’anima di matrice azionista e mazziniana, propensa ad allungare lo sguardo oltre il Mediterraneo, nel tentativo di guadagnarsi una “quarta sponda”. La seconda interpretazione della postura che il neonato Regno avrebbe dovuto assumere nello scacchiere internazionale prevalse con la Sinistra storica, che era ben consapevole, tuttavia, di non poter trascurare l’intreccio di interessi ed equilibri in cui si sarebbe trovata a operare la proiezione espansionistica dell’Italia.
Incaricato d’affari dal 1868 presso la città di Tangeri, dove il Sultano voleva che fossero ospitate le rappresentanze diplomatiche europee (in modo tale che si curassero degli affari commerciali guardandosi bene dalle intromissioni negli affari politici della corte di Fez), Stefano Scovasso aspirava a innalzare il livello delle relazioni italo-marocchine. A tale scopo, meditava sull’opportunità di preparare una visita d’eccezione alla corte del Mulay Hassan I, coinvolgendo non solo funzionari diplomatici, notabili e ufficiali militari, ma anche uomini di cultura e artisti: ispirandosi alle tendenze culturali dell’epoca e strizzando l’occhio alle fantasie di marca orientalista della borghesia europea, Scovasso intendeva conferire il giusto risalto a un’ambasceria d’eccezione. Ed è per questa ragione che, nel maggio 1875, a lasciare Tangeri alla volta di Fez, c’erano anche lo scrittore italiano Edmondo De Amicis e i pittori Stefano Ussi e Cesare Biseo, con il compito di riferire a parole e per immagini atmosfere, paesaggi e vicende della carovana radunata dall’incaricato d’affari italiano.
Di quella memorabile missione, dell’attraversamento del deserto e del ricevimento ufficiale al cospetto del Sultano restano un romanzo d’evasione intitolato Marocco, opera di De Amicis, e una serie di disegni e quadri di Ussi e Biseo dai titoli evocativi, come Cavalcata araba alla presenza dell’Ambasciata Italiana nel Marocco (1875), Festa a Fez data dall’Imperatore del Marocco all’Ambasciata Italiana (1875), La preghiera nel deserto (1876), Marocchino (1877), La festa per la nascita di Maometto sulla piazza del mercato di Tangeri (1879), Una giovane marocchina (1881). Del romanzo di De Amicis del 1875, che riscosse un grande successo, uscì anche un’edizione corredata di illustrazioni dei due pittori, che fu accolta con interesse dalla borghesia italiana.
« Lo stretto di Gibilterra è forse di tutti gli stretti quello che separa più nettamente due paesi assai diversi, e questa diversità appare anche maggiore andando a Tangeri da Gibilterra. Qui ferve ancora la vita affrettata, rumorosa e splendida delle città europee; e un viaggiatore di qualunque parte d’Europa sente l’aria della sua patria nella comunanza d’una infinità d’aspetti e di consuetudini.»
E. De Amicis, Marocco, 1875
Sebbene la missione alla corte di Mulay Hassan I avesse sortito gli effetti sperati, tanto che nel 1876 Scovasso ricevette le credenziali di Inviato Straordinario e Ministro Plenipotenziario del Regno d’Italia in Marocco, le relazioni italo-marocchine non sarebbero progredite in maniera lineare. Anzi, fintanto che bisognasse assicurarsi il benestare dei britannici rispetto alle mire espansionistiche del Regno d’Italia, non si posero particolari questioni: la Gran Bretagna aveva guardato con favore all’unificazione della penisola italiana e con essa rinsaldò le relazioni con gli Accordi mediterranei del 1887. Ben più complicati erano i rapporti con la Francia, dato che già Napoleone III aveva preso atto malvolentieri della costituzione di un’Italia unita al confine meridionale e a marcare la distanza tra Roma e Parigi c’era anche la “questione romana”. All’Italia premeva di recuperare terreno nello scamble for Africa, come dimostrò al Congresso di Berlino (1878).
Ma quella di fine XIX e inizio XX secolo era un’Italia mossa da ambizioni tali da portarla a sfruttare ogni opportunità pur di ottenere il benestare di tutte le potenze del “concerto europeo” verso la sua proiezione sulla “quarta sponda”. Aveva un piede nella Triplice, ma voleva trarne il massimo vantaggio per la propria politica coloniale nel Nord Africa, come emerse già dal primo rinnovo dell’alleanza con Germania e Austria-Ungheria (1887). Dopo essersi assicurata la benevolenza di Londra, che era allora dominus del Mediterraneo, il governo di Roma si concesse un “giro di valzer” con la Francia, dalla cui fughe in avanti sul Maghreb, tra cui il Trattato del Bardo (1881), la diplomazia italiana si tutelò attraverso gli accordi Venosta-Barrère (1900).
« […] Per quanto concerne più particolarmente il Marocco, è risultato dai nostri colloqui che l’azione della Francia ha per scopo di esercitare e di salvaguardare i diritti che derivano ad essa dalla vicinanza del suo territorio con questo Impero. Ho riconosciuto che tale azione, così definita, non è, ai nostri occhi, tale da nuocere agli interessi dell’Italia come potenza mediterranea. Si è parimenti convenuto che, se dovesse risultare una modificazione dello stato politico o territoriale del Marocco, l’Italia si riserverebbe, per misura di reciprocità, il diritto di sviluppare eventualmente la sua influenza riguardo alla Tripolitania-Cirenaica.»
Visconti Venosta a Barrère, 16 dicembre 1900
Agli inizi del Novecento, nell’euforia dello scramble for Africa, si delineavano delle sfere di influenza destinate a rimanere pressoché intatte nel tempo. Ciò non significava certo che ingerenze e sabotaggi reciproci sarebbero mancati (si pensi all’incidente del blocco da parte della Marina italiana dei piroscafi francesi Manouba e Carthage diretti a Tunisi con a bordo materiale bellico e unità militari turche nel bel mezzo della Guerra libica del 1911-1912). Ma, nel gioco degli equilibri e dei reciproci riconoscimenti degli interessi sul Maghreb, dopo le due crisi marocchine, il Marocco diventava a tutti gli effetti protettorato francese (1912). Una cesura profonda nella storia delle relazioni italo-marocchine? Nient’affatto. Durante il Ventennio, la politica estera dell’Italia fascista accarezzò persino l’idea di rivendicare diritti sul Marocco e di attestarsi con la propria Marina nello Stretto di Gibilterra traendo vantaggio dal supporto offerto a Francisco Franco nella Guerra civile spagnola.
D’altronde, neanche la politica estera dell’Italia repubblicana smise di guardare con interesse al Marocco, suscitando una profonda diffidenza, persino risentimento, nei vertici francesi verso le ingerenze italiane nel “cortile” del Quai d’Orsay. Nel periodo segnato dalla sfida lanciata dall’Eni alle “sette sorelle”, nell’ottobre 1958 l’allora capo dello Stato, Giovanni Gronchi, e il capo dell’esecutivo e ministro degli Esteri ad interim Amintore Fanfani si recarono in visita ufficiale in Marocco per suggellare con il re Muhammad V un accordo economico volto alla creazione di una società paritetica per l’esplorazione del bacino sahariano di Tarfaya. A quest’iniziativa si affiancava l’installazione di un impianto di raffinazione e di una rete di distribuzione dell’Agip e, nel 1961, una raffineria italo-marocchina entrò in funzione presso Mohammadia, in Marocco. Erano gli anni dello sgretolamento delle speranze vetero-imperialistiche coltivate ostinatamente a Londra e Parigi, della crisi di Suez (ottobre 1956), della Guerra franco-algerina e dell’indipendenza di Tunisia e Marocco (marzo 1956).
« I Paesi arabi del Medio Oriente e dell’Africa settentrionale ed Israele hanno con noi amichevoli relazioni, che ci proporremo di rendere sempre più attive quale contributo dell’Italia ad allargare l’area della prosperità e quindi consolidare le sorti della libertà sulle rive mediterranee. Confidiamo che i conflitti che turbano ancora alcune zone giungano alla fine, ridando pace nell’ordine e nella giustizia con beneficio di tutti. »
Discorso programmatico di Amintore Fanfani in Senato della Repubblica, Resoconto Sommario, 9 luglio 1958, p. 11 in L. Riccardi, La grandezza di una media potenza: personaggi e problemi della politica estera italiana del Novecento, Società Editrice Dante Alighieri, Roma 2017, p. 199
Nella scommessa di Fanfani si condensava la percezione di una finestra di opportunità da sfruttare in quel momento storico. Sottesa al suo discorso c’era funzione di “cerniera” tra Paesi occidentali e afroasiatici che il governo di Roma poteva svolgere. Ma, in quella fase post-degasperiana della politica estera italiana, la vocazione mediterranea dell’Italia si espresse anche grazie all’esercizio della politica come arte della pace da parte del sindaco di Firenze, Giorgio La Pira. Intensa fu la corrispondenza epistolare, nonché il rapporto di sincera amicizia, del democristiano con il re Muhammad V, uno dei molti contatti, visite e incontri ufficiali che La Pira ebbe con i grandi protagonisti dell’epoca della decolonizzazione. Siria, Libano, Giordania, Israele: desideroso di cercare una strada di dialogo e co-sviluppo tra le sponde del grande “lago di Tiberiade”, come veniva immaginato dal sindaco di Firenze, La Pira si persuase gradualmente della bontà dell’azione globale che si sarebbe concretata nei Colloqui Mediterranei (1958 – 1964).
« Francia e Algeria, Egitto, Giordania, Libano, Marocco, Tunisia non dimenticano – nonostante difficoltà immense di ogni ordine – di essersi incontrati, per un colloquio di pace e di speranza, tanto in Santa Croce, quanto nei saloni savonaroliani del Palazzo della Signoria », scriveva La Pira in una lettera indirizzata alle suore conventuali nel 1959. Fu anche per iniziativa del re Muhammad V che trovarono applicazione le tesi lapiriane e le ipotesi di riconciliazione più ardite, tra le quali spiccarono i tentativi di dialogo tra francesi e algerini e tra israeliani e palestinesi. Quella lezione della tesi lapiriana della “città del monte”, un’anticipazione della “città celeste” di derivazione agostiniana, in cui si costruivano architetture di pace, mantiene una sua attualità. Si può immaginare oggi un’ambiziosa iniziativa, seppur in un orizzonte culturale secolarizzato, che riproponga un simile impegno di dialogo negoziale?
Sulle tracce della “tesi di Abramo” sembra camminare oggi la diplomazia pontificia, soprattutto con l’Incontro “Mediterraneo. Frontiera di pace” con i vescovi delle Chiese sorelle e i sindaci delle città del Mediterraneo, tenutosi nel 2020 e nel 2022. Ma, riguardo alla postura italiana nel quadro delle relazioni internazionali del Mediterraneo occidentale, è fondata la tesi secondo cui l’Italia potrebbe oggi svolgere un ruolo di mediazione e stabilizzazione, ad esempio nella questione del Sahara Occidentale? Diverse sono le variabili da tenere in considerazione per la diplomazia italiana: la crisi di credibilità della Francia nel Maghreb; il recente deterioramento delle relazioni tra Algeri e Rabat tra il maggio 2020 e il dicembre 2022, culminato nella rottura delle relazioni diplomatiche tra i due paesi, nel blocco dello spazio aereo da parte di Algeri e nella più recente chiusura del Gasdotto Maghreb-Europa; il credito di cui gode il Marocco presso Washington in virtù della normalizzazione dei rapporti con Israele sotto gli accordi di Abramo.
Impegnato nel consolidamento del suo ruolo di leadership in Africa settentrionale e sub-sahariana, il regno di Muhammad VI tiene gli occhi fissi sulle prospettive di risoluzione del dossier del Sahara Occidentale. Lo dimostra il fatto che il suo rapporto con la Spagna si avvii verso una collaborazione strategica a seguito dell’accettazione da parte del governo Sánchez del piano di autonomia marocchino per il Sahara Occidentale, su cui ampio è il consenso nell’Unione Europea. Resta però irremovibile l’Algeria nel suo sostegno all’autodeterminazione-indipendenza del popolo saharawi attraverso il Fronte Polisario. La risoluzione della controversia non può che passare per un compromesso che includa tutti gli attori della regione dentro uno stabile e pragmatico schema di cooperazione. Ma deve passare anche per un più esteso disegno di co-sviluppo delle sponde europea e africana del Mediterraneo: l’Italia è chiamata a farsene promotrice a livello bilaterale e multilaterale, se vuole «possedere ogni giorno di più la missione e l’età del proprio tempo».