To the victor belong the spoils of the enemy
Adottando il senso tragico della storia che ci insegna Nietzsche la traduzione letterale direbbe di assumere il significato di “sistema delle spoglie”; per dare senso più romantico al fine, si potrebbe optare per il sostantivo “spoliazione”. Nel primo caso l’azione passiva restituisce un corpo (l’apparato burocratico) che subisce l’azione politica del Leviatano, il dominatore, colui che ha vinto le elezioni e si prende lo Stato nel suo interesse. Il secondo significato sembra dare senso alla progressione positiva e attiva di un potere decidente, effettivo, ordinatore. In ogni caso, qualunque sia la prospettiva, nella storia repubblicana soprattutto si è sempre applicata una metodologia di tipo appropriativo, in cui le spoglie sono tirate a sorte e divise tra i vincitori, quella maggioranza parlamentare che forma il Governo e lottizza gli spazi di potere.
Nell’attuale previsione ordinamentale, il meccanismo ha acquisito grande rilevanza con l’approvazione della Legge Frattini n. 145/2002 che contempla tre forme di spoils system. Essa ebbe il merito di disciplinare la materia, scontando l’incolpevole valutazione di fondarsi su un falso presupposto: la maturità della democrazia parlamentare italica.
Certamente, negli Stati moderni, è noto che il binomio politica-amministrazione sia necessario per lo svolgimento del potere. Il potere ha una scintilla divina: è la capacità di far accadere le cose. È una disciplina quasi musicale, che richiede talento, perizia, preparazione e dedizione. È un’arte che si impara con l’esercizio e si perfeziona con l’abitudine. Di più: è un’arte indispensabile. Quindi, senza la disponibilità di uomini formati a saper declinare il potere, a leggere gli spartiti e a seguire l’ordine del maestro, questi si troverebbe senza orchestra, a guidare singolarità piuttosto che un’anima sola con un solo corpo.
La nostra Costituzione impone un modello basato sulla divisione tra politica e amministrazione, in cui il meccanismo di spoils system si inserisce come metodo di gestione ed esercizio del potere nel rispetto delle reciproche singolarità e prerogative funzionali. Negli ultimi anni in Italia questo meccanismo si è trasformato in una attività di distribuzione di incarichi a uomini organici ai partiti, un tempo si sarebbe detto ad intellettuali di area. Fiducia a scapito della competenza, come sembra apparire dalle ultime cronache inerenti la sostituzione di organi e vertici di dipartimenti, unità, organismi pubblici. Le polemiche odierne non raccontano nulla di nuovo: è in atto un gioco perverso in cui le pedine si spostano sulla scacchiera senza apparente abilità strategica rispondendo alla logica della perpetuazione del potere, del proprio, della propria parte politica.
Un modello differente dal nostro è invece quello americano dove i rapporti fra vertici politici e dirigenza sono completamente assorbiti dall’esigenza di “far bene” e “portare risultati utili al Paese”, così come programmato nei Piani Strategici e nei Piani annuali che ciascuna Amministrazione, come un tutto unico, ogni anno presenta al Congresso. Colpisce, inoltre, nel regime della dirigenza federale USA, un altro aspetto: la totale assenza di qualunque riferimento di principio alla separazione fra “direzione politica e gestione dirigenziale” degli uffici pubblici, inserita nella legislazione italiana con il decreto legislativo n. 29 del 1993. L’esperienza dei dirigenti pubblici statunitensi induce alla seguente considerazione di fondo: in Italia, destinando la dirigenza pubblica alla funzione di “responsabilità di emanazione degli atti amministrativi” si è relegata al fondamentale e assorbente compito meramente giuridico, di emissione “di carte”, senza valorizzare a dovere quel taglio manageriale orientato sulla performance e sui risultati che solo da poco appartengono alla cultura della PA italiana.
Ebbene, per riuscire a realizzare quel concerto armonioso tra politica (pensiero) e amministrazione (azione esecutiva) è necessario affidarsi a uomini di fiducia che conoscano il meccanismo del potere senza subirne il fascino dell’adulazione ma per declinarne gli effetti sotto la guida di alti valori. Nell’attuale configurazione politica la sfera pubblica si è ridotta essenzialmente a luogo in cui gli uomini fanno mercato dei loro segreti, di dati e informazioni. Da un lato lo spazio ove si vede, si sente, si subisce la politica, all’altro estremo spazio si concentra la politica che conta, che sposta denaro, risorse, opinioni. In questo teatro in cui molti personaggi recitano parti più o meno grandi, bisogna conoscere rituali, liturgie, metodologie, simboli, linguaggi. Dall’altro esistono gli arcana imperii.
Nel gioco razionale e a tratti istintivo della politica i detentori del potere non possono che affidarsi a sacerdoti e custodi che sappiano vedere e navigare quel mondo mutevole e pericoloso. E ora, la generazione Tolkien al potere è chiamata al cambio di paradigma se non vuole rimanere impastata nella palude vischiosa della nomina per surrogazione, ovvero la concessione ai non eletti di ruoli di nomina fiduciaria che raramente sfuggono alla logica del “particulare” guicciardiniano piuttosto che immolarsi alla prasseologia realistica che costruisce attorno alla politica ed al servizio dei suoi fini superiori una classe dirigente di riservisti, anche ideologicamente ispirati, che non alla logica partitica ma alla realizzazione dell’interesse nazionale risultano spiritualmente formati.