Era nell’aria almeno dagli inizi del nuovo millennio, da quando Internet aveva fatto il suo ingresso nelle istituzioni, negli ambienti lavorativi e nelle vite private delle comunità umane. Ma all’indomani della crisi pandemica, con le sue molteplici e profonde ripercussioni, ad oggi probabilmente non del tutto comprese, il dibattito sul rapporto problematico tra sistemi educativi e nuove tecnologie si è riacceso, tornando anche sotto i riflettori dei media e della politica. Indagini parlamentari, rapporti internazionali e convegni hanno fornito elementi utili per delineare un quadro generale della situazione e i risultati sarebbero sufficienti per lanciare l’allarme: è ora di correre ai ripari sull’impatto di dispositivi elettronici e nuove metodologie di insegnamento sui processi cognitivi e sulla salute mentale delle giovani generazioni.
«Fingere di non conoscere i danni che l’abuso di tecnologia digitale sta producendo sugli studenti e in generale sui più giovani sarebbe ipocrita. […] Non si tratta di dichiarare guerra alla modernità, ma semplicemente di governare e regolamentare quel mondo virtuale nel quale, secondo le ultime stime, i più giovani trascorrono dalle quattro alle sei ore al giorno.»
Sono le considerazioni conclusive del Documento approvato dalla 7ª Commissione permanente del Senato il 9 giugno 2021 all’esito di un’indagine conoscitiva dal titolo “Sull’impatto del digitale sugli studenti, con particolare riferimento ai processi di apprendimento”. Danni fisici e psicologici, progressivo peggioramento di facoltà mentali essenziali, come concentrazione, memoria e capacità di analisi critica: genitori, rappresentanti della classe politica, docenti delle scuole elementari e superiori, professori universitari e manager sono solo alcune delle anime della società civile, del settore privato e del mondo delle istituzioni che sembrano aver convenuto sull’urgenza di mobilitarsi e unire le forze per invertire la rotta. Nel frattempo, titoli di giornale come Social, il ministro Schillaci: “È allarme dipendenza, scuole e piattaforme ci aiutino” (La Stampa, 6 febbraio 2024) o “Instagram crea dipendenza e ansia nei più giovani”: la denuncia di decine di Stati americani contro Meta (Forbes, 25 ottobre 2023) si moltiplicano.
E, pur tuttavia, la fotografia delle sfide socio-culturali poste dagli effetti del digitale sull’apprendimento non sarebbe completa e approfondita se non si menzionassero due fattori determinanti per la penetrazione delle innovazioni tecnologiche più avanzate nelle scuole, università e famiglie. Da una parte, si può rilevare la propensione di molti governi nazionali a integrare le politiche per l’istruzione pubblica in valutazioni di pianificazione strategica volte a potenziare la competitività del Sistema Paese.
A tal riguardo, nell’autunno del 2006, la Commissione sul futuro dell’istruzione superiore presso lo US Department of Education, presieduta da Margaret Spellings, US Secretary of Education dell’amministrazione Bush, pubblicò una relazione sullo stato dell’istruzione superiore nella nazione: A Test of Leadership: Charting the Future of U.S. Higher Education. Questo rapporto conteneva un’efficace critica sulla disparità di accesso all’istruzione superiore. Ma al momento di discutere delle materie di insegnamento, si manifestò l’interesse esclusivo per il riscontro economico a livello nazionale. La relazione sottolineava le presunte carenze e insufficienze riscontrate nel campo delle scienze, della tecnologia e dell’ingegneria: ma non nella ricerca scientifica di base in queste aree, bensì soltanto nell’insegnamento applicato a livello superiore, cioè l’insegnamento che può rapidamente garantire strategie di profitto. Gli studi umanistici, le arti e il pensiero critico erano in pratica assenti. Omettendoli, la relazione affermava chiaramente che sarebbe meglio sostituire tutte queste materie con discipline più utili. (M. Nussbaum, Non per profitto. Perché le democrazia hanno bisogno della cultura umanistica, Il Mulino, p. 22)
Dall’altra, proprio simili orientamenti di policy, oramai piuttosto diffusi su scala globale, hanno aperto la strada all’ingresso delle tecnologie e nuove metodologie didattiche nei luoghi dell’apprendimento, anche per effetto di fenomeni di cattura del regolatore da parte dei giganti del Big Tech. Infatti, agli enormi interessi finanziari in gioco attraverso i capitali di rischio si associa la capacità dei giganti dell’innovazione digitale di dominare gli spazi virtuali stabilendone così le regole. Scenari futuri, come l’uso di modelli predittivi per intervenire in maniera personalizzata sulle carenze dello studente e prevenire le possibili cause di insuccesso, che un tempo sarebbero stati rapidamente derubricati a pura fantascienza, non sarebbero più da sottovalutare.
Un’anticipazione dei possibili effetti avversi dell’interazione delle nuove tecnologie con i processi cognitivi si può trarre da uno sguardo alle economie dell’Estremo Oriente, considerate oggi all’avanguardia nelle diverse applicazioni dell’innovazione tecnologica di frontiera. Come viene evidenziato anche nel Documento approvato nel 2021 dalla 7ª Commissione permanente del Senato, in Corea del Sud, il 30% dei giovani tra i dieci e i diciannove anni sarebbe definito come “troppo dipendente” dal proprio telefonino e verrebbe quindi aiutato a disintossicarsi in centri istituiti per curare le patologie da web, mentre non sarebbero più confortanti certe problematiche sorte in Cina, dove i giovani affetti da dipendenza sarebbero ventiquattro milioni. Segue il caso giapponese, nel quale il fenomeno hikikomori appare emblematico dell’impatto dei dispositivi elettronici portato alle sue estreme conseguenze: sono giovani tra i dodici e i venticinque anni che avrebbero raggiunto la cifra di un milione e che si sono autoesclusi dalla società, privandosi quindi di attività decisive per la formazione personale.
Il Documento giunge, inoltre, a una conclusione forse troppo allarmante, ma degna di essere discussa con spirito critico: “più la scuola e lo studio si digitalizzano, più calano sia le competenze degli studenti sia i loro redditi futuri.” Se aderente alla realtà, una simile affermazione metterebbe in crisi la spinta aziendalistica che ha portato molte scuole in Italia a trasformarsi in “progettifici” e a inseguire le logiche di mercato. A livello internazionale, la crescente penetrazione di tecnologie e nuove metodologie negli ambienti della formazione e dell’apprendimento ha portato dapprima, a cavallo tra la fine del secolo scorso e i primi anni Duemila, all’introduzione dell’insegnamento dell’informatica, ha evidenziato poi, tra il 2010 e il 2020, l’importanza di dotare le aule scolastiche di strumenti digitali come LIM, tablet e registri elettronici e, da ultimo, avrebbe promosso la sperimentazione di innovazioni come IA, metaverso, visori per realtà aumentata e immersiva e robotica nei contesti scolastici. Con tutto ciò, i risultati ad oggi avrebbero deluso le aspettative.
Nell’edizione 2018 del Programme for International Student Assessment (PISA) condotto dall’OCSE, si può leggere che:
“nei paesi dell’OCSE, l’evoluzione media delle prestazioni nella comprensione dello scritto segue una curva a U inversa: alla lenta progressione osservata sino al 2012 è seguita una regressione tra il 2012 e il 2018; la prestazione media del 2018 è simile a quella del 2006 nei paesi OCSE che hanno partecipato alle due valutazioni. Anche la prestazione media in scienze segue una curva a U inversa. Per quanto riguarda la matematica, la curva di evoluzione è piatta.”
È sempre l’OCSE a osservare che, malgrado i rilevanti investimenti dei paesi OCSE per rafforzare la connettività e le ICT nelle scuole, mediamente, negli ultimi dieci anni, non è stato rilevato “alcun miglioramento notevole nelle prestazioni dei loro studenti in lettura, in matematica e in scienze”. (OECD (2015), Connectés pour apprendre? Les élèves et les nouvelles technologies, PISA, OECD Publishing, Paris) Già nel 2011, in un commento ai dati OCSE-PISA, si spiegava che “gli studenti che ottengono i punteggi migliori nell’indagine PISA non sono quelli che in assoluto fanno uso quotidiano delle tecnologie a scuola. I punteggi migliori sono infatti conseguiti da quegli studenti (…) che durante le ore curriculari non fanno un uso troppo frequente di questi strumenti” (Paolo Ferri, Nativi digitali, Mondadori, 2011).
D’altra parte, non potrebbe esserci argomento più indicativo delle preoccupazioni e dell’urgenza di ripensare il rapporto tra tecnologia e processi di apprendimento nel dibattito pubblico e accademico della notizia sugli impiegati di aziende del Big Tech che avrebbero scelto per i loro figli un percorso educativo, a scuola e in famiglia, contraddistinto da un uso limitato, se non minimo, di dispositivi elettronici, e specialmente smartphone. Per altro, anche gli studenti più giovani avrebbero iniziato a prendere consapevolezza dei costi che implicherebbe una sempre maggiore digitalizzazione delle aule e delle metodologie applicate a lezione: sul New York Times ampio spazio è stato recentemente dedicato al tema Tech in the Classroom, incluso un questionario che ha raccolto novecento risposte da parte di genitori e figli, e, tra i vari motivi di apprensione, figura l’impatto delle nuove tecnologie sulle facoltà di scrivere a mano e di comprensione del testo, e con essa una diversa evoluzione dell’interazione tra pensiero e manualità, tra mente e mano, da sempre valorizzato anche nel metodo Montessori.
Ma il richiamo forse più ricorrente nel discorso su processi formativi e nuovi avanzamenti tecnologici riguarda il ruolo del docente, messo a dura prova dalle trasformazioni in atto. Quanti, anche nella Silicon Valley, scelgono per i figli un percorso scolastico libero da dispositivi e sistemi digitali pongono l’accento sulla centralità del maestro e della relazione maestro-allievo. Con questo l’umanesimo riacquista la rilevanza che tradizionalmente gli spetta, soprattutto nel mondo europeo, sottolineando i rischi insiti nell’atrofia dei fini che sarebbe oggi accompagnata da un’ipertrofia dei mezzi (tecnologici). Oggi più che mai necessari, di fronte alle sfide epocali del presente, appaiono modelli formativi che mettano al primo posto l’autodisciplina intellettuale e dell’autonomia morale degli studenti. Anche a costo di porre un freno alla crescente presenza del digitale nelle scuole e nelle famiglie.