Il destino dei problemi autentici è in qualche modo quello di restare sommersi. Rumori cosmici di fondo, emergono per dare sostanza a spiegazioni, per ricordarci l’irrisolutezza a cui ci condannano senza offrirsi per uno scioglimento. In questo senso è corretto leggere la lunga vicenda degli hikikomori, lunga in quanto priva di un inizio discreto, lunga perché non se ne intravede la fine, né la causa, né lo scopo. L’omicidio di Shinzo Abe di luglio 2022 ha riportato alla luce la questione, un non detto che tutti sanno e nessuno guarda, in Giappone, ma che non è un affare esclusivamente nipponico. In ogni caso, come sempre accade intorno a questi eventi, l’argomento è ritornato d’attualità.
Nel Vecchio Continente si è (ri)cominciato a parlare da poco di hikikomori. La pandemia in particolare ha reso la questione più attuale, anche se mal tematizzata: l’hikikomori, fenomeno e soggetto ad un tempo – esiste un termine solo che indichi tanto il ritiro quanto il ritirato – non è, non ha un problema di solitudine stricto sensu. Le categorie che impieghiamo per ricomprendere il fenomeno in schemi adatti alla comprensione ci parlano di solitudine, appunto, di depressione, di dipendenza. Ma le cose stanno davvero così? Da un punto di vista fenomenologico, l’hikikomori manifesta volontà di autoreclusione (Ricci, 2011), ma non è una persona depressa, né dipendente da internet, né risulta essere affetto da fobie sociali. Dal punto di vista psicologico, la nozione più interessante è quella di «hikikomori primario» (Suwa e Suzuki, 2013), che va a denotare «quei soggetti hikikomori che pur non avendo alcuna psicopatologia diagnosticabile grave, non sono in grado di entrare nella società o adattarsi all’ambiente circostante» (Binaghi, 2020). Tradizionalmente, si è cercata una spiegazione di questo fenomeno a partire dalle caratteristiche culturali dell’ambiente in cui si è sviluppato: così si è parlato degli ‘sconfitti senza lotta’, si è attribuita gran parte della responsabilità alla durezza della tensione idealistica giapponese e all’infamia che proprio questa tensione attribuisce a chi viene schiacciato, perché troppo debole.
Il problema è che il fenomeno non riguarda soltanto la cultura giapponese, né quella orientale in senso ampio. Con le dovute differenze, interessa ormai anche buona parte dei Paesi europei e il Nord America (Block, 2008) anche se in questo senso mancano stime ufficiali di diffusione (in Italia si parla di circa 100.000 casi). Si potrebbe proseguire elencando opinioni, proposte, interpretazioni fornite sul tema, ma ciò significherebbe in qualche modo ricadere nel fosso che si cerca di scavalcare. Tenendo fermo il necessario da sapere dal punto di vista fenomenologico e clinico, che cosa bisogna realmente capire? Che l’hikikomori è essenzialmente la perdita del mondo in quanto tale. E in che modo questa cognizione può essere feconda? Può esserlo solamente a patto che almeno per un momento ci si lasci interrogare da essa, senza volerla reintegrare sotto schemi esplicativi, senza cercare di ridurla in una casistica risolvibile a priori.
Muoversi nel mondo non significa solamente muoversi nella realtà che ci circonda. La realtà che si impone dall’esterno può essere recepita in molti modi, così come può essere affrontata in altrettanti. Proprio perché esterna, non falsificabile – contra factum non valet argumentum – non è disponibile a piacimento del soggetto, eppure il soggetto che la vive è chiamato a prendere posizione riguardo ad essa. È così che la realtà può diventare ambiente: solo nella misura in cui si ha consapevolezza di muoversi in un ambiente, cioè in un contesto ospitale, finalizzato all’abitabilità stessa, allora guardiamo a quello che c’è fuori dalla finestra come ad un mondo. Il mondo è mondo solo in quanto ambiente, altrimenti resta realtà inospitale. Se, per amore di discussione, crediamo che esista la materia e soltanto la materia, non possiamo avere problemi a dire che una foresta tropicale e il giardino di casa nostra sono la stessa cosa: eppure non abitiamo la foresta tropicale, e non lo facciamo di certo perché ognuno di noi abbia provato ad abitarla. Non lo facciamo perché sentiamo che è reale in un senso ostile, che non è il nostro mondo, perlomeno non come lo è il giardino di casa. Perdere il mondo significa perdere il senso dell’abitabilità del reale, perdere il proprio ambiente.
Lasciando da parte depressioni o patologie varie per accedere a questa comprensione ispirata dal fenomeno stesso, la questione dell’hikikomori riappare sotto una luce totalmente rinnovata. Hikikomori può riguardare (e, di fatto, riguarda) ogni cultura in quanto produzione umana, perché ha a che fare con ciò che di comune e unificante risiede nel concetto stesso di umano. Usciamo dagli schemi razionalizzanti tipicamente Occidentali: di che cosa ci parla il fenomeno hikikomori? Può parlarci di INCEL, maschi che odiano le femmine perché non riescono a gestire la competizione per l’accoppiamento, così come può parlarci di correnti culturali ormai totalmente introverse, se non di interi Paesi in rotta di collisione con la realtà esterna. Si può leggere la vicenda di certa parte del Cristianesimo occidentale in questi termini, così come il fanatismo di molte minoranze totalmente chiuse nel proprio mondo ideologico, che non coincide con quello reale. Che queste in particolare recitino la parte del leone in un certo momento storico è puramente contingente, perché al mutamento delle cose esterne non seguirà mai un mutamento in esse. A ben vedere, la maggior parte delle tensioni culturali e sociali del nostro tempo è di tipo ‘hikikomoriko’: ognuno, direbbe Wittgenstein, è convinto di sapere cosa è uno scarabeo guardando solamente alla propria scatola, e l’intersoggettività è relegata a funzione dell’utilità. In parole povere: non gioco con te a pallone perché siamo amici, gioco con te perché pur vedendo le cose in maniera totalmente opposta e credendo fermamente tu ti sbagli, mi serve (in senso ampio) giocare con te ora.
Hikikomori, dunque, non è soltanto chi si chiude materialmente in una stanza: hikikomori è chi rifiuta il reale in quanto mondo, perché ha perso di vista il mondo degli altri. Un interessante studio ha mostrato, in questo senso, che il meccanismo della solitudine sociale si sviluppa secondo un circolo vizioso concettualmente indistruttibile: se credo di essere solo, interpreterò ogni richiamo ad uscire dalla mia solitudine come fittizio, potenzialmente ingannevole. Sono solo, nessuno può volermi; nessuno può volermi, perché sono solo (Vanhalst et al., 2015). Che guadagno c’è ad esser soli? Non si perde totalmente il mondo. A ben vedere, perdere totalmente il mondo significa cessare di esistere: anche l’hikikomori ‘classico’ ha un suo mondo, che non permette ad alcuno di contestare. Il problema, invece, di essere soli, è banalmente questo: troppi mondi sono semplicemente troppi. Il secolo che ci accingiamo a conoscere nel profondo è frutto di illusioni tanto radicate quanto potenzialmente esplosive: che ognuno possa ‘crearsi un proprio mondo’ non è libertà, è puro arbitrio; che l’interiorità intesa come totale soggettività valga più dell’esteriorità intesa come campo di confronto e oggettività, è puro invito alla violenza. Cartesio aveva già intuito questo punto di metodo: la volontà è terribilmente più ampia ed estesa dell’intelletto, posso volere molte più cose di quelle che capisco. Presto o tardi, i desideri cominciano a collidere tra loro quando sono frutto di una volontà poco educata; e la volontà come espressione di totale autodeterminazione è per definizione ineducabile, perché chiusa ad ogni eteronomia. Non è questione di profetare, né di tracciare linee di sviluppi storici a venire: di sicuro, è difficile capire dove si stia andando. Ma bisogna anche ammettere che i sintomi delle patologie del nostro tempo sembrano farsi sempre più evidenti e per accorgersene basta lasciarsi mettere in discussione dalla realtà di tutti.