Sam Altman, supremo moloch di OpenAI e creatore di ChatGpt, ha dichiarato che l’intelligenza artificiale ha definitivamente superato quella umana per prestazione e profondità. La singolarità è quindi arrivata, inverando le profezie di Kurzweil. In questo momento l’IA ha effettivamente raggiunto il cielo, superando i suoi creatori. Se questo entusiasmo non suonasse come una sospetta manovra di marketing ci sarebbe poco di cui essere felici. Anche perché, al progredire di quella artificiale non è seguito un avanzamento dell’intelligenza umana, la quale sembra essere anzi regredita a quello che i grandi antropologi del passato definivano “pensiero magico”, nello specifico proprio nel rapportarsi con la sua controparte digitalizzata. Un tipo di pensiero esaminato per la prima volta osservando il comportamento degli esseri umani non civilizzati ed oggi tornato tremendamente attuale.
Che cosa immaginava un selvaggio mentre osservava sgomento il chiarore del fulmine o veniva intimorito dal rombo del tuono? Come reagiva il primitivo dinnanzi all’inconoscibile manifestarsi delle forze naturali che non riusciva a comprendere? O, a voler guardare più vicino a noi, l’incolto contadino davanti al male improvviso che colpisce un suo congiunto?
Nell’eterno fluire del tempo la mente umana deve aver mantenuto quella medesima, mitica impostazione “bicamerale” descritta straordinariamente da Julian Jaynes nel suo capolavoro Il crollo della mente bicamerale, ossia quell’idea secondo cui all’aspetto razionale del cervello si accompagna sempre una parte maggioritaria incosciente, soggetta al potere delle voci e delle visioni. Ciò avviene nei momenti di difficoltà cognitiva, di incomprensione. Achille, quando si trova indeciso su quale azione intraprendere, quando ha dei dubbi sul suo essere-nel-mondo, riceve nella sua testa la voce allucinatoria della divina madre Teti che giunge a guidarlo.
Tale impostazione concettuale è all’origine del magismo. La magia diviene la spiegazione che l’uomo irrazionale attiva quando non comprende ciò che si manifesta davanti a sé. O ciò che utilizza. La tecnica odierna, di cui l’intelligenza artificiale è la più nota epitome, non può che generare lo stesso tipo di reazione nell’uomo contemporaneo.
Quasi nessuno tra coloro che si approcciano alle manifestazioni della tecnica conosce il funzionamento intrinseco degli strumenti alla sua portata, ad esempio come un’intelligenza artificiale riesca a rispondere in modo così esaustivo alle domande che le vengono poste. Questa mancanza di conoscenza viene compensata dalla meraviglia (e dall’utilitarismo) rendendo gli uomini contemporanei tanto simili ai loro antenati primitivi.
Per comprendere quale sia oggi il rapporto umano con la tecnologia occorre rileggere gli scritti del grande e colpevolmente dimenticato antropologo Lucien Lèvy-Bruhl. Ne La mentalità primitiva così descrive l’attitudine mentale del selvaggio osservato:
«Fermarsi alla prima percezione che ha delle cose e non ragioni se non può fare a meno. […] Ciò che egli non afferra immediatamente con la percezione dei sensi è stregoneria o azione magica: riflettervi maggiormente sarebbe uno sforzo del tutto inutile.»
Se non sapessimo che una simile posizione è contenuta in un’opera datata 1922 penseremmo si tratti dell’intuizione di un sociologo particolarmente illuminato. Tale approccio alla realtà è ciò che viene definito “pensiero magico” ossia l’attitudine a collegare cause ed effetti senza una riflessione. In altre parole, accettando senza capire. Ma usare qualcosa senza sapere cosa sia non è l’equivalente concettuale di prodursi in un rituale magico per scongiurare un evento infausto?
Da Bronislaw Malinowski fino al nostro Ernesto De Martino, la visione è concorde: il pensiero magico è ciò che definisce un perimetro entro cui esistere, una metafisica impoverita, utile ad evitare lo smarrimento. Una risposta della mente all’incomprensibile. L’uomo si affida alla tecnica senza alcuna coscienza di ciò che essa rappresenta, del funzionamento intrinseco degli strumenti di uso quotidiano, del motivo per cui essa è tanto affascinante e funzionale.
È L’abbandono, per dirla con Heidegger. La mancanza di confronto tra ciò che emerge dal mondo della tecnica e l’impreparazione cognitiva dell’essere umano medio. Che però, come i suoi colleghi selvaggi, non ha poi tutta questa voglia di farsi domande.
L’intelligenza artificiale è la magia del nostro tempo, quel fenomeno a cui tutti guardano e che tutti ammirano senza che nessuno si chieda cosa sia davvero. Il grande sciamano dell’era urbanizzata che fornisce responsi oracolari a cui tutti credono senza che mai alcun dubbio giunga a turbarli.
Come Caterina Rosa, la “donnicciola” manzoniana descritta nella Storia della colonna infame, dinnanzi al tremendo e desolante spettacolo della vita offesa (nel suo caso dalla peste del Seicento a Milano, nel nostro dalle sempre più precarie condizioni sociali) cerchiamo risposte semplici e nuovi oracoli da ascoltare. Nel fluire incessante del progresso e della civilizzazione assistiamo al ritorno del pensiero magico come canone concettuale dominante. Nella politica, nel lavoro, nell’amore, nel rapporto con la tecnica e nell’entusiasmo verso tutto questo. E dunque, alla venuta dei nuovi primitivi. Basta guardarsi un po’ intorno.