Il 15 giugno, il Commissario per il Mercato Europeo Thierry Breton ha esortato l’Unione Europea ad accelerare quanto già intrapreso da qualche anno: cancellare Huawei. In questo senso, cancellare significa evitare che l’azienda cinese ricopra funzioni chiave nella fornitura e nella manutenzione delle infrastrutture digitali europee. Ciò si allinea ad una ben più incisiva sterzata nell’approccio Europeo alle tecnologie digitali. Se sorvegliare è punire, l’UE e alcuni suoi Stati membri hanno messo al bando l’utilizzo ricreativo di TikTok per tutti i dipendenti delle istituzioni pubbliche. Troppo alto il rischio di consegnare dati critici alla Cina, nonché quello di includerla nella costruzione di asset strategici. La Francia ha addirittura esteso il divieto a Instagram e Twitter, in un’ostentata quanto irreale equidistanza tra Washington e Pechino, eterno cruccio di Emmanuel Macron.
Fuori dall’UE, la Svizzera ha già bandito l’utilizzo di WhatsApp, Telegram e Signal per la comunicazione interna delle forze armate. Negli USA, se la retorica anti cinese è stata brandita tanto da Trump quanto da Biden, lo Stato del Montana è passato alle maniere forti, bandendo definitivamente TikTok lo scorso maggio su tutto il territorio. In Russia, lo scoppio della guerra in Ucraina ha decretato lo shutdown di Facebook e Instagram, etichettandole come “compagnie estremiste”. Che dire poi della Cina, che da anni filtra e censura, più o meno efficacemente, il flusso di dati da e per il paese attraverso un sistema hardware che centralizza i flussi attraverso dei ben facilmente controllabili entry point. Fun fact: molti dei componenti tecnici sono prodotti dall’americana Cisco.
È l’internet fatta a pezzi, come titolano Vittorio Bertola e Stefano Quintarelli. Ma se il fenomeno è sulla bocca di tutti, e tanto gli utenti quanto i policy maker si riempiono la bocca di “sovranità digitale” alla prima occasione utile, è anche vero che tutto ciò è mal interpretato dai più. Serve ribadirlo: non c’è il rischio, almeno nel futuro prossimo, che parti di internet si stacchino e diventino incompatibili a livello tecnico. Si tratta di una struttura ormai irrinunciabile per qualsiasi Stato-nazione che punti ad essere minimamente presente sullo scacchiere globale. Anche i vantaggi economici di una forte e salda presenza nell’online sono inestimabili.
Ma cos’è che non quadra allora? Ci sono almeno due aspetti da considerare. Il primo: se le prospettive offerte dalla digitalizzazione spaziano dalla geopolitica all’economia, fino a ciò che il filosofo Luciano Floridi definisce una “ri-ontologizzazione” delle categorie umane, allora ogni Stato è sempre più deciso a prendere in mano la situazione, anziché continuare a delegare ruoli chiave a compagnie private, spesso straniere. Secondo: non si tratta solo di uno scontro tra pubblico e privato. Anzi, queste categorie non sono mai esistite in Cina, e a ben vedere sono difficilmente identificabili anche nel modello di innovazione implementato dagli USA, come ci ha insegnato Mariana Mazzucato. Grandi compagnie private come Amazon, Meta, Alibaba e TikTok agiscono spesso come longa manus degli Stati nazionali entro i quali risiedono. E se è vero che queste compagnie sono sovrane nel cyberspazio che hanno creato, e i loro CEO incontrano regolarmente attori politici centrali, come nel recente caso di Elon Musk e Giorgia Meloni, non si dimentichi che queste compagnie esistono solo entro giurisdizioni “offline”. Ciò che si definisce “cloud” è in realtà un enorme, costoso e inquinante insieme di datacenter localizzati entro confini nazionali. I flussi di dati, inoltre, non viaggiano nel cielo: il 95% di essi passa attraverso fragili cavi sottomarini in fibra ottica, la cui costruzione e installazione sono così costose da richiedere la co-partecipazione di più Stati nazionali sottoforma di consorzi.
Il panorama è intricato, per usare un eufemismo. Interessi pubblici e privati si intrecciano ad uno sviluppo digitale e tecnologico ben più rapido di quanto lo sia il passo di policy maker ed esperti. È anche l’epoca dell’intelligenza artificiale, ma qualcosa è cambiato rispetto agli anni Novanta, quando le tecnologie digitali venivano celebrate come uno strumento di liberazione da disuguaglianza e dagli Stati nazionali. Sufficiente pensare a John Perry Barlow, che nel 1996 dichiarò l’indipendenza del cyberspazio, attuando la rivoluzione hippie californiana attraverso le tecnologie nate per mezzo di investimenti di miliardi di dollari stanziati dal Pentagono. Ora, invece, ogni nuova scoperta è guardata con inquietudine, tanto dai politici, quanto dagli utenti. A volte persino dagli stessi sviluppatori. È così che, lo scorso maggio, Geoffrey Hinton, pioniere e “padrino” dell’IA, ha lasciato Google a causa dei possibili sviluppi nocivi della tecnologia che lui stesso ha contribuito a plasmare. Se Ithiel de Sola Pool parlò, negli anni Ottanta, di tecnologie di liberazione, oggi il sentimento è assai diverso, quasi agli antipodi. Chi ci doveva salvare dallo Stato, ora ci sorveglia; chi ci doveva rendere ricchi, ora ci ruba il lavoro; chi ci doveva donare conoscenza illimitata, ora ci consegna la nostra dose quotidiana di fake news e odio prêt à porter. In questa quarta rivoluzione scientifica, l’uomo pare sempre più relegato ai margini, non solo ancillare, ma succube di una macchina che gli si è rivoltata contro.
Cos’è, allora, la sovranità digitale? Dipende. Per molti, è il tentativo maldestro di riprodurre l’autorità vestfaliana dello Stato-nazione su di un non ben identificabile cyber-spazio. Per altri, come la Russia e la Cina, è una possibilità storica di mettere in discussione l’attuale regime di governance digitale generato e salvaguardato dal ruolo egemone degli Stati Uniti. Per le due potenze, che gli americani chiamano “revisioniste”, la competizione globale si intreccia inevitabilmente con una nuova corsa agli armamenti, dove chi arriva primo detta le regole. Delle due, è la Cina che sta speronando maggiormente il primato statunitense. D’altro canto, la Russia ha iniziato dal 2010 un’opera di staccamento dall’internet global e di creazione di uno spazio digitale russo, spesso chiamato Runet. Dove c’era Facebook, ora c’è VKontakte; dove non c’era Twitter, ora c’è Odnoklassniki. Se WhatsApp resiste, è messo sotto continua pressione (e multe) per via della nuova legge sull’Internet Sovrano del 2019, che obbliga ogni compagnia digitale a stoccare dati sul territorio russo e a renderli disponibili su richiesta delle autorità. WhatsApp, sfortunatamente, crittografa i contenuti dei messaggi personali dal 2016. Ma sarebbe sbagliato pensare che tentativi statuali di centralizzare, controllare e riformare il cyberspazio siano appannaggio esclusivo di Stati autoritari o dittatoriali. Nel Regno Unito, ad esempio, si sta discutendo un disegno di legge che obbligherebbe le compagnie digitali a fornire alcuni dati e metadati sensibili previa richiesta legale. Ovviamente, ciò è impossibile se le compagnie in questione implementano la crittografia end-to-end, il cui utilizzo è ormai diventato uno standard dopo le rivelazioni di Snowden nel 2013.
In Unione Europea, invece, la sovranità digitale è all’ordine del giorno, comparendo su una miriade di documenti istituzionali, e acquisisce sfumature peculiari. Non c’è alcuna volontà di ristrutturare la governance di internet in senso multilaterale. C’è invece la speranza che una più intensa regolamentazione delle tecnologie digitali possa servire a codificare in rete alcuni diritti umani storicamente dati per scontati ed altri che stanno invece nascendo. Si pensi al controllo che i cittadini europei possono esercitare sui propri dati personali, sancito dal GDPR nel 2016. C’è anche la più opaca speranza che un’Unione Europea innovatrice ed economicamente attiva possa rimediare alla storica subalternità tecnologica agli USA (e alla Cina), rendendosi autonomi a livello di catena del valore, specie quando si tratta di microchip, e di servizi digitali, riducendo la dipendenza da piattaforme statunitensi e cinesi. Ma è lapalissiano: se l’UE è riuscita con successo ad imporsi come potenza regolamentatrice sullo scacchiere globale, ciò è stato possibile solo perché ha potuto esercitare il suo potere sulle piattaforme americane che, adeguandosi, hanno esportato molti degli standard europei nel mondo. Stimolare la versione digitale della macroniana “autonomia strategica” potrebbe portare, per paradosso, a ridurre l’influenza della regolamentazione europea nel mondo.
A questo punto, è evidente che ci sia un enorme elefante nella stanza: ma cosa ne pensano gli Stati Uniti? Da posture difensive a velleità revisionistiche, la sovranità digitale pare imporsi come strategia diffusa di riduzione della versione digitale dello strapotere americano sul globo terracqueo. Si, perché il potere americano sulla rete non viaggia solo ad un livello visibile, ma è infrastrutturale. Si citano tendenzialmente i Big Tech americani e tanto basta a creare un consenso generale sull’egemonia americana. Ma il ruolo pionieristico che gli USA hanno giocato nella seconda metà del Novecento conferisce loro un’influenza profondissima. Per fare un esempio: i “top level domain name”, solitamente marcati come .it o .edu, per fare un esempio, sono memorizzati in dei server localizzati in Virginia. Ciò dà la possibilità al governo americano di sequestrare unilateralmente i domini di quei siti che violano la legge USA. E se è vero che il gigante a stelle e strisce sente il fiato sul collo della competizione cinese, è ugualmente vero che non ha perso tempo in indugi. Nel 2022, il CHIPS and Science Act unito all’Inflation Reduction Act non ha solo creato le condizioni per lo sviluppo di un’industria americana di componenti chiave come i chip, ma ha anche dato il via all’internalizzazione della produzione taiwanese entro i confini americani. È solo una delle tante facce dei processi di internalizzazione che stanno facendo seguito all’età della globalizzazione, che, se non è finita, di certo non si sente tanto bene. Infine, gli USA di Trump hanno anche dimostrato come si può stroncare un gigante in ascesa. A seguito del divieto imposto dall’ex presidente tramite il HUAWEI Ban, il colosso Google decise di obbedire revocando ogni licenza al gigante cinese, decretandone la fine del successo mondiale. E se ciò si è riverberato in ritardo in Europa, dato il ruolo di Huawei nella costruzione di reti 5G nazionali, il già citato annuncio di Breton riconferma la forza muscolare americana.
Una cosa è sicura: ci troviamo in un’epoca storica di consenso generalizzato. Che sia in nome dei diritti umani, della supremazia globale, dei diritti dei consumatori o della competizione militare, pressoché ogni gruppo sociale si trova d’accordo sulla necessità di riportare il digitale sotto il controllo di meccanismi politici che, se non so proprio democratici, sono quantomeno appannaggio di entità statuali ben visibili. Fra chi si fida dello Stato e chi lo ritiene perlomeno un nemico ormai conosciuto, gli oscuri meccanismi di protocolli, software, machine learning e IA spaventano i più. Ancora una volta: che cos’è la sovranità digitale? Di certo un orientamento regolatorio ampiamente diffuso. Per alcuni, è la necessità di disporre di un mezzo nuovo per sovvertire l’ordine costituito. Per altri, una forma di lotta per i diritti umani nell’epoca digitale. Per pochissimi, qualcosa da rigettare in nome di un internet libero e spontaneo. Infine, è anche la dolce illusione che processi sociotecnici nuovi possano essere riportati sotto il tallone di meccanismi burocratici ben più conosciuti e rassicuranti. La sovranità digitale, di sicuro, segnerà questo decennio. Nel bene e nel male.