La mitologia politica è la poesia del potere. Una dimensione lirica e sacrale che coinvolge, unisce, mobilita tramite un complesso sistema di miti, simboli e idee, che agisce a livello inconscio ed immaginale. L’apparato mitologico-politico, infatti, non nasconde la verità, la filtra; non rivela la realtà, la sogna; non risolve i problemi, li esorcizza e inscena. Attraverso un arsenale mitico e simbolico che vuole costruire un ordine spirituale in cui integrarsi, riscoprirsi e identificarsi. Con parole evocative, iconografie ancestrali e vaghi quanto illimitati retaggi culturali. In questo senso indagare la vita politica italiana alla luce del mito (e delle mitologie) appare come una inusuale chiave per comprendere il nostro Paese. Una chiave innovativa per analizzare la storia politica italiana che, nonostante sia stata trascurata dagli storici e incompresa dall’opinione pubblica, presenta spunti cruciali per comprendere il presente e i suoi antefatti. Per tale ragione è importante riflettere su quanto scrivono Antonio Pilati e Riccardo Pugnalin nel loro Mitologie italiane. Idee che hanno deviato la storia (LUISS University Press, 2023). Un saggio-pamphlet densissimo e brillante che affronta i principali nodi e caratteri delle mitologie politiche italiane. In questo testo Pugnalin, alto dirigente del settore privato, responsabile delle relazioni istituzionali di Autostrade ed esperto di storia dei movimenti politici, e Pilati, saggista e civil servant (recentemente scomparso), si addentrano in una controstoria dell’Italia “alla luce del mito” ricca di spunti e suggestioni.
Un saggio che mostra le mitologie come arsenali di simboli, riti, idee che muovono, condizionano, orientano e ispirano i popoli che ne sono incantati tramite strumenti irrazionali e ancestrali, ma anche concreti e contingenti. Insegnano Pilati e Pugnalin, infatti, che le mitologie non cercano una giustificazione, ma una mobilitazione, una ricostruzione, una identificazione. Non dimostrano, risvegliano, non spiegano, evocano. Sono perciò avulse da ogni preoccupazione sulle conseguenze dei propri imperativi, né hanno scrupoli sulle ambiguità che esse animano. Inoltre, la teoria mitologica riguarda le motivazioni e le costruzioni che danno vita alle prerogative dell’azione politica: criteri decisionali, promesse, incentivi. Le mitologie politiche sono, quindi, dei “prepoteri spirituali” che identificano strategie vincolanti sul lungo periodo, regolano conti e contrasti, coinvolgono e assimilano i ceti sociali (specie quelli emergenti). Motori irrefrenabili di decisioni politiche che operano in maniera inconscia sull’azione politica sia con effetti costruttivi, che con effetti distorsivi, tramite una “determinazione sacrale”.
“Vere e proprie miniere di strategie” che operano a livello simbolico formando l’educazione sentimentale delle masse, rispetto ai catechismi politici (le ideologie), che ne disciplinano i comportamenti e ne orientano e valorizzano le forze spirituali e recondite. Esse operano in una prospettiva comune, rassicurante, identitaria, offrendo ai singoli un destino, e ai popoli una tradizione, una missione. Regalando un avvenire tanto appetibile nei suoi esiti, quanto confuso nei suoi effetti.
L’opera di Pugnalin e Pilati però non è solo una fenomenologia delle mitologie politiche, ma è anche una controstoria della vita politica e culturale italiana.
Secondo gli autori, nella nostra storia due sono state le due principali mitologie: quella “unitaria”, e quella “europeista”. La prima esprime una coesione e mobilitazione in nome di un ancestrale primato morale e spirituale degli italiani. Affidando agli italiani l’eredità di un passato sproporzionato da risvegliare, quasi da vendicare, nel presente. Un “primato romano” che porta ad una concezione velleitaria, aggressiva e agonistica del nostro Paese che ha animato tutta la stagione del Risorgimento e che si è conclusa nel 1943. Che se da una parte ha cercato un punto di unione in una rinnovata maiestatis nazionale dall’altro però ha portato ad un confuso protagonismo, con “piccole ali e sconfinati ideali”, che di fronte alla magniloquenza dei suoi propositi si è scontrata anche con la modestia dei suoi esiti. Risultati condizionati da errori di valutazione in eccesso che hanno portato ad episodi come la disfatta di Adua e le miserie della guerra in Grecia, per fare degli esempi.
La mitologia europeista, invece, si presenta come la mitologia del deprezzamento, figlia di decenni del mito degli italiani “brava gente”, e della tendenza alla porosità. Seguendo la vulgata che nel multilateralismo estero vede un modo per correggere i propri errori storici. Essa, che è cosa ben diversa dall’europeismo, nasce già negli ultimi anni della prima Repubblica e trova la sua più concreta attuazione dal 1992 in poi. Tale mitologia non va confusa con un sano spirito europeo (alla Schumann e Sforza), ma con quello che l’ambasciatore Sergio Vento ha brillantemente definito come “eurolirismo”. Un eurolirismo che consiste in una visione idealizzata, poetica, irreale, fideistica, provvidenzialistica del proprio rapporto con l’Europa. Un atto di fede che spesso nel proprio deprezzamento trova un alibi per surrogare la porosità del nostro Paese. Facendo della mitologia europeista un alibi delle piccolezze di una certa classe politica che mitizzandone gli accenti ha puntato su una omologazione sostanziale e retorica che ha ostacolato le differenze e le spinte nazionali (e soprattutto politiche).
Entrambe le due mitologie presentate dagli autori nel loro saggio appaiono contraddittorie, incapacitanti, distorsive e divisive, soprattutto nei loro aspetti più propagandistici. La prima perché forzando all’eccesso tutti i caratteri nazionali, ha impedito però una sintesi vera e propria delle differenze del nostro patrimonio spirituale, ostacolando una concreta coesione nazionale e alimentando una divisività internazionale spesso sfociata in (dis)avventure militari. La seconda, invece, rivendicando una curiosa concezione del multilateralismo in cui l’Italia deve adeguarsi alla dimensione internazionale abbandonando i propri interessi in nome di un primato della subordinazione e una mitizzazione dei propri alleati stranieri, ha prodotto, invece, debolezze e impotenze. Una mitologia che si mostra quasi come il rovescio di quel velleitarismo romano della sua fase precedente, che in realtà è un cosmopolitismo che poi si fa “nazionalismo straniero”. Una condizione di apertura incondizionata alle altre potenze che però recide ogni dialettica interna tra alto e basso in nome dei sovrani indirizzi degli altri, mascherando solo piccoli interessi particolari e ricerche di prebende. Due mitologie che mostrano, per dirla con Geminello Alvi, come “da noi tanto sono alte le morali, quanto più miserabili gli atti”.
Ma alla puntuale analisi tipologica delle mitologie italiane segue poi anche una ricostruzione dei veri nodi del Paese e dei suoi caratteri fondamentali. Tramite una ricostruzione sia delle conseguenze delle mitologie che delle fasi in cui esse non erano egemoni come durante la “prima parte della Repubblica” (per dirla con Spadolini). Pagine che meritano una menzione speciale perché mostrano che quando si opera con un atteggiamento pragmatico e realistico orientato ai veri problemi del Paese (come durante i governi De Gasperi o nei governi Craxi e Spadolini), non solo si difendono i propri interessi strategici e politici, ma si sa partecipare a progetti ed orizzonti internazionali in modo cruciale. Esempi la cui lezione andrebbe riscoperta, sia in politica estera che in politica interna.
In questo senso il testo si configura anche come una storia del potere letta con la cifra della “visione”, tanto che nelle ultime pagine viene descritta la lenta emorragia del potere politico verso le tecnocrazie, le burocrazie, le oligarchie e la magistratura.
È, quindi, cruciale recuperare l’importanza di un approccio realistico, politico, pragmatico per affrontare e soprattutto capire i veri problemi del Paese. Ad esempio, la questione delle rendite e delle prebende a cui è giustamente dedicato il post scriptum dell’opera, in cui si mostra come e perché siamo ancora una “Repubblica fondata sulle rendite”.
In conclusione il testo di Pugnalin e Pilati si presenta come un monito per “estrarre, produrre nuove soluzioni pragmatiche e demitizzanti per ritrovare una strada che concilii identità nazionali, libertà e crescita.” Un monito più che mai attuale.