Quest’anno Rizzoli ha pubblicato, in traduzione, l’ultimo saggio di Margaret MacMillan, storica di Oxford, intitolato War: come la guerra ha plasmato gli uomini. Il testo in lingua originale ha avuto un clamoroso successo negli Usa e in Inghilterra. Addirittura il New York Times lo ha definito come uno dei migliori dieci libri dell’anno per il 2020. Con molta presunzione intellettuale, che forse è anche normale per un accademico di Oxford, l’autrice vuole arrivare a spiegare con motivi razionali e scientifici perché avvengono le guerre. Un po’ come spiegare il sesso degli angeli. Il risultato è una centrifuga di nozioni di storia della filosofia, filosofia politica e sociologia che la dicono tutta sul grado di preparazione dei docenti nelle blasonate accademie inglesi.
Secondo la MacMillan la guerra è una necessità storica e dunque non può essere considerata un’aberrazione. Essa infatti è artefice dello sviluppo della società attuale. Riprendendo il motto eraclieto che tutto è polemos:
“Se vogliamo capire il mondo in cui viviamo e come siamo arrivati al momento presente, non possiamo ignorare la guerra e quanto essa abbia influito sullo sviluppo della società”.
L’assunto di partenza è che la guerra è un atto puramente umano, una violenza organizzata che è sempre stata presente nell’evoluzione dell’uomo, seppur in forme diverse, in società diverse che hanno combattuto guerre diverse. Le popolazioni nomadi hanno combattuto guerre di movimento; invece quelle stanziali combattevano una guerra di difesa delle loro terre, fortificate e dotate di mura. Nel corso dei secoli la guerra ha costretto l’uomo a concentrarsi sullo sviluppo tecnico e scientifico ed anche a riorganizzare la società. Ma contemporaneamente la guerra è stata influenzata dallo sviluppo tecnico, scientifico e dalla cultura. Secondo la storica:
“Cultura, tecnologia e guerra dipendono a tal punto l’una dall’altra che è difficile dire con certezza chi faccia traino”.
War, Macmillan
Tramite queste connessioni tra cultura-tecnologia-guerra quest’ultima fa, dunque, a sua volta, da stimolo allo sviluppo della tecnologia, ma allo stesso tempo prende dalla tecnologia quello che le serve. Per argomentare questo, la MacMillan spazia dalla storia antica all’età contemporanea: come primo esempio la Roma repubblicana, in cui il sistema delle leve venne inventato per produrre il vino, ma fu poi adattato a scagliare massi contro gli assedi nemici; poi la Francia del XI secolo, in cui i fabbri che utilizzavano le leghe metalliche per fondere le campane che adornavano i campanili delle chiese gotiche utilizzarono gli stessi procedimenti per costruire i fusti dei cannoni; oppure, per arrivare all’età contemporanea, la ricerca di Albert Einstein sulla teoria della divisione dell’atomo, che venne messa in pratica dagli Stati Uniti per la costruzione della bomba atomica. Anche la cultura è considerata un fattore scatenante degli eventi bellici; ne è un esempio lo sviluppo del pensiero nazionalista a cavallo tra fine Ottocento e inizio Novecento, favorito dal lavoro di etnografici, storici e intellettuali pubblicisti che riuscirono a influenzare le classi sociali più basse d’Europa grazie allo sviluppo dell’alfabetizzazione di massa. Con lo sviluppo delle società liberali, in cui venne garantito il suffragio universale, i governi costituzionali garantivano al popolo di interagire in modo diverso per quanto riguarda le scelte politiche interne ed esterne del proprio paese. Il nazionalismo fece da connettore tra soggetti che prima di allora non si erano mai sentiti come parte di una “Nazione“ unita da un’unica cultura tra religione, lingua, storia, razza e unicità biologica. I progressi dell’istruzione favorirono l’unità linguistica e di conseguenza lo spirito nazionale. Nei paesi occidentali, l’istruzione nazionale promosse lo studio in chiave mitologica della storia sull’origine della nazione, in cui venivano esaltati dei momenti di gloria e allo stesso tempo di umiliazioni. In Germania, lo storico Heinrich Treitschke, alla vigilia della Prima guerra mondiale, tenne delle conferenze in cui sosteneva che la guerra unisse i cittadini in una causa comune e da questa faceva nascere l’idea di nazione, che si sarebbe potuta creare, quindi, solo con lo strumento bellico.
Secondo la MacMillan, nello stretto connubio tra guerra e cultura interferì anche la disciplina dell’antropologia, la quale scomodò nientemeno che Darwin, strumentalizzando la sua teoria evoluzionistica e traslandola in ambito sociale: secondo il “darwinismo sociale” la società umana si sarebbe evoluta in simbiosi alla specie umana e in una società riuscirebbe a sopravvivere solamente chi è in grado di adattarsi meglio alle nuove tecniche e tattiche belligeranti. In questo ambito, nel testo viene citato il sociologo evoluzionista Steven Pinker il quale sostiene, semplificando, che nel corso degli ultimi due secoli le società occidentali sono diventate meno violente perché le innovazioni tecnologiche hanno influito sulla creazioni di armi sempre più precise che hanno ridotto il numero delle vittime nei conflitti bellici. Per quanto concerne il fattore società, la guerra moderna ha contribuito a modificarla tramite un crescente sviluppo dell’organizzazione burocratica che ha avuto il suo apogeo tra la Prima e la Seconda guerra mondiale, quando i governi consolidarono il proprio controllo sui cittadini in vista di un eventuale conflitto futuro. In quel periodo proliferarono vari istituti statistici che effettuavano censimenti sulla popolazione e fornivano informazioni demografiche di ogni genere, utili a garantire un quadro dettagliato per quanto riguarda gli uomini idonei al servizio militare.
La guerra, diventata sempre di più parte della vita della società, ha avuto bisogno di essere codificata, riconosciuta legalmente. La conferenza dell’Aia del 1907 determinò dunque delle “leggi di guerra”: norme e convenzioni accettate in un momento e luogo determinati e che avevano l’obiettivo di ottenere un effetto di contenimento.
“La cosa triste della guerra è che ogni tentativo di controllarla e giustificare appare vano e insensato”.
War, Macmillan
Ma le norme di guerra, precisa la storica, con il tempo non si sono evolute nella forma di un codice legale analogo a quello che regola la vita di uno stato. Negli ultimi due secoli gli accordi internazionali, per esempio quelli che si occupano di come regolare gli Stati neutrali durante un conflitto bellico, si sono mescolati con i codici d’onore dei soldati professionisti e con vetuste consuetudini, non scritte, sul trattamento da riservare ai prigionieri di guerra:
“Per secoli, nelle guerre europee, è stata in vigore la norma di non fare prigionieri gli ufficiali: bastava che giurasse sulla parola, in quanto gentiluomini , che non sarebbero fuggiti”.
War, MacMillan
A tre quarti del libro la MacMillan si pone la domanda da un milione di dollari, senza però trovare una risposta: “Gli uomini sono geneticamente modificati per combattersi l’un l’altro?”
Per provare a rispondere non le rimane che andare a ripescare i sempre verdi Rousseau e Hobbes, tentando di dare in due pagine una scadente e banale lezione di filosofia politica:
“Rousseau riteneva che la violenza non fosse parte integrante dell’essere umano. Gli esseri umani, a suo parere, erano stati per natura mansueti finché la società non li aveva corrotti… Hobbes ritrae un quadro alquanto diverso. Nel suo stato di natura , gli uomini conducevano una vita precaria e combattevano l’uno contro l’altro per sopravivvere… L’emergere di un sistema di governo esteso e potente -che Hobbes chiama Leviatano- offrì all’uomo l’opportunità di tenere la violenza sotto controllo, almeno all’interno della società”.
War, Macmilan
A conclusione del saggio la MacMillan prova a esporre una sua teoria sul perché si verificano le guerre. Non brilla certo di originalità sulla teorizzazione di nuove categorie storiografiche ma, anzi, copia i paradigmi della storia dal vecchio Tucidide, buono per tutte le stagioni:
“I fattori che innescano la guerra -avidità, paura, ideologia- continuano a esistere e a caratterizzare l’essere umano così come hanno sempre fatto”.
War, MacMillan
Per lo storico greco la natura umana è mossa da tre istinti principali: philotimia (desiderio di onore), pleonexia (avidità) e phobos ( paura), quelli che successivamente Von Clausewitz, uno che di guerre se ne intendeva, chiamò “le forze morali della guerra.” Ma l’imitazione ai danni dell’autore della Guerra del Peloponneso non finisce qui. Tucidide teorizzò i tre paradigmi per lo sviluppo della storia: anànke (necessità), tyke (contingenza) e anthropeion (fattori umani). La MacMillan declina questi tre fattori al nostro presente, come cause di sviluppo dei conflitti: dalla necessità dipendono le migrazioni, che a loro volta sono legate alla scarsità delle risorse alimentari, al mutamento climatico; le contingenze, ovvero gli imprevisti, non possono essere regolate dall’uomo perché troppo più grandi di lui, come una pandemia o un crollo inaspettato e generalizzato delle borse mondiali; tra i comportamenti umani possono essere inclusi gli errori inaspettati di qualche leader politico/governativo di primo piano. Con la somma di queste tre cause il conflitto armato diventa insuperabile e solamente dopo l’intermezzo bellico si avrà una pacificazione.
Il libro si chiude con una profezia dal sapore apocalittico e che sembra avvicinarsi più al genere del fantasy che ad un saggio divulgativo di carattere storico:
“Combattiamo perché possiamo combattere. Ma questo infinito intrecciarsi tra guerra e società potrebbe – forse dovrebbe – avere fine, e non perché noi siamo cambiati ma perché è cambiata la tecnologia. Con le nuove, terrificanti armi che abbiamo a disposizione, il crescente ruolo dell’intelligenza artificiale, le macchine da guerra automatizzate e campi di battaglia nel cyberspazio, rischiano di essere a un passo dalla fine dell’umanità stessa.”
War, MacMillan