Lubang è un’isola al largo delle Filippine, a 150 chilometri in linea d’aria da Manila, in acque cinesi; di fronte, per intenderci, c’è il Vietnam. L’isola è piccola, ricoperta per lo più dalla giungla, fa sfoggio di un vulcano inattivo. Pare l’Eden: si vive di pesca, in certi luoghi si coltiva il riso, da anni è un’attrazione per turisti gourmet. Il 20 febbraio del 1974, Norio Suzuki, un ragazzo, riesce a trovare quello che cerca. Il fantasma. L’assassino celeste. Il guerriero inossidabile. Non è facile per Suzuki convincere Hiroo Onoda alla resa al secolo: per trent’anni ha combattuto, con una logica che sfiora il delirio, una fibra intransigente, una pazienza che sfocia nella mistica, nella giungla. Non crede che la Seconda guerra sia finita, non crede che il Giappone sia sconfitto – il suo credo è la guerra, è stato edotto dall’invisibile, cresciuto tra le ombre, sapiente nell’arte del crepuscolo e della nebbia. Fedele, soprattutto, al mandato assegnatogli nel tardo 1944, mentre le forze americane fanno sterminio dei cavalieri nipponici:
“Lubang ha un’importanza strategica… Quando l’esercito imperiale tornerà vittorioso, da questo trampolino conquisteremo l’Isola di Manila… Lei sarà un fantasma, inafferrabile, l’eterno incubo del nemico. La sua sarà una guerra senza gloria”.
Per i contadini di Lubang, Onoda era l’incarnazione di un demone, le sue sortite per procacciarsi il cibo – rare, rapide, sobrie – reclamano leggende. In Giappone, l’ottusa fedeltà del soldato disperso nella giungla, è un monito, il simbolo di un popolo indomito, oltre ogni ragione. Abile a nascondersi, lesto ad apprendere i segreti della dissimulazione dagli insetti e dalle bestie della foresta, Onoda è convinto che tutti gli mentano, che l’idolo della menzogna lavori per corrodere la sua fede, vertiginosa. In un mondo di vili, l’accanimento del soldato Onoda ha qualcosa di eroico e di cupo. Ogni obbedienza, in effetti, sovrasta la ragione, si accampa in una zona remota del nostro cuore, squassa il buon senso. Soltanto quando Suzuki accetta di scortare nell’isola uno degli antichi comandanti di Onoda, il soldato cede. O meglio: risponde all’ordine che dissigilla il compito. Che cos’è un compito, d’altronde, se non è sancito dal sacrificio più alto, se non si rispecchia in ogni gesto?
Hiroo Onoda compirebbe cento anni il prossimo 19 marzo; è morto a Tokyo nel gennaio del 2014, incapace di accettare i clamori di una modernità stinta. La sua vicenda fu clamorosa: nel 1975 Mondadori pubblica come Non mi arrendo il diario di Hiroo Onoda, “i miei trent’anni di guerriglia nella giungla delle Filippine”. In era di ipocrita irenismo, il libro è scomparso dai radar dei grandi editori: Edizioni di Ar lo ha pubblicato, nel 2014, come Dietro le linee. Il resoconto non ha nulla di affascinante, dall’angolo letterario: è crudo, spesso prolisso, militare, appunto. Si entra, per lo più, nella logica d’acciaio di Onoda: dietro i diversi tentativi compiuti per disinnescare la sua ormai inutile lealtà alla causa, egli scopre sempre il punto debole, l’incongruo, le sirene del demonio, il desiderio della disfatta. È implacabile, pare che lo appaghi la lotta silente, aliena alla fama, nei recessi della giungla, in condizioni quasi impossibili, sul rasoio di un pericolo costante. Eppure: l’uomo lima il rischio fino a farne il pane quotidiano. Verso le ultime pagine, la commozione sgronda nell’illecito del dubbio:
“Tutti noi avevamo sperato che un giorno saremmo tornati in Giappone. E ora io solo tornavo, lasciando gli spiriti dei miei insostituibili camerati sull’isola. Tornavo in un Giappone che aveva perso la guerra trent’anni prima. Tornavo nella terra dei miei avi, per la quale avevo combattuto fino al giorno prima. Se non ci fosse stata gente intorno a me, avrei battuto il capo per terra, gemendo… Per la prima volta osservavo dall’alto il mio campo di battaglia. Perché mai avevo combattuto laggiù per trent’anni? Per chi avevo combattuto? In nome di quale causa?”.
Nel 1974 David Bowie esce con Diamond Dogs, Thomas Pynchon ottiene il National Book Award con L’arcobaleno della gravità, a Cannes Pier Paolo Pasolini vince il Prix della giuria con Il fiore delle Mille e una notte. Quattro anni prima, in novembre, Yukio Mishima, attraverso un’azione sovversiva, pubblica, tragica e perfino grottesca, si ammazza, chiudendo il senso di un’opera non remissiva, esagerata, in opposizione al secolo. Onoda, in qualche modo, è l’esatto opposto di Mishima: quasi per caso, dopo una breve giovinezza, a Wuhan, di soldi facili e di felice dissipazione, si trova addestrato per la guerriglia; non ha estasi estetiche, non gode degli estremismi degli ipersensibili; trova un’inedita fratellanza nella giungla, una ragione e una origine nella guerra nel fango. È un uomo semplice, in fondo, come quelli reclamati dal fato.
Quando, nel 1997, Werner Herzog è a Tokyo, per mettere in scena Chushingura, non ha dubbi: vuole incontrare il soldato Onoda. Rifiuta – per una specie di accidentale narcisismo – di incontrare l’imperatore: preferisce conoscere il guerriero che per trent’anni ha resistito alla resa, ha messo casa nella giungla. Di fronte a Onoda, astruso residuo di un tempo perduto, martellante icona dell’invitto, tutto un secolo china la testa. Da vecchio, il viso di Onoda si è addolcito, ha l’audacia di apparire inoffensivo. Non doveva essere un grande parlatore, di certo non fingeva di essere un filosofo. Dall’incontro, Herzog trae un libro, Il crepuscolo del mondo (Feltrinelli, 2021), che ha passi di geologica bellezza:
“Il tempo, la giungla. La foresta vergine non conosce il tempo, come se entrambi, simili a fratelli divenuti estranei l’un l’altro, avessero ormai ben poco in comune, come se la loro comunicazione fosse ridotta, al massimo, a una reciproca forma di disprezzo… Come un’eterna, invariabile costante, tutto nella giungla soffoca ogni cosa per catturare qualche raggio di luce in più, e se anche vi sono notti avvolte dall’oscurità, tutto ciò non cambia in nulla la schiacciante e implacabile presenza della giungla”.
In un folgorante articolo del 1988, Bruce Chatwin dà una rapida descrizione di Werner Herzog: “ascetico, con un paio di logori pantaloni militari e una maglietta che lasciava vedere il teschio ridente tatuato su una spalla”. Autoritario, impulsivo, magnetico, Herzog avrebbe tradotto un libro di Chatwin, Il viceré di Ouidah, in film, Cobra verde. Il cammeo dedicato a Klaus Kinski è esatto – “un adolescente di sessant’anni, tutto in bianco, con una criniera di capelli gialli” e “gli occhi artici” – ma è la frase di un produttore hollywoodiano a sancire la personalità del regista tedesco, “Herzog? Non s’imbarchi mai in un viaggio con lui”. Già. Herzog non è affascinato dagli estremisti – se ne trovano ormai dietro ogni angolo – ma dagli estremi, dalle scelte impossibili, dalle vite votate al fallimento, dagli esseri che concimano l’irreale, fuori dal mondo, altri al proprio tempo, sagaci nel maneggiare l’ascia dell’insensato: i Fitzcarraldo, i Kaspar Hauser, gli Aguirre, i Woyzeck, gli illusionisti, i mostri, i perduti. La fascinazione per la storia di Onoda è quasi naturale: l’uomo che si addentra nella giungla, che la addestra senza enfasi, che assiste alla morte dei compagni, che vive l’ineluttabile di un sogno, inebriato e macerato nel suo più atroce albume:
“Ed ecco che d’un tratto accade qualcosa, come se, con fare discreto, il tempo informe del sonnambulismo, fratello naturale del sogno, si unisse – compagno fedele – alle certezze del sogno, nonostante tutto sia reale, immediato, tangibile, inquietante e innegabile nella sua presenza – la giungla, la melma, le sanguisughe, le zanzare, il grido degli uccelli, la sete, il prurito sulla pelle. Il sogno ha il suo tempo, si snoda e riannoda freneticamente in avanti e all’indietro, vacilla, si ferma, trattiene il respiro, compie balzi bruschi come un animale selvaggio quando, ignaro del pericolo, viene assalito all’improvviso. Un uccello notturno piange e un anno intero è passato. Una goccia d’acqua su una foglia lucida di un banano cattura per un istante un raggio di sole, e un altro anno è passato”.
Acclamato dai compatrioti, Onoda non riesce ad acclimatarsi nel Giappone iper-moderno. Si trasferisce in Brasile, pochi mesi dopo il ritorno in patria, al seguito del fratello. In una zona selvaggia del Mato Grosso, inaugura un allevamento di bestiame; spesso viene visitato da alti ufficiali delle forze armate brasiliane. Quando trova Onoda, Norio Suzuki ha 25 anni. Aveva studiato economia, lo affascinavano le storie dei ‘soldati fantasma’ giapponesi. In particolare, era sedotto dalle cose inspiegabili. Nel 1986 intraprende una spedizione nell’Himalaya, certo di poter trovare lo Yeti così come aveva rintracciato Onoda. Morì travolto da una valanga, intorno al Dhaulagiri. Appresa la notizia, Onoda non ci pensò troppo: volò in Nepal e si fece scortare da uno sherpa sulla tomba del ragazzo che lo aveva fatto risorgere dalla giungla filippina. Pregò per lui. Era ritornato in Giappone due anni prima, aprendo la “Onoda Shizen Juku”. Una scuola. Creata, diceva lui, “perché i giovani giapponesi non smarriscano il loro cuore”. Insegnava a orientarsi nella foresta, ad accendere il fuoco, a riconoscere le piante e a distinguere il commestibile dal velenoso. Insegnava a vincere la paura della notte, a costruirsi una casa sommaria nel bosco, a sopravvivere. Qualsiasi cosa accada, non sarai mai vinto, pensava. Aveva semplicemente cambiato il proprio terreno di guerra, il soldato Onoda. Gli piaceva stare coi bambini e non arretrava di fronte all’arrembante orrore del mondo. Nella giungla di Lubang aveva imparato a filtrare l’olio dalle noci di cocco. Gli serviva per conservare lucida, perfetta, inattaccata dalla rabbia dell’umidità, la sciabola di famiglia. Quando lo trovarono, nel 1974, sfoderò l’arma, con orgoglio. Era limpida come una liana di luce, come una fiamma cristallizzata, come la verità. Eccolo, il carisma della fede.