Intervista

“Cerco di evitare la catastrofe”. Nicola Lagioia in profondità

Dialogo con l'autore della "Città dei vivi" dopo sagace litigata telefonica) intorno ad alcune parole capitali: “Realtà”, “Male”, “Potere”, “Letteratura”, “Aldilà”.
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Il ballo dei debuttanti. Più tardi lo definisce, via mail, “minimo riscaldamento per prendere confidenza”. Prima mi fa: “Mi sorprende che tu voglia intervistare uno che disistimi”. Non ho mai scritto che ti disistimo, ma è vero che voglio conversare con chi mi è agli antipodi, altrimenti, che senso ha? “Insomma, è inutile che alzi la voce, stiamo solo parlando, in un articolo poi, in sostanza, mi hai dato del farabutto”. Non ho mai dato del farabutto a nessuno. Mi faccio dare gli estremi dell’articolo. Lo ritrovo. Una frase – con veridica citazione – all’interno di un servizio, pubblicato su “Linkiesta” nel 2017. Ma cosa ti frega delle mie petulanti opinioni: vuoi fare l’intervista o no? “Ma… noi non ci riduciamo mica a un ‘sì’ o a un ‘no’…”, e attacca una gimkana filosofica, quasi un galateo. Ca**i miei, d’altronde. Diciamo: due che si addestrano dando pugni al vento.

Il pretesto. Nicola Lagioia, scrittore, Premio Strega nel 2015, direttore del Salone del libro di Torino dal 2017, giurato alla scorsa Mostra del cinema di Venezia, ha pubblicato un libro, La città dei vivi (per Einaudi, da cui sono partito per ascendere a lui), intorno all’omicidio di Luca Varani. È un libro lucido, scabro, rapido – nonostante le 460 pagine –, simmetrico, preciso. Bello. Sembra scritto ieri: è nel nostro tempo, ma anche fuori tempo. Ricorda A sangue freddo di Truman Capote, per rabdomanzia stilistica e casuali sintonie – lì gli assassini erano Parry Smith e Richard Hickock, qui Manuel Foffo e Marco Prato. Eppure, nonostante il male abbia per emblema il caos, il ‘caso Varani’ è per molti versi più spiazzante e abissale dell’assassinio dei Clutter. Non riuscirei a scrivere un romanzo così: mi interessa capire come la cronaca si pieghi alla letteratura, si spieghi, e viceversa, come riesca il verbo a insinuarsi nella realtà, dove si nasconda, infine, lo splendore. Lagioia mi dice che ha letto i Vangeli per trovare il ritmo narrativo, per calibrare il male in una lingua sobria, esatta.   

Lo spioncino. La città dei vivi, pagina 170. “Una dracma d’oro che compensa la lunghezza delle tenebre”. La frase, bellissima, l’ha scritta Lagioia, ma non l’ha scritta lui. È di Iosif Brodskij, il grande poeta; è un distico, in verità, questo: “Una dracma d’oro è rimasta sopra la mia rètina./ Basta per tutta la lunghezza della tenebra”, dalle Elegie romane (stampa Adelphi, per chi ha voglia). Nessuna nota lo ricorda, lo annoto io, sarà un omaggio, lo spioncino all’altro mondo – la patina apocalittica di Brodskij manca nella traduzione che ne fa Lagioia. Lagioia è un grande lettore di poesia.

Le locuste in gola. Riconosco, per ingenuità, di avere una visione positiva dell’uomo. Gli uomini sono diretti, riconoscibili, assolti, nel bene come nel male. Così mi ostino a credere. Lagioia mi insegna, invece: “guarda che questo è un mondo pieno di rancori taciuti, di pregiudizi; scrivi male di uno e lui è capace di legarsela all’orecchio per anni: fai il giornalista, è giusto che tu lo sappia”. Appunto. Ha come una marea di locuste nella gola, Lagioia, si sente, quando parla. C’è come una perpetua gloria – e una sottile crudeltà.

Realtà. Che cos’è la “realtà”? Il romanzo è ancora efficace a dire la “realtà”, a turbarla? Voglio dire: perché sul “caso Varani” hai scelto di scrivere un romanzo? E cosa si differenzia quel tuo particolare romanzo da un saggio, da una inchiesta, pur dedotta con tutti i crismi narrativi del caso?

C’è una frase di Paul Eluard a cui ho pensato spesso, durante la stesura del romanzo. “Esiste un altro mondo, ma è in questo”. Così come la letteratura, secondo una certa tradizione novecentesca, potrebbe e forse dovrebbe fare il contropelo alla Storia, è certamente capace di farlo con la cronaca. Quando si verifica un fatto di sangue così eclatante e terribile come l’omicidio di Luca Varani, i media si scatenano, e così i social, e così le chiacchiere da bar che, tutti insieme, vanno a comporre il ‘discorso pubblico’, che è sempre un discorso di semplificazione e di deumanizzazione. Per esempio, il discorso pubblico va in cortocircuito davanti all’evidenza che si può essere al tempo stesso colpevoli e umani (quindi non dei mostri), e questo senza naturalmente che la complessità umana dell’assassino ne alleggerisca la colpa, e senza che la colpa annichilisca la complessità umana dell’assassino. La vittima, a sua volta, viene scaraventata dal discorso pubblico in un limbo irraggiungibile, negandole complessità e dunque ancora una volta umanità. La letteratura, invece, può provare a raccontare un’altra realtà, più complessa, più dolorosa (il discorso pubblico è un grande anestetico) e forse, per questo, anche minimamente liberatoria o trasformativa. È un tentativo di antidoto anche per me, visto che non sono affatto immune alle sirene e alle ipocrisie del discorso pubblico, che però la parte migliore di me (fosse anche minoritaria, ma cerco di proteggerla sperando un giorno prenda il sopravvento) odia con tutte le sue forze.

La letteratura può provare a raccontare un’altra realtà, più complessa, più dolorosa (il discorso pubblico è un grande anestetico) e forse, per questo, anche minimamente liberatoria o trasformativa. È un tentativo di antidoto anche per me, visto che non sono affatto immune alle sirene e alle ipocrisie del discorso pubblico, che però la parte migliore di me (fosse anche minoritaria, ma cerco di proteggerla sperando un giorno prenda il sopravvento) odia con tutte le sue forze.

Nicola Lagioia

Letteratura. Costruito, come si dice, “a orologeria”, con una scrittura solida, rapida, cartesiana, e una vasta dote di dati, il tuo romanzo, va da sé, ricorda tremendamente “A sangue freddo”. Quali sono state, quindi, le tue fonti letterarie nella costruzione del libro? E, vado più a monte, quali sono i libri che ti hanno permesso di consolidare la tua poetica, la tua idea di letteratura?

In realtà durante la stesura di questo libro ho letto molto i Vangeli canonici. Ogni volta che li leggo, non mi capacito di quanto siano belli e potenti. Andavo alla ricerca di una lingua che fosse semplice ma in grado di evocare anche una grande complessità, e anche quell’elusività di cui c’è bisogno davanti a misteri (come quello del Male) che, almeno per me, è impossibile indagare fino in fondo. Andando a monte: sul piano letterario continuo a essere un figlio manchevole del modernismo, che è stata la mia rivelazione e una scuola da cui non si impara mai abbastanza. La scoperta della Terra desolata di T.S. Eliot, da ragazzo (insieme ai Quattro quartetti) è stato un vero detonatore. Da lì Virginia Woolf, James Joyce, Thomas Mann, precursori come Emily Brontë, poeti come Trakl e Celan. Andando sull’altra sponda dell’oceano, sono stati per me fondamentali William Faulkner (il grande cantore del Sud, vengo da Bari) e Emily Dickinson. Ho amato moltissimo i modernisti tardivi come il Malcolm Lowry di Sotto il vulcano, il Mario Vargas Llosa di Conversazione nella Cattedrale (un romanzo che considero molte spanne sopra Cent’anni di solitudine), l’Ernesto Sabato di Sopra eroi e tombe. Ultimamente, il Roberto Bolaño dei Detective selvaggi e di 2666 mi sembra portare avanti quel discorso in modo egregio. Non voglio dire che il modernismo non sia mai finito, ma forse si è reincarnato in nuove interessantissime forme capaci di restituire la complessità del mondo, e continuare a indagarne il mistero.

Male. Che cos’è il “male”? O meglio: perché ti è sembrato che proprio l’omicidio Varani – come lo sterminio dei Clutter per Capote e il caotico, casuale assassinio perpetrato da uno studente russo per il Dostoevskij di “Delitto e castigo” – dicesse qualcosa di irrevocabile sul male, sull’uomo?

A un certo punto della mia ricerca, un colonnello dei Carabinieri mi ha parlato dell’omicidio Varani come di un caso di possessione. Il male come possessione. Si può leggere questa dichiarazione sia in chiave religiosa che in chiave evolutiva. L’istinto di sopraffazione e la violenza sono stati a lungo una garanzia per la sopravvivenza della specie. La civiltà, al contrario, dovrebbe essere un progressivo allontanamento da quella violenza originaria, solo davvero mi sembra che ce ne distacchiamo di un centimetro al secolo. Ricaderci, di conseguenza, nel gorgo di quella violenza, è più facile di ciò che si crede. Foffo e Prato mi sorprendono perché, pur riconoscendosi la responsabilità dell’omicidio (erano entrambi lì, hanno attirato loro Luca in casa di Foffo, e sia pur rimpallandosi il grado della responsabilità riconoscono di averne causato la morte atroce) non riescono a ricondurla a una scelta, al loro libero arbitrio. Ma se manca il libero arbitrio manca anche la colpa, ed è impossibile non considerarli colpevoli. Quale, dunque, la loro colpa? Se un uomo sale al comando di un aereo senza brevetto di volo e si schianta al suolo con tutto l’equipaggio senza volerlo, la sua colpa retrocede cronologicamente nel non aver imparato a governare il mezzo ma c’è, è ineludibile, e non può sparire nel nulla. Ho l’impressione che Prato e Foffo avessero una grandissima difficoltà a distogliersi da se stessi. Siamo tutti sprofondati nell’incultura del narcisismo (che fa del male sia al narciso che a ci gli sta intorno) ma in loro questo problema mi sembra raggiunga livelli più che allarmanti. Se te ne stai tutto il tempo a guardarti nello specchio (fosse pure per contemplare i tuoi problemi e i tuoi dispiaceri) non riuscirai mai a conoscerti. Ci conosciamo attraverso gli altri, la differenziazione. Prato e Foffo – per tanti altri motivi – non riescono a costruirsi un’identità abbastanza solida, quindi sono più facilmente preda della possessione malvagia. La loro colpa sta nella loro debolezza, e la loro debolezza è colpevole. Questo non significa che un’identità forte debba essere anche rigida. Spesso è vero l’esatto contrario. David Bowie può trasformarsi in donna e tornare uomo, poi diventare marziano, poi cyborg, poi tornare uomo, ma padroneggia perfettamente per così dire il manuale di volo.

Nicola Lagioia vince il Premio Strega nel 2015, con La ferocia

Uomo. Che idea hai dell’uomo, anche alla luce dello scrittore – dell’uomo – che ha scritto “La città dei vivi”? Durante il nostro breve colloquio telefonico mi hai spiegato, diciamo così, che l’uomo è retto dal pregiudizio, dal marchingegno della ripicca e del rancore. Ecco, appunto, ti chiedo, ancora: che visione hai dell’uomo?

Credo che siamo creature in evoluzione. Portiamo addosso moltissime incrostazioni del mondo primitivo (il cervello rettile è ancora attivo in noi), anche quando sono travestite da dopo-modernità: nella famelica attività di molti giganti digitali (pensa a Cambridge Analytica occultata in Facebook) si è traferito molto dell’istinto predatorio e di sopraffazione di cui parlavo prima. La nostra auspicabile destinazione di specie è emanciparci da quella morsa lì (il richiamo del sangue e del dominio di uno sull’altro, le paure ataviche che generano violenza). Non so onestamente se riusciremo a evolverci in modo abbastanza rapido da evitare l’estinzione ma, se la eviteremo, sarà perché avremo dato un’accelerata a quel processo evolutivo di cui parlavo.

Potere. Da tre anni dirigi il Salone del Libro di Torino. Detieni un potere. Anche la fama, la famelica, scelta o meno, pone in una posizione di potere. Ciascuno, vasto o microscopico, detiene la sua porzione di potere. Che cos’è il potere – il potere di poter fare e disfare? T’interessa il potere? (Non vale la risposta di buon senso & di buon gusto).

Il potere mi interesserebbe davvero – a livello di sperimentazione umana – se fosse quello di Eliogabalo, o quello del Caligola di Camus, o dell’Erode della Salomè di Carmelo Bene e ancora prima di Oscar Wilde. Il sogno sarebbe (come in un trip da LSD che va dal peggio al bene, ma che ha bisogno del peggio per arrivare al bene) sprofondare nelle tenebre con Eliogabalo e ritrovarsi ad Assisi con San Francesco, mondato da tutto lo schifo. Quello del Salone, molto più terra terra, è al contrario un esercizio molto faticoso (e a tratti appagante) di equilibrio, concentrazione e tenacia. Nonché dell’arte del compromesso. Quindi, teniamo i piedi per terra e proviamo a capire cos’è ad esempio quello che nel mio caso tu chiami potere (e io chiamo ruolo di responsabilità). Elenchiamo aspetti negativi e positivi. Uno. Il Salone del Libro mi rende meno libero a livello espressivo: sono coinvolte centinaia di case editrici, il Comune di Torino, la Regione Piemonte, il Mibact, il Miur, gli sponsor. Se domani mi svegliassi e volessi scrivere malissimo di uno di loro, dovrei pensarci molte volte, perché così facendo metterei a rischio decine e forse centinaia di persone. Se condividi la responsabilità di una macchina che dà lavoro a tante persone, e genera un impatto così forte a livello economico sul territorio (i ristoratori, gli albergatori, i tassisti, i negozianti di Torino… insomma, un fetta di paese spesso ignota a molti intellettuali ma che io, venendo da origini popolari – contadini da una parte, proletari sottourbanizzati dall’altra – conosco e rispetto molto) ci pensi due volte prima di fare qualcosa che possa nuocere a tutti loro in nome della tua personale libertà. Due. Il Salone mi dà sicuramente visibilità, e soprattutto nei primi anni mi ha molto fatto amare da torinesi e non. E questo è innegabile che mi piaccia e che di questo almeno un po’ io mi compiaccia. Tuttavia, come dire, onore al merito: mi hanno affidato un Salone dato da tutti per spacciato, morto, finito, e in pochissimo tempo lo abbiamo ritirato su, e rilanciato, sopravvivendo (dopo il primo rilancio) al fallimento dovuto alle gestioni degli anni precedenti, e poi a quanto pare (terzo salvataggio) sopravvivendo pure al covid. È stato faticosissimo, a un certo punto mi sono andato a fare una gastroscopia e colonscopia combinate perché a causa dello stress avevo tutti i valori sballati. Però aver rimesso in piedi una istituzione che tante persone amano (per molti il Salone è importantissimo, non solo a livello economico ma sentimentale) è una soddisfazione, e una cosa che potrò dire di aver fatto quando non sarò più direttore. Parlavo di condivisione di responsabilità, per due motivi. Uno: il Salone non lo faccio io e basta, senza una squadra molto complessa in cui mi sono messo in una posizione di primus inter pares (al Salone chiunque si sente autorizzato a dirmi in qualunque momento: ‘Nicola, ma che cazzo dici?’, e ti assicuro che capita spesso; questo è dovuto non alla mia umiltà ma perché funziona meglio) non sarebbe stato possibile fare un decimo di quello che abbiamo fatto in questi anni. Ci sono persone, al Salone, che resteranno quando io andrò via, e sono loro le vere colonne di questa istituzione. Conoscono la macchina anche meglio di me. Due: parlavo di condivisione perché il potere ce l’hai quando sei davvero autonomo anche formalmente in molte decisioni, il potere ce l’ha un imprenditore con la sua azienda. Nel Salone ci stanno in mezzo enti locali, ministeri, sponsor, imprenditori, e io ho un semplice contratto di consulenza a partita Iva che non mi dà alcun potere formale. Però ho imparato a lavorare molto di moral suasion. Poi c’è l’arte del compromesso. È una cosa che ho dovuto imparare. Invito tutti a leggere Anatomia di un istante di Javier Cercas. Lì c’è una lezione importante. Cercas racconta il tentato golpe in Spagna del 1981. Quando i militari arrivano nel parlamento e iniziano a sparare per aria, tutti i rappresentanti del popolo corrono a nascondersi. Tre uomini no. Tre uomini restano in piedi a difendere la democrazia: il Primo ministro Adolfo Suárez, il generale dell’esercito Gutiérrez Mellado, il segretario del partito comunista Santiago Carillo. Cercas racconta soprattutto di Adolfo Suárez: è lui il vero obiettivo dei golpisti, visto come è riuscito a smantellare il franchismo dalla macchina statale spagnola. Suárez sarebbe forse addirittura un padre della patria. Ma che tipo di persona è? È un duro e puro? Un idealista dentro cui brucia incorrotto il fuoco della libertà e della giustizia? Niente affatto. Suárez è un ex franchista, un trasformista, un istrione, un seduttore, un giocatore delle tre carte, un maestro del compromesso il quale, proprio grazie a queste doti, regala al suo paese la democrazia. Un duro e puro dalla coscienza immacolata non sarebbe riuscito a farlo. Dunque – concludo – il potere è anche a volte la scusa che molti si danno, invocando la propria supposta purezza, per non provare a cambiare qualcosa, o perlomeno difendere davvero un patrimonio importante. Ultimissimo: sulla mia fama letteraria, che spesso è stata controversa, e che sicuramente non ha le dimensioni degli scrittori da besteller. Mi piacerebbe fregarmene. Me ne frego completamente mentre scrivo un libro (me ne frego delle vendite, della rispettabilità, di tutto, lì dentro sono veramente io, con una libertà che non mi concedo da nessun’altra parte), ma prima e dopo no. Mi piacerebbe fare come Salinger o Ferrante o Pynchon, ma non ho ancora né forse avrò mai quella saggezza. Ma poi è davvero saggezza, mi chiedo? Forse il contatto con il mondo – a cui sono sin troppo abituato – poi mi mancherebbe. Quando esce un libro lo promuovo, cerco di portarlo in giro, di farlo conoscere, sono felice se va bene. O meglio: sono felice se non va male. Nella mia famiglia la catastrofe era di casa. L’imperativo era (come lo è stato per la povera gente di generazione in generazione): evitate la catastrofe! Mio padre (insieme alla convinzione di poter portare a termine un’impresa) mi ha trasmesso però anche il terrore di finire malissimo, e io non riesco a sbarazzarmi dal fantasma della catastrofe, e cerco – tranne quando scrivo – muscolarmente di evitarla. Magari mi emanciperò da questo spettro, ma per adesso è così.

Aldilà. Scrivendo, ti occupi di questo mondo. Ti importano anche gli altri mondi? Ti interessa snidare Dio? credi?

Ecco, vedi, se dici ‘snidare’ stai già partendo da una posizione gnostica, e su questo ti seguo. Credo nella trascendenza, a proposito della quale sia un certo pensiero cristiano sia ad esempio i Veda avrebbero molto da insegnare. Philip K. Dick diceva: “molti sostengono di ricordare una vita passata, io sostengo di ricordare un’altra, diversissima, vita presente”. Siamo creature limitate e autolimitanti, il nostro apparato percettivo ci consente di afferrare un niente di ciò che ci circonda, e usiamo il nostro cervello un niente rispetto a quanto sarebbe possibile e forse necessario. Io credo dunque nella trascendenza che va da Eleusi al mistero dell’eucarestia cristiana, passando magari per Stanislav Grof. Qualcuno crede che dovrei sentire una contraddizione tra questo approccio e le ragioni della giustizia sociale, che mi stanno parimenti molto a cuore: si possono conciliare Antonio Gramsci, Simone Weil, Timothy Leary, T.S. Eliot, Marco Pannella e Werner Heisenberg? “Mixing memory and desire”… e mescolando pure Busi a Whitman: continuiamo a vivere scissi, e al tempo stesso conteniamo moltitudini.

*In copertina: Nicola Lagioia in un ritratto fotografico di Chiara Pasqualini

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