OGGETTO: Putin è un protagonista di Dostoevskij con altri mezzi
DATA: 06 Marzo 2022
SEZIONE: Geopolitica
AREA: Europa
"Per capire Putin bisogna leggere Dostoevskij, non il Mein Kampf" diceva nel 2016 Henry Kissinger.
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Iosif Stalin leggeva Dostoevskij di nascosto. Pare fosse folgorato dai Demoni; di certo – lo testimonia Armando Torno, in un saggio raccolto in Fëdor Dostoevskij nostro fratello, Ares, 2021 – ha chiosato e annotato I fratelli Karamazov: la copia personale, esimio resto della vasta biblioteca, smembrata, esiste ancora, e inquieta. In era sovietica, tuttavia, Dostoevskij, col suo delirio psichico, il nichilismo imperiale, il sigillo di Cristo a missione universale, era bandito. Funzionava, piuttosto, il ‘realismo socialista’, foggiato da Maksim Gor’kij. Scrittore di talento, tolstojano – il suo quaderno sulle visite a Tolstoj è di sobria bellezza, comincia così: “L’idea che, visibilmente, più spesso di tutte le altre tormenta il suo cuore è l’idea di Dio” – Gork’ij diventò il cantore del leninismo (“Lenin è l’uomo più onesto; non vi è stato ancora sulla terra uomo suo pari”), l’aedo del regime sovietico. Morto come scrittore, capì che sarebbe durato poco come uomo: “Mi hanno circondato… accerchiato…”, confessa a un amico, nel ’35. Troppo tardi. Celebrato come “l’iniziatore della letteratura sovietica”, Gor’kij morì poco prima dell’estate del ’36, in circostanze mai chiarite. “Aveva esaurito la missione affidatagli da Stalin al suo ritorno in Urss. Gor’kij doveva morire per diventare un mito” (Mihail Heller). Naturalmente, il funerale fu folgorante.

Che Dostoevskij, al contrario, sia il santo di Vladimir Putin, il remoto ispiratore della sua azione politico-identitaria, è storia antica. Henry Kissinger l’ha ribadito più volte: in una intervista del 2016, rilasciata al “The Atlantic”, è stato lampante:

“Per capire Putin bisogna leggere Dostoevskij, non il Mein Kampf. Sa che la Russia è più debole di un tempo – molto più debole degli Stati Uniti. Guida uno stato definito per secoli dalla sua grandezza imperiale, ma che ha perso trecento secoli di storia con il collasso dell’Unione Sovietica. La Russia è strategicamente minacciata su ciascuno dei suoi confini: dall’incubo demografico cinese a Est, dall’incubo ideologico islamico, nei territori meridionali, dall’Europa, a Ovest. La Russia cerca un riconoscimento come grande potenza, non supplice del sistema americano”.

Henry Kissinger

Sul punto, qualche anno fa – era il gennaio del 2017 – Giulio Meotti ha scritto un articolo piuttosto esaustivo, Putin di Guerra e pace, pubblicato dal “Foglio”. Si cita, tra l’altro, “un lungo saggio della Harvard Political Review”, in cui Alejandro Jimenez ribadisce il concetto che “per capire veramente Putin dobbiamo rivolgerci agli scritti di Dostoevskij”. Il problema è capire a quale Dostoevskij rivolgersi. Non quello dei romanzi, corrosivi, ovvio, ma complessi, stratificati, abnormi, da cui è arduo estrarre una ‘politica’, semmai una poetica dell’esistere (che si riassume così: sfracellatevi sul volto del Dio vivente). Piuttosto, bisogna leggere il Dostoevskij “panslavista, anticattolico, populista, moderatamente guerrafondaio”, come scrive Luca Doninelli, quello frainteso e furente, delle “parole spesso inaccettabili”, con cui occorre litigare (“odiatele, assaporate l’offesa che contengono per ciascuno di voi”), a motivo di quella “vastità”, di quella “libertà che la cultura dei nostri giorni, la bolla dentro cui viviamo tutti, non sa più ritrovare”.

Quale Dostoevskij, allora? Quello degli articoli, il micidiale pubblicista, quello del Diario di uno scrittore, ad esempio, volume di arcana e messianica potenza riesumato da Bompiani nel 2007, poco maneggevole (1400 pagine), costoso, nell’antica – e a tratti necessariamente involuta – traduzione di Ettore Lo Gatto. Come sempre, ci mancano le ‘fonti’ autentiche, così quando si tratta di parlare di Russia ci diamo al Risiko della geopolitica, a labirintiche speculazioni, senza intendere che ogni paese, ci piaccia o meno, ha una ‘missione’, incarnata nell’opera di rari scrittori-profeti. Uno di questi è proprio Dostoevskij, che si riferisce alla grande tradizione russa – l’ortodossia, certo, ma anche a Isacco di Ninive, alla Filocalia, alla splendida follia degli jurodivye, i ‘pazzi in Cristo’, riassunti nei Racconti di un pellegrino russo – e alla grande poesia russa – esemplificata nell’opera di Aleksandr Puškin e Fëdor Tjutčev. Ma noi continuiamo a considerarlo un romanziere, pur assoluto, dalle singolari inquietudini.

Uno strumento – quasi un manuale di guerra – per capire il pensiero di Dostoevskij, e dunque, in filigrana, la Russia di Putin è la raccolta di “Pensieri. Aforismi. Polemiche” pubblicata come La bellezza salverà il mondo (De Piante, 2021). Il libro, introdotto da Luca Doninelli, ha una storia particolare. Si tratta di un repertorio di riflessioni tratte dai diari, dalle lettere, dai taccuini, dagli articoli di Dostoevskij, sistemati per temi (“Della letteratura e dell’arte”; “Della Russia e dei russi”; “Dell’Europa”; “Della religione”). Il libro, tradotto da Claudia Sugliano – già curatrice del commosso epistolario tra Boris Pasternak e Ariadna Efron, la figlia di Marina Cvetaeva –, è stato pubblicato in origine a Parigi, nel 1975, e collezionato come una sorta di testamento da Dmitrij Grišin (1908-1975). Laureatosi a Mosca, emigrato in Australia, Grišin ha dedicato la vita a sviscerare l’opera di Dostoevskij. In particolare, si è concentrato sui materiali dispersi e ‘filosofici’ di Dostoevskij, quelli che ne illuminano il pensiero, eterodosso, reazionario: il suo lavoro ha incontrato ostacoli e sospetti in patria, “ritenuto scomodo agli occhi dell’ideologia sovietica”. Nel libro, con militare esattezza, viene a galla il carisma della ‘missione’ russa verso Est:

“Alla Russia tocca la missione universale di pacificare e civilizzare l’Asia”;

l’epopea del panslavismo:

“L’idea del panslavismo è talmente colossale da potere senza dubbio terrorizzare l’Europa, anche per la sola legge di autoconservazione”;

il legame consustanziale con il popolo:

“Chi perde il proprio popolo e l’anima popolare, perde anche la fede patria e Dio”;

l’idea della nazione messianica:

“L’essenza della vocazione russa… consiste nel rivelare al mondo il Cristo Russo, sconosciuto al mondo, il cui principio sta nella nostra Ortodossia”;

l’idea della Russia come fede, come credo:

“Chi crede nella Rus’, sa che essa tutto sopporterà… e nella sua essenza rimarrà quella di prima, la nostra santa Rus’, quale fino ad ora è stata”;

la lotta territoriale – e dunque spirituale – come via:

“Meglio sguainare una volta la spada che soffrire all’infinito”;

la politica come aggressione, mordente:

“Il principale errore nella politica della Russia è che i suoi obbiettivi sono moderati”;

l’epica della famiglia:

“Nell’enorme maggioranza del nostro popolo, persino negli scantinati di Pietroburgo, persino nella situazione spirituale più misera – esiste comunque l’anelito alla dignità, una certa onestà, a un autentico rispetto di sé; si conserva l’amore per la famiglia, per i figli”.

La missione russa non ammette patti con l’Europa, dacché “per l’Europa la Russia è uno degli enigmi della Sfinge”, “l’Europa conosce in maniera più concreta la stella Sirio che la Russia”. Il repertorio anti-europeo è esilarante (diremmo meglio: istruttivo):

“In Europa, in questa Europa, dove sono state accumulate tante ricchezze, tutto è scavato di nascosto e, forse, già domani, crollerà senza lasciare traccia nei secoli dei secoli… In Europa c’è un clima di generale tristezza”.

D’altronde, “Parigi è una città noiosissima”, “In Germania mi ha sempre colpito soprattutto la stupidità del popolo”, “In Inghilterra tutti si rispettano solo perché sono inglesi”. Ne ha, Dostoevskij, anche per la Turchia, “un’orda asiatica e non uno stato di diritto”: chiosa alla missione russa è che “Costantinopoli deve essere nostra… non è russo chi non ammette la necessità di conquistare Costantinopoli”. Nota non marginale per il commentatore di politica estera. Certo, ci sono passaggi folgoranti, che incidono un marchio sulla nostra fronte da indecenti razionalisti, idolatri della statistica, servi dell’impero sanitario:

“Io credo nel regno totale di Cristo. Come si realizzerà, è difficile prevederlo, ma esso ci sarà. Io credo che questo regno si realizzerà. Anche se è difficile fare previsioni nella notte fonda delle congetture, i segni si possono comunque delineare almeno con il pensiero e io credo nei segni. E ci sarà il regno universale del pensiero e della luce, da noi in Russia prima che altrove”.

Il viavai della globalizzazione, il mercimonio del mercato planetario, l’utopia monetaria dell’Europa unita non hanno fatto altro che infiammare le singole missioni nazionali. Germania, Francia, Turchia, Russia, Cina, Stati Uniti (non certo Polonia, Ungheria et simili)… Ciascuno agisce, oggi con più cristallina pervicacia che allora (nell’esatto attimo in cui le identità paiono svilirsi), secondo la missione – vogliamo dire destino? – definita dai propri confini, dalla propria storia, dal proprio mito, più o meno consapevole. Negarlo è da negazionisti; tacitare i fatti sotto sinistre didascalie – sovranismo, nazionalismo, menzogna reazionaria – non fa che convalidarne gli effetti. Questo è il tempo in cui le nazioni rinascono o muoiono, assorbite da altre onnivore istituzioni statali. Leggere Dostoevskij non è un calmante – galvanizza.  

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