Impossibile che per un attimo – per un attimo almeno – Raymond Carver non ti sia parso insopportabile. Lo citavano ovunque, lo mettevano nell’insalata, ci lordavano la tappezzeria con quel viso piatto, da nutria, quasi anonimo. Raymond Carver, cioè, passato Ernest Hemingway fu l’icona dell’immaginario americano; dal 1981, almeno, da Di cosa parliamo quando parliamo d’amore. Non si poteva fare a meno di Carver. D’altronde: Carver usa formule facili, facilmente replicabili, è il sovrano delle scuole di scrittura. Prova a far scuola, intendo, sviscerando Thomas Mann, Hermann Broch, Elias Canetti. Appunto. Carver è il sacco da pugile della letteratura: non puoi non prenderlo a pugni. Cioè, allenarti. Certo, poi torni a testi come Cattedrale, che ti insegnano che le dita hanno occhi, che le mani sono sguardi; impari che un racconto è il distillato di una vita, un’epifania, il ruggito ruvido; capisci che scrivere è ricapitolare un padre e che il carisma è riassunto in quella frase di Čechov, “…e all’improvviso tutto gli fu chiaro”, che per Carver è il nome criptato del dio della letteratura, “per me queste parole sono piene di meraviglia e di possibilità”, ha scritto in Il mestiere di scrivere, sempre in equilibrio tra bagliore e banale, “mi piace la loro limpida semplicità… c’è anche del mistero: cos’è che non gli era chiaro prima? Perché gli diventa chiaro proprio ora? Cos’è successo?”. Vent’anni fa Antonio Spadaro è stato tra i primi a fare i conti con Raymond Carver, in Italia. Nel 1999 aveva studiato Kieslowski (in un libro edito da Guaraldi), aveva pubblicato un saggio – che non sarebbe stato l’ultimo – su Pier Vittorio Tondelli, per Diabasis. Allora, quando pubblicò Carver. Un’acuta sensazione d’attesa, aveva 34 anni, Spadaro: gesuita, ora è direttore de “La Civiltà Cattolica”, è detto – cito “la Repubblica” – il consigliere del Papa, uno dei più prossimi, dicono. Ha sempre avuto un’attenzione particolare per gli scrittori in lingua inglese, Spadaro, Flannery O’Connor, Walt Whitman; ricordo il suo lavoro dentro l’opera di Gerard Manley Hopkins, poeta eccezionale e rivoluzionario, gesuita; capisco meno – tare mie – i discorsi sulla Cyberteologia. Oggi il suo libro su Carver ritorna, con nuovi apparati e nuovo titolo (Creature di caldo sangue e nervi. La scrittura di Raymond Carver, stampa Edizioni Ares), e fa, effettivamente, un effetto nuovo. Carver, in effetti, sembra, ora, uno scrittore remoto, cristallizzato, a tratti muto.
Del libro mi meraviglia il bestiario: si inizia con una tigre (“Si avverte una fiducia spiazzante nella poesia di Carver, dalla quale salta fuori una tigre che balza. Solamente il balzo di questa tigre ci dà la forza di trasalire da una vita piatta, ideologica o indaffarata. La tigre c’è o non c’è”), si chiude con un’anguilla, che accade, per provvidenza, sulla lapide dello scrittore, a cui Spadaro fa visita, a Port Angeles. “Mi colpì sulla tomba leggere l’ultimo frammento [To call myself beloved, to feel…]. Curioso che al verbo feel che proseguiva con myself beloved (sentirmi amato) mancava il colore alla f. Dunque si leggeva eel, cioè anguilla… Oggi capisco che nel feel/eel sta tutto Carver. Il sentimento è un’anguilla che si muove leggera e veloce innervando la vita”. Pensa. Io ho sempre pensato che i racconti di Carver fossero una voliera. La spalanchi e i primi a fuggire sono piccioni, pernici, colombi. Resta il pavone – poi si dilegua pure lui, con elegante impazienza. E nel vuoto, sbuffa una nebbia di piume, a cancellare la cella.
Perché Carver? Insomma, come le è accaduto, come le è venuto addosso?
Si avverte una fiducia spiazzante nella poesia di Carver, dalla quale salta fuori una tigre che balza. Solamente il balzo di questa tigre ci dà la forza di trasalire da una vita piatta, ideologica o indaffarata. La tigre c’è o non c’è.
Antonio Spadaro
La mia esperienza con Carver è avvenuta del tutto casualmente: minimum fax mi inviò il volume delle sue poesie. E questo volume, che ricordo perfettamente (era Racconti in forma di poesia), mi colpì, perché la poesia di Carver è una poesia che usa un linguaggio assolutamente ordinario. Quelle poesie, intendo, mi parvero all’inizio piuttosto banali. Cominciai perciò a leggere, un po’ stupito, quasi infastidito. Però, continuando, mi resi conto che proprio lì c’era vera poesia, cioè mi resi conto che i miei occhi, la mia mente, la mia attenzione erano incollati alla pagina: sentivo l’emozione che scaturiva da quel linguaggio tanto ordinario. Rimasi sorpreso dalla forza che percepivo leggendo, sorpreso da quei versi e dalla assoluta semplicità della parola, quello che Carver definisce understatement of emotion. Proprio questo patto profondo, direi quasi biografico, si stabilisce tra il lettore e lo scrittore, grazie a un linguaggio che non fa infrazione rispetto alla norma ordinaria né è particolarmente sperimentale. Sentivo che lì c’era della vita. Mi è quindi venuto addosso spontaneamente, cioè ho avvertito la forza di quella poesia nel leggere senza particolari sovrastrutture. In qualche modo, mi ha liberato dalla necessità di avere strumenti particolari per interpretarla.
Perché Carver ora, ancora? Vent’anni dopo il suo libro esegetico, quarant’anni dopo “Di cosa parliamo quando parliamo d’amore”: di cosa ci parla ancora Carver?
Carver ci parla della vita. Effettivamente, devo dire che l’idea di ripubblicare questo libro dopo vent’anni, con delle parti aggiunte al testo, una prefazione (scritta proprio dopo vent’anni) in cui cerco di testimoniare quello che vivo e un’appendice iconografica sul mio viaggio a Port Angeles, dove Carver è sepolto, mi è giunta dall’editore Ares (e da Alessandro Rivali in particolare) che mi ha proposto questa operazione. E proponendomi questa operazione mi ha messo un po’ in crisi, perché mi ha chiesto di riprendere un testo che avevo scritto vent’anni fa, cioè a trentaquattro anni. E averne cinquantaquattro è diverso. Carver è morto a cinquant’anni, quindi io sono più grande di lui, ora, e in questi vent’anni ho vissuto delle esperienze di vita che evidentemente quando ne avevo trentaquattro non avevo e non potevo immaginare. La mia sensibilità adesso è diversa. Ed è stata una bella sfida, perché ho capito come quei versi di Carver siano per me ancora assolutamente vitali. Perché Carver parla dell’esistenza, di questioni essenziali come la vita e la morte. Si interroga su come stare al mondo, come dice lui. In fondo, mi spinge a capire se ho ottenuto quello che volevo da questa vita, nonostante tutto, in questi vent’anni. L’ultima poesia di Carver è una poesia straordinaria: Ultimo frammento, “Late Fragment”. Questa poesia si pone proprio la domanda capitale: “Hai ottenuto quello che volevi da questa vita nonostante tutto?”. E lui risponde sì. E la poesia continua: “E che cos’è che volevi?”. E la sua risposta è: “Potermi sentire amato sulla terra”. Ecco, una poesia del genere è magnifica ed esplosiva perché c’è la domanda prima: hai ottenuto quello che volevi da questa vita? Pormi questa domanda a trentaquattro anni e pormi questa domanda a cinquantaquattro anni, di fronte all’esperienza della poesia di Carver, per me è stata quasi una sfida biografica. La risposta a questa domanda non è quindi legata all’esegesi carveriana (i testi sono quelli), ma riguarda l’accettare una sfida personale.
Estragga un brano, un verso dall’opera di Carver, a suo avviso esemplare, e mi dica perché lo ritiene tale.
Come ho già detto, la poesia che indubbiamente mi colpisce di più di Carver è Ultimo frammento, nella sua assoluta e completa semplicità. Se dovessi indicarne un’altra direi La pipa, “The Pipe”. Carver scrive: “La prossima poesia che scriverò avrà della legna/ proprio al centro, legna da ardere così intrisa/ di resina che il mio amico mi lascerà dietro/ i guanti e mi dirà: «infilati questi prima di maneggiarla»”. È una poesia molto bella. Perché mi colpisce? Perché parla di una poesia che ha della legna proprio al centro, legna da ardere, capace di far fuoco, intrisa talmente di resina che non si può toccare a mani nude, ci vogliono i guanti. Personalmente ci leggo una capacità di ustione, una capacità di attacco positivo alla vita: un fuoco. La poesia è capace di portare questo fuoco. Avere contatto con la pagina poetica significa in qualche modo ustionarsi. Non è un passatempo, non è esperienza leggera, è un’esperienza profonda. E questa legna da ardere io ormai la cerco sempre in tutta la poesia.
Mi ha colpito il suo reportage sulla tomba di Carver. Perché visitare la tomba? Che rapporto si intrattiene con un morto, sconosciuto?
Quando scrivo di un autore ho bisogno di stabilire un rapporto profondo, direi fisico, con la sua scrittura, con l’ambiente che l’ha generata. Questo è avvenuto tante volte per tanti scrittori, almeno lì dove ho potuto. È avvenuto per Flannery O’Connor, per Walt Whitman, per Gerard Manley Hopkins, per Pier Vittorio Tondelli e così via. C’è un bisogno direi fisico di avere contatto con una terra e con un ambiente che ha generato la poesia. E Port Angeles è il luogo dove Carver ha scritto molto. È un po’ il suo ambiente, il suo milieu, il suo contesto esistenziale, quindi andare lì per me non è stato esclusivamente andare a visitare una tomba, ma visitare una terra, un luogo che ha generato visioni, poesia, che ha visto vivere Carver e che Carver ha tradotto in poesia. Quindi non si tratta di un rapporto con un morto, ma di un rapporto con una poesia che è viva, che nutre la mia vita: in qualche modo quel paesaggio esteriore fa parte del mio paesaggio interiore, perché avendola vissuta, questa poesia, avendola desiderata, avendo scritto su questa poesia, l’ho sentita mia e in modo molto personale. Questo viaggio è stato un po’ un pellegrinaggio.
È chiaro, poi, che avendo fede il rapporto con uno scrittore che non è più su questa terra, per me, non è mai esclusivamente un rapporto con un morto ma è un rapporto con una persona che vive in Dio. E questo fa parte, se vogliamo, del mio modo di leggere uno scrittore. Quindi non c’è un rapporto con un defunto che non ho mai conosciuto e mai conoscerò, ma un rapporto paradossalmente vitale.
È stato un viaggio molto breve, durato una giornata, dalla mattina alla sera, compiuto in macchina, per alcune ore, eppure mi ha permesso di entrare meglio in relazione con il testo stesso. La percezione della poesia carveriana è un po’ cambiata in me, soprattutto per tutto quello che riguarda il contesto ambientale, il fiume, il mare di cui parla, la pesca (ho visitato il luogo dei salmoni…). Tutto ciò che per Carver è diventato materia di poesia io ho potuto vederlo, toccarlo, ed è stata un’esperienza molto bella, molto profonda. Allora l’idea di pubblicarla, di pubblicare le fotografie scattate durante quel viaggio non mi era venuta, custodivo queste immagini come un ricordo personale. Ma infine mi sono detto che raccontare questo viaggio nominando le strade prese in macchina, il battello e così via, poteva aiutare il lettore a comprendere meglio l’avvicinarsi a un’opera poetica. Per avvicinarsi a un’opera poetica occorre secondo me non solo approssimarsi al testo, ma anche in qualche modo al contesto ambientale che lo ha generato. Ripeto, per me questo è avvenuto con molti autori, in modo particolare così come con Carver, è avvenuto con Gerard Manley Hopkins, un poeta vittoriano, inglese, straordinario, modernissimo. Troppo moderno per la sua epoca. Solo vedendo il luogo dove ha prodotto queste sue poesie, dove ha scritto le sue poesie, a St. Beuno, in Galles, ho potuto veramente comprendere meglio la fonte della sua ispirazione. No, non ho dialogato con un morto, e non ho stabilito un rapporto con uno sconosciuto. Ho conosciuto Carver leggendo la sua poesia e con quel Carver che ho conosciuto ho stabilito un dialogo con la sua personalità, con i suoi versi, col suo ambiente. Questo è il modo per leggere, per avvicinarmi che sento profondamente mio.
*L’intervista è avvenuta tramite un dialogo orale, benché differito. Si ringrazia Bianca Cesari per l’aiuto nel riferire su carta le parole di p. Antonio Spadaro