Il mondo è di nuovo sospeso tra sorpresa e orrore. Gli analisti si interrogano su come sia potuto accadere. I partigiani affilano le armi dell’invettiva e della propaganda. I costruttori di pace cercano di tamponare i prodromi dell’ennesima catastrofe umanitaria. I costruttori di guerra, istituzionali e non, preparano i contratti dietro le loro eleganti scrivanie. La tentazione di noi osservatori, come sempre, è di seguire gli umori, cedere al guinzaglio delle emozioni, schierarsi con i buoni contro quei cattivi che, più o meno sadicamente, si sono seduti dal lato sbagliato della storia. Non lo faremo. In primo luogo perchè non siamo buoni.
In una società occidentale allo sbando, che nasconde le sue rughe con cremose ipocrisie traboccanti fino al disgusto, abbiamo smesso di addolcire il mondo. Come il caffè, sorseggiamo le notizie e le immagini così come sono. Nude. Crude. In secondo luogo, semplicemente non scegliamo perché non ci sono buoni in questa storia. La Terra Santa è da sempre sezione aurea e plumbea del mondo: chi siamo noi, abitanti delle periferie decadenti dell’impero, per riscriverne la storia millennaria?
I più bravi di tutti, i servizi di intelligence israeliani, sembrano aver subito un durissimo colpo, peraltro qualche mese dopo l’improvvida gita sul Lago Maggiore. Un durissimo colpo non tanto, e non solo, per il pesante tributo di sangue pagato all’attacco di Hamas, ma per il modo in cui i militanti palestinesi sono riusciti – in un tempo verosimilmente lungo – a pianificare e realizzare un’azione così spettacolare e a basso contenuto tecnologico senza che nessuna delle molteplici reti informative e spionistiche – israeliane e alleate – ne intercettasse i reali contenuti. Bene ha fatto il loquace Bob Baer a segnalare come l’ossessione delle agenzie intelligence per la sorveglianza tecnologica stia mettendo da parte l’elemento umano che lavora sul territorio, raccogliendone sussurri ed emozioni. Per questo ha senso chiedersi con lui, senza nulla togliere all’orrore di quanto accaduto, chi abbia pensato di organizzare un rave party a poche miglia dalla Striscia, pensando di sparare per ore musica nelle orecchie di persone isolate da anni, prive di svaghi collettivi, relazioni e contatti.
Allargando lo sguardo, sorprendono le ripetute smentite della leadership iraniana in merito ad un proprio coinvolgimento diretto nella pianificazione e nel supporto dell’azione militare di Hamas, sanguinario successo contro un nemico storico. Non tanto perché ci si attenda che le agenzie governative si comportino come agenzie di stampa, peraltro esse stesse in grave crisi di credibilità. Ma perché si stanno muovendo talmente tanti pezzi nello scacchiere internazionale, da far presagire che la partita sia di rara complessità e di esito particolarmente incerto. E non solo per gli interessi dei grandi Stati egemoni che si stagliano all’orizzonte nella loro decennale partita per la governance mondiale, ma anche e soprattutto per gli equilibri regionali.
L’Arabia Saudita di Bin Salman ha dovuto frettolosamente rivedere le sue posizioni nei confronti dello Stato ebraico, con cui sembrava prossima ad uno storico riavvicinamento. L’India di Modi, da sempre vicina alla causa palestinese, ha fermamente condannato il ricorso ad azioni terroristiche, che tanta paura fanno al gigante asiatico, soprattutto per ragioni di sicurezza interna. Gli interessi dei gruppi sunniti e dei Fratelli Musulmani, in primis del Qatar, si sono saldati nell’occasione con gli interessi dei rivali sciiti. Da cui cerca di smarcarsi, invece, il sultano Erdogan, fenomale acrobata e protagonista assoluto delle mediazioni in atto.
Ma al di là delle fredde analisi, siamo sorpresi e sgomenti nel cuore e nelle emozioni, perchè sul presente e sul futuro del mondo si addensano le fosche nubi di un ciclo tradizionale che appare sempre più oscuro. Non tanto per l’efferatezza degli eccidi e dei massacri: dopo Srebenica, Beslan o Parigi – esempi casuali di storia recente – c’è poco spazio per la sorpresa o per la ricerca di senso; ma per la persistente miseria dell’umano agire, e del pensare che lo dovrebbe precedere.
Poco prima di essere inghiottito dalla palude di Raqqa, Paolo dall’Oglio, attore dialogante in un mondo di silenzi e di grida, ci raccontava di aver chiesto ai rivoltosi da dove fossero usciti e perchè combattessero con tanta determinazione. La risposta, che la Storia avrà udito mille volte, fu: dal sangue versato dai nostri fratelli. Da sempre, infatti, sangue chiama sangue e anche dai corsi e ricorsi di questa millennaria e sanguinaria storia nasce la nostra grande sorpresa.
Ed è in ragione di questa persistente miseria umana che, da osservatori senza portafoglio, ci rifiutamo di scegliere tra Iron Dome e i deltaplani di Hamas; tra un ballo festoso e il canto del muezzin; tra la terra arida che riprende vita intorno a un kibbutz e il dedalo di vicoli in cui Al-Sistani rende lode alla Misericordia divina.
“Dio è circonferenza e centro, è dappertutto e in nessun luogo”, scriveva Nicola Cusano. “Advaita” definivano i sapienti indiani la sottile arte di percepire la Verità ultima astenendosi dal nominare, dal definire e dal comparare. Si rammaricò molto Sigmund Freud di non riuscire a penetrare nella giungla del pensiero indiano: glielo impedivano “l’amore ellenico per la misura, la spassionatezza ebraica e il timore filisteo, secondo un certo dosaggio”, scrisse lui stesso al premio Nobel Romain Rolland che lo aveva interrogato sulle gesta del mistico Ramakrishna. Concludendo saggiamente: “Non è facile superare i limiti della propria natura”.
Per questo, oggi più che mai, da esseri umani ci è difficile scegliere tra buoni e cattivi: come diceva la maschera di Bonifacio Castellane in chiusura del sabato di Libropolis, non c’è salvezza fuori da una dimensione spirituale che forzi i limiti delle rispettive nature.
Continuare ad accettare la convivenza forzata tra due vicini che si odiano è una colpa che ricade su tutti i protagonisti. Se non si trovasse una soluzione definitiva in linea con gli accordi internazionali, nuovi massacri saranno incerti solo nel “quando” non nel “se”. Rendendoci, probabilmente, tutti un po’ complici.