Nel 1918 un accademico prussiano, Georg Simmel, scriveva in “esilio” a Strasburgo un saggio tanto variopinto quanto preciso nel cogliere l’estetica della Storia, nel dualismo tra il vissuto e la sua forma. Uno scritto dal quale trasuda collateralmente il fenomeno antropologico nel quale si colloca, ovvero la sconfitta dell’unitaria e potente Germania postuma al sistema bismarckiano. Max Ernst, conoscente ed amico di Simmel, al “saggio sulla formazione storica” si ispirerà nel dipingere la sua “metamorfosi dell’angelo del focolare” del 1937, rappresentando l’allegra chimera d’Europa muoversi disarticolata ed entusiasta verso il cielo plumbeo della seconda guerra mondiale. Un approccio all’interpretazione della storia, quello di Simmel, più che singolare, basato essenzialmente su una sua interpretazione estetica.
La storia dunque come un’opera d’arte, come tessuto di un “tappeto i cui filamenti” emergono nella trama a vista nascondendone l’intrecciarsi a vicenda dietro le quinte attorno ai cosiddetti nodi storici: punti focali e centri di gravità attorno ai quali ruotano i simboli capaci di rappresentare le epoche nella loro unità, eventi nei quali il flusso senza posa del vissuto si raggruma in forme che una volta cristallizzate in simboli sono destinate inesorabili a sgretolarsi. Si pensi all’attacco alle Torri Gemelle, simbolo di un’epoca che ormai s’attarda stanca ad attestarsi prime pagine dei giornali, o perlomeno così è stato nello scorso anniversario. Due immagini ben più recenti si sono imposte nell’immaginario collettivo d’Europa: 24 febbraio 2022, con l’invasione dell’Ucraina e 6 gennaio 2021, Capitol Hill. La prima segna il principio di un logoramento del sistema di alleanze sotto l’ombrello NATO in Europa, messe alla prova da una novella questione d’oriente; la seconda segna il declino dell’idealismo universale statunitense, due fenomeni paralleli e interconnessi.
La prima delle due date, quella più vicina a chi scrive e a chi legge, rappresenta con certezza uno di quei “punti focali” di cui si accennava in precedenza, in quanto l’invasione russa dell’Ucraina non può non suscitare una certa risonanza con la Guerra di Crimea del 1854 avviata dalla Russia con l’invasione dei principati danubiani di Moldavia e Valacchia (ai danni della Sublime Porta), la quale suscitò, come ben noto a tutti, l’opposizione prima diplomatica e poi militare delle potenze occidentali quali Francia e Inghilterra, che seppero coinvolgere il Regno di Piemonte e infine l’Austria, in un conflitto isolato con la Russia. All’epoca Cavour colse l’occasione per portare all’attenzione delle potenze europee il Problema Italiano, che di lì a poco si sarebbe risolto – non definitivamente – nell’Unità d’Italia. Oggi la Guerra d’Ucraina iniziata il 24 febbraio 2022 presenta un’analoga opportunità diplomatica, derivante dallo scenario d’incertezza che una nuova e antica questione d’oriente genera, per gli attori più o meno direttamente coinvolti. Questo dato di fatto è gravido di conseguenze, quale il risveglio di interessi nazionali sopiti e spesso in contrasto fra loro.
Come nella guerra di Crimea, oggi le armi italiane inviate a Kiev, hanno probabilmente l’analogo obiettivo politico-strategico, bensì orientato verso la pendente questione mediterranea. L’abbandono repentino del Trattato del Quirinale, il piano Mattei per l’Africa, l’alleanza strategica con il Marocco e gli accordi commerciali con l’Algeria rappresentano un passo avanti in questa direzione ed un’offensiva diplomatica verso Parigi di non poco conto, con la quale il nostro paese è già entrato in rotta di collisione almeno su questa direttiva (seppur partners nella produzione dei Samp-T). Entrando inoltre, l’Italia, in rotta di collisione con la Germania su quello che dovrà essere il prossimo patto di stabilità, in un asse con la Polonia, anch’essa in postura di offensiva diplomatica verso una Berlino che vorrebbe riarmare, in contrasto con Varsavia, ma in contrasto anche con i timori di tutto un Occidente educato a temere, giustamente, l’unità e la potenza di una Germania riunificata. Vale la pena ricordare che proprio al fine di controllare le risorse chiave per la resurrezione della fenice germanica, ovvero i giacimenti della Ruhr e della Saar, nacque la CECA con la firma di un trattato nel 18 aprile del 1951, non a caso, a Parigi.
Un sistema di alleanze, dunque, messo alla prova dall’inesauribile questione d’oriente che oggi torna a ripresentarsi simile, anche se solo per certi versi. Un’alleanza, la NATO, creata in chiave antisovietica e antitedesca, che con l’implosione dell’URSS si trovò di fronte alla problematica di un nemico assente, ma necessario al sistema che a quel punto si allargò ad oriente e che oggi sconta le pene della disomogeneità d’interessi delle nazioni d’Europa centro orientale e centro occidentale. L’intervento NATO in Libia del 2011, invece, rappresenta l’apogeo della solidità dell’alleanza NATO, capace addirittura di rimodellare in difetto la politica estera di una media potenza mediterranea come l’Italia. Periodo culmine della pregnanza ideologica dell’idealismo universale tra i clientes degli Stati Uniti, che al di fuori con le primavere arabe in tutto il Nord Africa e nel Vicino Oriente. L’idealismo universale della democrazia laica da esportare insieme con i diritti umani è stato pienamente riconosciuto, in quel periodo dalla maggioranza delle opinioni pubbliche interne alle nazioni occidentali, come provò peraltro l’ostpolitik gesuita di Papa Francesco, al Soglio Petrino due anni dopo, perfettamente in linea con lo zeitgeist dell’epoca. Esattamente, questi, eventi simbolo del periodo di massima potenza intrinseca statunitense, il cui principio si ha nel punto focale dell’attacco alle Torri Gemelle, con la conseguente invasione dell’Afghanistan e dell’Iraq. Il suo termine si ritrova in Capitol Hill, cerimonia di disordine alla vigilia del ritiro americano da Kabul.
Capitol Hill obnubila la memoria dell’attacco alle Torri per chi è nato in quell’intorno che separa i due millenni e regala nuova tinta identitaria e vagamente libertaria all’opinione pubblica europea, insoddisfatta per la gestione dell’emergenza covid. Le elezioni italiane dello scorso settembre, hanno rappresentato un punto di svolta dell’era ideologica ormai chiusa e una novità in politica estera. In Germania Scholtz ha avanzato pubblicamente la pretesa del riarmo e nei giorni scorsi ha tentato di resistere al pressing alleato a Ramstein per l’invio di carri armati Leopard in Ucraina. Contestualmente la popolarità di temi politici legati ai diritti civili ha subito una evidente battuta d’arresto dopo il suo apice nel politically correct dell’era Obama. La tendenza verso un’idea identitaria proto-nazionalista si è manifestata nel voto degli elettori di molti paesi in Europa, non soltanto in Italia. Si pensi al Portogallo di Antonio Costa, al governo Mitsotakis in Grecia, a Sanchez in Spagna, ma soprattutto Duda e Morawiecki in Polonia, Orban in Ungheria e le recentissime elezioni in Repubblica Ceca, contese tra il “populista” Babiš, l’ex generale in pensione Pavel e l’economista Nerudova. Come scriveva Huntington citando Havel nella sua celebre opera “lo Scontro delle Civiltà” :
«Oggi viviamo in un’unica civiltà globale», la quale, tuttavia, «non è altro che un sottile strato di vernice» che «copre o nasconde l’immensa varietà di culture, di popoli, di mondi religiosi, di tradizioni storiche e di secolari atteggiamenti brulicanti “al di sotto” di esso».
Proprio qui la tesi di Huntington riadattata e ridimensionata su scala europea incontra quella di Maria Todorova nella sua opera “Ethnicity, Nationalism and the Communist Legacy in Eastern Europe”. Seppur questa non sia riferita alla categoria di “civiltà”, l’analogia di fondo è evidente. Con la firma da parte dei paesi oltre-cortina degli accordi di Helsinki nel 1975 (nel 1973 la firma è solo dei paesi occidentali), nel giro di pochi anni, nei relativi territori nazionali iniziarono ad emergere club e movimenti intellettuali per i diritti umani in opposizione ai vari regimi. Iniziò dunque a dilagare la cultura occidentale tra i popoli dell’Europa centro-orientale e insieme ad essa il tema della corruzione nel dibattito pubblico, come accadde per altro in praticamente tutte le nazioni europee nella seconda metà degli anni settanta. Con la morte di Joseph Stalin, nel 1953 ebbe inizio il lento tramonto dell’ideologia dell’internazionalismo socialista, basata sulla fratellanza universale dei popoli nel mondo in nome di un unico obiettivo, il trionfo della rivoluzione proletaria mondiale, ideologia che sino a quel momento era riuscita ad unire la variopinta ed eterogenea periferia imperiale d’URSS. Qui iniziava la metamorfosi dell’internazionalismo sovietico verso un patriottismo socialista di matrice etnica, particolare ad ogni nazione del blocco orientale. I limiti dell’ideologia universalista in questione si potevano intravedere già nella rottura tra Tito e Stalin nel 1948, ma subito dopo la morte del leader sovietico la “destalinizzazione” non fu che la distruzione dell’icona personale del precedente leader.
In seguito la reazione ungherese del 1956 (in conseguenza al Patto di Varsavia del 1955 per tenere ancora più stretti a Mosca quei paesi che sarebbero divenuti satelliti), in Polonia Władysław Gomułka e il suo indipendentismo, l’ascesa al potere di Ceaușescu in Romania nel 1965, la Primavera di Praga nel 1968, l’Albania nazionalista e filo-cinese di Enver Hoxha, mentre l’ultimo paese tra questi a manifestare un allontanamento da Mosca fu la Bulgaria, il satellite più fedele a Mosca (e lo fece in maniera del tutto peculiare, ma questa è un’altra storia). Tutti i paesi del blocco sovietico iniziavano lentamente a divincolarsi dalla presa dell’ideologia e del sistema di alleanze che iniziava a non essere più sufficiente per tenere unite all’URSS queste nazioni così diverse l’una dall’altra. Queste iniziavano a reclamare un indipendentismo dovuto al proprio riconoscersi non più nella fratellanza universale di cui si è parlato, ma nelle “leggi della storia” e dell’omogeneità etnica. Il sistema di alleanze intra-blocco consisteva di accordi bilaterali di amicizia, cooperazione e mutuo soccorso firmati da ciascun paese con tutti gli altri per un periodo di vent’anni e aveva le sembianze di una griglia cristallina il cui più forte legame era quello tra il singolo paese e Mosca, il quale era ulteriormente rafforzato anche dalle interrelazioni orizzontali tra gli stessi satelliti. Un sistema eccezionalmente stabile, poiché ogni volta che un paese minacciava di “deviare dalla retta via” veniva frenato sia dal “cordone ombelicale” con Mosca sia dalla forza gravitazionale di altri paesi. Ma tutto questo non fu sufficiente perché il sistema non declinasse parallelamente allo sbiadire dell’universalismo dell’ideologia internazionalista della rivoluzione proletaria.
Ora è evidente che se il Patto di Varsavia ha fallito e l’URSS è addirittura implosa, la NATO e l’idealismo universale statunitense invece siano durati ben più a lungo, reggendo sino ad oggi, sostenuti da un sistema economico capitalistico ben più efficace rispetto al modello sovietico, basato su istituzioni politiche di altro stampo. Le analogie ad ogni modo suscitano perlomeno impressioni sulle quali ragionare, anche se risulta difficile cogliere quanto di storico effettivamente vi possa essere nel vissuto in movimento e di quanto una buckardtiana “risonanza” storica possa essere utile in un’analogia estetica con il passato. Certamente, nonostante la storia si muova a lenti passi e sia difficile comprendere ove essa poserà il prossimo passo, sarebbe utile imparare, o almeno tentare, a leggere il tempo nello spazio che ci circonda per non trovarsi nel posto sbagliato al momento giusto.