Negli ultimi giorni una parte degli apparati americani per mezzo del New York Times ha apertamente dichiarato la responsabilità dell’Ucraina nella morte di Daria Dugina e nell’esplosione del ponte di Kerch in Crimea. Sulla stessa falsariga la portavoce della Casa Bianca Karine Jean-Pierre ha “frenato” dopo la dichiarazione di Biden sul rischio di un “Armageddon” nucleare con la Russia. Queste esternazioni naturalmente non devono essere lette come una prova della buona volontà americana di fronte a degli omicidi (il caso Dugina) o di una sincera presa di distanza da un determinato tipo di attacchi (di cui è impossibile ritenere che gli americani non sapessero nulla) che potrebbero superare la linea rossa di cui tanto parlano i russi, ma come una precisa tattica geopolitica attuata in un momento in cui si rischia uno scontro frontale fra NATO e Russia sul territorio ucraino, cioè un conflitto nucleare.
Inoltre, in questi ultimi giorni, i contorni della famigerata linea rossa sembrano variare: si è passati dall’attacco a città come Mosca e San Pietroburgo a, dopo le recenti annessioni, un attacco ai nuovi territori e quindi all’”integrità del territorio” della Federazione Russa (come è scritto nella dottrina militare della Federazione Russa “celostnost’ territorii”), financo a operazioni mirate contro le strutture strategiche più importanti della Crimea. Prendendo di tanto in tanto le distanze dal governo ucraino (o mostrano di poter essere pronti a farlo) parte degli apparati americani fa intendere di non escludere categoricamente la possibilità di negoziati fra Russia e Ucraina nel caso di un’ulteriore escalation. Questo naturalmente è un avvertimento indirizzato a Zelenski, che al contrario non perde occasione per affermare che non è in nessun modo intenzionato a iniziare una qualsivoglia trattativa (pochi giorni fa è stato firmato il decreto di ratifica della decisione del 30 settembre del Consiglio di sicurezza e difesa nazionale ucraino in cui si afferma l’impossibilità di negoziare con Putin e la necessità di rafforzare la capacità di difesa dell’Ucraina). In questo momento, a parte il Vaticano, nessuno parla seriamente di pace (Europa compresa). Il rischio di un Zelenski difficilmente controllabile da parte occidentale è ormai una possibilità concreta e non solo un rischio probabile fra i tanti.
L’escalation del conflitto e l’esasperazione delle diverse posizioni conducono alla necessità di una presa di posizione nei confronti del conflitto ucraino e di Zelens’kij da parte degli Occidenti: paesi baltici e Polonia saranno dalla parte del presidente ucraino fino alla definitiva sconfitta militare della Russia sul campo, gli Stati Uniti hanno (come tutti d’altronde) l’interesse ad evitare una guerra nucleare e proprio per questo potrebbero essere disponibili ad iniziare i negoziati con la Russia (come del resto sta già avvenendo), mentre Germania, Francia, Italia e Spagna devono capire se il loro sostegno a Kiev implica necessariamente la sconfitta militare o il collasso interno (per motivi politici ed economici) della Russia o se viene annoverata la possibilità di far parlare la diplomazia (cosa che però Zelenski in questo momento non gradirebbe).
La guerra hanno ulteriormente e chiaramente dimostrato che l’Unione Europea è la grande assente. Il progetto di una moneta senza stato aveva già mostrato le sue criticità largamente prima dell’inizio della pandemia ed ora, a fronte di un conflitto sul suolo europeo (prima del 24 febbraio il Donbass evidentemente non era considerato un territorio geograficamente europeo), l’ingenuità di chi ritiene che un’Europa di questo tipo, e per di più completamente asservita alla NATO, possa davvero trovare la forza e l’unione politiche necessarie per la costituzione di un esercito europeo (che nella realtà dei fatti sarebbe un esercito finanziato dai tedeschi e capitanato dai francesi) costituisce un’ulteriore conferma della profonda crisi in cui è caduto il Vecchio Continente. Inoltre, molto spesso, quando si parla di questa ipotetica iniziativa, viene taciuto il fatto che la costituzione di un esercito europeo implicherebbe necessariamente una contrapposizione rispetto agli USA: l’esistenza di un esercito europeo obbligherebbe a ripensare il senso della NATO e delle modalità di permanenza delle sue truppe sul suolo europeo. Si tratterebbe quindi di riflessioni politiche e geopolitiche che almeno in un momento iniziale richiederebbero un distacco dagli USA, cosa in questo momento praticamente impossibile (si pensi all’ingresso di Svezia e Finlandia nella NATO o alla proposta statunitense di istituire un commando in Europa per la gestione del conflitto ucraino).
Al di là della retorica pseudopacifista dell’Europa, tutti gli Occidenti erano fin dall’inizio pro-conflitto. Il discorso pseudopacifista dei media occidentali tradisce le vere intenzioni di partenza: non a caso vengono utilizzati esclusivamente termini bellicistici. Chi parla di pace e trattative viene tacciato di volere la capitolazione dell’Ucraina, mentre chi sostiene senza compromessi l’Ucraina parla di pace solo nel caso di una débâcle russa. Questa situazione di ambiguità è esacerbata anche dal fatto che per sconfiggere militarmente la Russia, soprattutto dopo la dichiarazione della mobilitazione parziale e la nomina di Sergej Surovikin al posto di Gennadij Židko (che non è uno dei tanti cambi di vertici che si sono susseguiti dall’inizio della guerra, ma è molto significativo, e non a caso non è mancata “la benedizione” di Ramzan Kadyrov), sul suolo ucraino servirebbe o l’esercito americano o quello britannico o un contingente NATO.
Il discorso massmediatico occidentale è un discorso bellicista perché in questo modo esaspera il conflitto e rendono probabili le catastrofi più grandi. Si sono create due vere e proprie tifoserie da stadio (bisogna ammettere che è quella antirussa ad essere preponderante) che in nome del partito preso negano la realtà: infatti attribuiscono la violenza della guerra solo ad una delle due fazioni in campo, considerano moralmente riprovevole e quindi da un punto di vista giornalistico più “croccante” solo l’uccisione di determinati civili, parlano di menzogne del Donbass, dei morti di Majdan e della strage di Odessa o mitigano il cambiamento essenziale avvenuto il 24 febbraio rispetto la guerra civile che era in atto dal 2014 etc. Per poter realmente trattare si deve assumere una posizione di effettiva e stabile superiorità sul campo e ciò senza contingenti NATO o americani o britannici è di fatto impossibile. Dato che fin dall’inizio era chiaro che nessuna delle potenze europee era realmente intenzionata ad inviare dei contingenti a sostegno di Kiev non sarebbe forse meglio optare per dei negoziati prima di sacrificare l’intera popolazione ucraina in nome di interessi che con la pace hanno ben poco a che fare?
Considerando che Germania, Francia, Italia e Spagna non hanno nessuna strategia militare-geopolitica unitaria e si muovono di fatto sulla base di tattiche elaborate di volta in volta in maniera estemporanea in reazione ai nuovi eventi, porsi questo quesito diventa moralmente necessario e geopoliticamente urgente. Ogni novità sul terreno del conflitto o nelle mosse degli apparati russi determina, nelle tattiche adottate da questi paesi, effetti che non si inseriscono in nessuna strategia complessiva: con questo approccio Germania, Francia, Italia e Spagna sono, de facto, entrate in guerra con la Russia. Questa tendenza è visibile anche nel caso di altri paesi che invece hanno una strategia ben elaborata come gli Stati Uniti. Quando la necessità dell’invio di contingenti NATO o americani dovuta al rischio nucleare si è fatta concreta sia Biden sia Trump (ma non solo) hanno invocato la pace, ma queste sono appunto dichiarazioni estemporanee.
Ciò è dimostrato dal fatto che, dopo i bombardamenti russi di lunedì, USA e Unione Europea hanno subito deciso di fornire armi più efficaci all’Ucraina. Questa instabilità tattica (ma non strategica) caratterizza profondamente anche lo schieramento russo: gli innumerevoli errori dei servizi di sicurezza dall’inizio della guerra, le recenti sconfitte sul campo e i vari cambi di vertici che hanno portato alla nomina di Surovikin ne sono la prova. L’Unione europea a questo punto si trova di fronte a un bivio: da un lato il riarmo tedesco (quindi una Germania che ritorna ad andare per conto suo) e il sostegno a Zelenski, dall’altro la consapevolezza di fondo che non va giù agli americani della necessità di dover in qualche modo trattare o dialogare con la Russia in quanto potenza essenziale per gli equilibri politici e geopolitici europei degli ultimi quattro secoli. Oltre alle sue conseguenze puramente economiche il riarmo tedesco dovrebbe spronare a risolvere questa situazione d’ambiguità: esso potrebbe trascinare politicamente Francia, Italia e Spagna contro le pretese oltranziste dei paesi baltici, della Polonia e della Gran Bretagna (più soldi, più armi, più soldati) e quindi, soprattutto nel caso del rischio imminente di un conflitto nucleare e della conseguente disponibilità americana a forme più “aperte” e “dirette” di trattativa, obbligarli a riconfigurasi ulteriormente in senso americano e atlantista.
Ciò limiterebbe quindi il proprio appoggio incondizionato a Zelenski e alle pretese antirusse dei paesi baltici e della Polonia che, fin dall’inizio del conflitto, hanno sostanzialmente iniziato a prepararsi per poter essere in grado di fronteggiare una guerra diretta con la Russia (dopo l’inizio del conflitto la Lettonia per esempio ha reintrodotto il servizio di leva obbligatorio). Al di là delle finte preoccupazioni create ad arte e propagandate dai media italiani, con il nuovo governo o, stando allo stato attuale delle cose, con il partito vincente le elezioni l’Italia rimane un paese saldamente atlantista appoggiato dagli apparati statunitensi. Ammesso che abbiano un senso politico che vada oltre le rispettive questioni politiche interne le varie sortite dei democratici o di alcuni osservatori americani nella realtà dei fatti non scalfiscono l’appoggio americano al nascente esecutivo italiano. Da questo punto di vista Salvini è molto più ambiguo, anche se nella pratica ha già sostenuto Draghi.
La necessità di prendere una seria posizione politica obbliga l’Europa a ripensarsi. Si tratta di una sfida epocale che segnerà profondamente la storia europea dei decenni successivi. Dopo circa settant’anni dalla seconda guerra mondiale le società europee occidentali sembrano essere troppo economicistiche e consumistiche per rispondere ad una crisi che dimostra l’urgenza del primato della politica su quello dell’economia e della finanza.