L’attentato in Daghestan dello scorso lunedì 24 giugno è profondamente diverso da quello del Crocus. Nel secondo caso gli esecutori sono stati alcuni dei moltissimi migranti provenienti dall’Asia Centrale disposti a tutto per soldi. Naturalmente erano di fede islamica, ma non erano né terroristi, né molto religiosi (infatti sulle pagine social di due di quegli attentatori erano stati condivisi video su come conquistare le ragazze russe o slave in generale). I mandanti hanno quindi sfruttato una categoria sociale ormai quotidianamente al centro del dibattito pubblico per scopi terroristici, il cui impegno può essere spiegato in chiave geopolitica. Infatti, molti analisti hanno affermato trattarsi della vendetta per l’impegno russo in Paesi come la Siria e in generale la lotta contro l’estremismo islamico.
Il caso del Daghestan è di tutt’altra natura. Nella fattispecie gli organizzatori e gli esecutori sono stati autoctoni che in nome del wahabismo (radicalizzazione del salafismo che a sua volta corrisponde a un estremismo del sunnismo) hanno attaccato una chiesa ortodossa nel giorno della festa della Santa Trinità, sgozzando padre Nikolaj Kotel’nikov, rappresentante storico del dialogo interreligioso locale, una sinagoga, e gli agenti di polizia (connazionali di fede sunnita). Tale finalità simbolica è affiancata da una di tipo strategico: destabilizzare la situazione nel Paese e provocare l’odio religioso reciproco.
Inoltre, a differenza di quello che molto spesso avviene, gli attentatori non provengono da famiglie povere e poco inserite nel contesto socio-statuale. Infatti, due attentatori sono parenti stretti del governatore del distretto darghino di Sergokala, Magomed Omarov (si tratta di due degli otto figli, Osman e Adil’). Un altro attentatore, Gadžimurad Kagirov, è un ex esponente di uno dei club di MMA del famoso lottatore Chabib Magomedov, nonché nipote di secondo grado di Omarov. Un altro elemento da tenere in considerazione è che a differenza di Šamil’ Basaev, per il momento non si è assistito a nessun fenomeno secessionista. I turbolenti decenni seguiti al crollo dell’Unione sovietica hanno visto la proclamazione di emirati islamici o entità statuali indipendenti che spiegavano prima le azioni violente dei separatisti nazionalisti (prima guerra cecena) e poi dei terroristi wahabiti (seconda guerra cecena). In questo caso invece l’obiettivo principale era l’eliminazione fisica degli “infedeli” e dei rappresentanti delle forze dell’ordine costituito.
Ciò dimostra che il radicalismo islamico si è diffuso tra l’élite della regione. Negli ultimi trent’anni, il Daghestan è sempre stato usato come miccia per i conflitti religiosi ed etnici nella regione. Mentre la Cecenia è abitata da un’unica nazione, il gran numero di nazionalità presente in Daghestan rende la situazione più imprevedibile da un lato e più gestibile dall’altro (come ha dimostrato la seconda guerra cecena). Se da un lato i costanti allarmi circa il pericolo ceceno sono infondati, dall’altro la specificità del contesto rende sicuramente la situazione più prevedibile (moltissimo dipende dalle relazioni personali tra gli esponenti politici della repubblica cecena e quelli russi).
Commentando l’accaduto, il politologo Sergej Markov ha parlato di due modelli di lotta al terrorismo islamista e dell’urgente necessità per la Russia di fare una scelta. Il primo è quello ceceno-saudita, il secondo quello azero-turco. Nel primo caso, il potere politico legittimo adotta una forte retorica religiosa, lasciando così gli estremisti senza argomenti e attuando misure volte all’estinzione del fenomeno. Nel secondo caso invece lo Stato insiste sulla laicità, combattendo qualsiasi tipo di radicalizzazione della vita religiosa.
Il terrorismo islamico è un problema molto attuale anche per l’Europa. Storicamente in questo caso la laicità è emersa per facilitare la convivenza pacifica tra diverse religioni. In Russia, come molto spesso accade, le cose sono un po’ più complicate. La realtà etnica, culturale e religiosa del Paese ha portato all’applicazione di modelli differenti: all’interno della Cecenia dell’omonima strategia, mentre a livello federale di quello laicizzante più simile al corrispettivo “europeo”, volto cioè alla coesistenza pacifica di religioni diverse. Tuttavia, a differenza dei colleghi europei, negli ultimi anni i politici russi, nonostante il profondo laicismo dell’assetto federale, hanno insistito molto sulla comunanza morale con il mondo islamico (e non solo) circa i cosiddetti “valori tradizionali”.
Nel caso della Turchia e dell’Azerbaigian, la situazione è leggermente diversa. Qui la politica laica è condotta in un contesto sociale in cui la maggioranza della popolazione professa la stessa fede (islam sunnita in Turchia e islam sciita in Azerbaigian). Pertanto, l’applicazione di queste misure mira a prevenire l’estremismo in quanto tale.
Per la Russia si tratta di un problema interno cruciale per la tenuta del Paese dato che riguarda prima coloro che sono deputati all’amministrazione della cosa pubblica. Escludere la religione dal dibattito pubblico in un contesto come quello russo, soprattutto nel periodo attuale, sarebbe non solo controproducente, ma impossibile. Pertanto, si sta discutendo di come lo Stato possa gestire l’associazionismo islamico sunnita e intervenire nelle attività di tutti quei circoli semi-legali e non necessariamente di ispirazione religiosa in cui, come è ormai evidente, molto spesso si assiste a fenomeni di radicalizzazione.