Il Grande Incontro è un racconto breve di Guido Morselli che mette in scena un dialogo immaginario tra eminenti personalità mai nominate, ma riconoscibili, Pio XII e Iosif Stalin. Si tratta del primo scritto della raccolta narrativa Racconti brevi che nel 1972 fu “offerta” da Morselli all’amica fidata Maria Bruna Bassi e pubblicata solo nel gennaio 1999 con il titolo Una missione fortunata e altri racconti. Per oscure ragioni Il Grande Incontro però non confluì in questa antologia, rimanendo fino ad oggi inedito. Il dialogo immaginario tra i due papi è ambientato nel 1950, anno giubilare.
Come sostiene il professor Matteo Luigi Napolitano, docente di storia delle relazioni internazionali all’Università del Molise, non solo un verbale di quaranta cartelle (anch’esso fino ad oggi inedito) attesterebbe l’offerta di Stalin, ma lo stesso Morselli sarebbe stato a conoscenza del tentativo diplomatico di riavvicinare il Vaticano e l’Unione Sovietica. Secondo la versione letteraria dello scrittore il Maresciallo sarebbe arrivato a Roma in incognito per “proporre un patto di reciproco riconoscimento delle sfere d’interessi” nell’ottica di una “collaborazione amichevole”. Bisogna tenere conto che si tratta della buona volontà dei bolscevichi nell’immediato periodo postbellico. Con “collaborazione” si intende la sostituzione del Papa con un ex gesuita e ora agente segreto, tale Dmitrij Ivanovič, assolutamente identico a Pio XII. Costui avrebbe dovuto eseguire un’iniezione “indolore” al Papa. Proprio per questo se prima il pontefice aveva reputato tale iniziativa “il prodigio di una resipiscenza”, poi si era dovuto ricredere. Le condizioni dell’accordo vennero quindi rifiutate. Nei fatti i comunisti si erano limitati a minacciare e agitare lo spettro di un antipapa proprio come nel caso di Felice V.
Nonostante la sua brevità quest’opera tratteggia perfettamente la tipica arroganza dell’homo sovieticus: il risentimento che si erge ad unica molla dell’agire, la convinzione tipicamente contadina della propria superiorità dovuta alla mera assenza di padroni, il silenzio e l’atteggiamento falsamente umile e bonario che nasconde in verità l’arroganza e l’ottusità di chi non può fare a meno di ripetere che “il mio Paese è abbastanza forte da far arrivare le sue armate sin qui in pochi giorni” (pag. 13), l’idea che per la gestione delle cose politiche sia sufficiente solamente l’intelligenza intesa esclusivamente come capacità di elaborare sotterfugi, complotti e piani segreti che in realtà sono già noti da secoli (appunto lo scenario antipapale) e, infine, la profonda sorpresa di fronte all’inefficacia delle minacce da parte di chi è abituato al costante ricorso della violenza fisica come metodo per risolvere questioni politiche, economiche e personali e che fa dire al Generalissimus «questo vostro palazzo non sarebbe risparmiato. Non abbiamo scrupoli superstiziosi. Non faremo come i tedeschi» (pag. 13).
A questo profilo antropologico si oppone la calma tipica del ministro di Dio che, disponendo della possibilità di punire il proprio interlocutore con “il gesto definitivo che fulminava in antico l’anatema, dannandolo sulla terra per l’eternità” (pag. 11), si limita a ribadire una verità ormai incomprensibile per chi ha negato ogni trascendenza e nonostante ciò di instaurare un paradiso sulla terra esercitando violenza sul prossimo: «Nel travaglio, nel dolore dei suoi membri la Chiesa si afferma e prospera. Le lacrime, il sangue incolpevole, la esaltano. Il desiderare la pace è proprio delle potenze terrene: Voi stesso ne avete bisogno e Ce la chiedete. Predicate la lotta, ma ne avete paura. Mentre la Chiesa, non la teme, la sollecita, la cerca, la vuole!» (pag. 12).
Più tardi, nel romanzo Roma senza papa, il concordato tra Vaticano e Unione Sovietica ha luogo non tanto per volontà dell’ultimo papa regnante, cioè di Pio XII, ma della Segreteria di Stato della Santa Sede che “affinché le porte dell’Inferno non prevalgano” ritiene necessario “puntare i piedi per terra”.
Per ovvie ragioni l’attualità di questa novella ci obbliga a dare uno sguardo al presente. Un dialogo tra Papa Francesco e Putin sarebbe di primo acchito a parti invertite: da un lato un pontefice “aperto” e teologicamente convinto del fatto che Cristo non punisca più, dall’altro un politico (ex agente sovietico) che da anni difenderebbe la causa cristiana e che sarebbe, a quanto pare, disposto a tutto. All’irrazionalità incondizionata di ogni tipo di violenza terrena si opporrebbe quindi un suo utilizzo per fini più alti. Due visioni differenti dell’essere. D’altro canto non si può tacere il carattere ideologico e propagandistico di entrambe le interpretazioni appena esposte (soprattutto della seconda) e notare che nonostante oggi “nel mondo russo” cattolici ed ebrei siano in generale percepiti come estranei o ostili non tanto per motivazioni religiose o teologiche, quanto per ragione storico-politiche, il Vaticano conserva ancora il prestigio e l’autorevolezza della grandezza che fu.