Immaginate: un Re annoiato e al contempo estenuato dalle mille inopportune beghe di palazzo, infastidito da amanti e Regine iperattive, assediato da carte stracce e protocolli, che per svagarsi un poco e per fuggire, complice un ufficialetto ambizioso e le sue amicizie aspirazionali con ricche ereditiere tedesche tra Krupp e Kaiser, si allontana da palazzo sotto falso nome e con documenti falsi, declassandosi al titolo di Conte, e insieme ad un manipolo di fedelissimi, anch’essi dotati di cognomi e passaporti falsi, passa il Gottardo e se ne va a zonzo per l’anodina estate svizzera, desolata come solo può essere un’estate in montagna. Se avete immaginato bene, avrete il più spensierato e insolito romanzo di Guido Morselli, pubblicato anch’esso postumo dal consueto Adelphi, e non poteva essere altrimenti, nel 1975: Divertimento 1889. Ove il divertimento lo abbiamo già dichiarato e 1889 sta per l’anno in cui la vicenda si svolge, centotrent’anni fa, su per giù. Il Re in azzardo è Umberto I colto sul più bello della sua vita, che di lì a poco più d’un decennio verrà spenta dall’anarchico Bresci a Monza, che è la città dalla quale il sovrano fugge – a ragione, si dirà-, consegnandolo alla toponomastica peninsulare e alla gloria dei martiri.
Con la grazia del regista di vaudeville, coi tempi teatrali di un Feydeau più compreso dal suo ruolo di capocomico, evocati ritmi cinematografici da Grand Goeschenen Hotel, Morselli allestisce uno scherzo che ha della ballata e del valzer il ritmo e la dolcezza. Abilissimo come sempre a dipingere minuziose le atmosfere, per un momento svuotato di nevrosi e paranoie (ma il lettore affezionato ce le ritroverà comunque), Morselli ci consegna con questo romanzo uno squisito ritratto dell’epoca, costringendoci a passare col Re e i suoi una breve vacanza dove in vacanza non avremmo mai pensato di andare, tra le nebbioline agostane della foresta svizzera, a caccia di bestie anch’esse villeggianti, a stare compìti alla table d’hôte di un comodo, raccomandato, legnosissimo albergo, tra radi turisti grassocci e già molto infradito ai piedi, Baedeker-muniti, amorazzi per i quali quasi non val la pena di togliersi gli stivali (al Re la donna piace, ma oramai è un uomo finito, non ha più trasporto per nulla), postiglioni disgraziati che quasi ci precipitano in un burrone (e forse sono queste le pagine più gustose e avventurose) e insidie che troveremmo ovunque anche noi, fossimo sovrani in incognito fuori dal Regno.
Per non tacere dei comprimari, che mai s’affollano intorno al baffutissimo sire ma l’accompagnano discreti e accondiscendenti, diremo che un medico bolognese, un aristocratico toscano che tra i suoi ha un cannibale, ragazzine spasimanti che riconoscono in lui il ritratto sopra alla lavagna e sono pronte a buttarglisi tra le gambe se un “malditesta” non lo impedisse (misogino e sottile, Morselli indirizza alle lettrici, nell’ultima pagina, questo libro di passatempo), panettiere formose, giornalisti mitomani che, padani, si fingono inglesi completano il quadretto d’epoca. Appartenente a quel genere perfettamente ottocentesco che è la littérature de loisir, Divertimento 1889 intende “imitare” il linguaggio della Belle Époque, ma resta sostanzialmente fedele alla lingua compatta e fortemente espressiva che contraddistingue tutta l’opera morselliana. E questo rende il romanzo, se possibile, ancor più prezioso: libro decisamente Novecentesco, esso attinge a “Meilhace a Halévy, senza purtroppo la musica-champagne di Offenbach”, ma “consuma e gode l’evasione intenzionalmente. Dunque candidamente. Ostenta i suoi aspetti più gratuiti e svagati” nella consapevolezza che “non c’è vita per quanto infausta e sfortunata, dove non entri la commedia”.
Delle attendibilità storiche di Morselli non abbiamo poi di che dubitare: tutto è accurato, con manie da filologo e da antiquario, e il mostaccioso sovrano ne esce fuori perfetto, e resta il dubbio che Morselli non abbia raccontato, da testimone oculare e per suo privato spasso, una vera settimana di vita di quel Re un poco imbolsito, molto poco umbertino, frugale e nient’affatto dannunziano, piemontese fino alle medulla. Serpeggia nel libro un grande tema morselliano: l’impossibilità di sfuggire a se stessi. L’impossibilità di nascondersi al Mondo. La vita nascosta, essenza dell’epicureismo, è impossibile in un’epoca di satelliti e macchine fotografiche ovunque, e va bene, ma che sia impossibile tra i boschi e le brume svizzere nell’anno in cui Nietzsche impazzisce (e manda letterine anche a Umberto, chiamandolo “figlio mio” e spronandolo a incontrarsi a Roma insieme al Santo Padre: un altro noioso impegno da aggiungere all’agenda del Re d’Italia), è una jattura che trascende le umane sfortune e si fa anzi essenza dell’esistenza dell’uomo sulla terra. La soluzione finale è immaginare un mondo senza uomini, un mondo in cui gli uomini semplicemente evaporano, si dissipano in pulviscoli invisibili, l’H.G (Humani Generis) scompare.
Ma in Divertimento 1889 siamo ancora in un mondo esistente, in cui l’invenzione letteraria è così squisita che quasi ci fa dubitare si parli di un mondo perduto: d’altro canto Morselli, nato nel 1912, cioè in uno degli ultimi anni della Bell’epoca di cui vuole raccontare un marginalissimo assai poco mondano strapazzo, non si rifugia qui in un lontano universo d’invenzione, ma fa una descrizione della sua infanzia, una stagione dalla quale Morselli forse non avrebbe mai voluto uscire (mentre, in quegli stessi anni, Gozzano chiedeva alla giovinezza di non abbandonarlo a Grazielle, Carlotte e medici prodighi di consigli: Nervi, Rapallo, Sanremo). Fino a mettere in dubbio, nella preziosa ultima pagina rivelatrice, che quell’epoca “di un’Italia lontanissima” non sia mai esistita e sia “luogo comune”, ma ammettendo poi subito dopo, come fanciullo malvolentieri cresciuto, che “di favole abbiamo sempre bisogno”.
Se un difetto dobbiamo trovarlo, ché di libri perfetti dobbiamo ancora scoprirne, diremo che la trama procede un po’ a tappe forzate sui binari della trama stabilita, con brusche virate, scoppiettando di vaporiera e altre diavolerie. Morselli rimedia con l’olio della sua prosa e di una costante, talvolta spietata, ironia. La modernità che incombe, nell’anno esatto della grande esposizione universale di Parigi e della torre Eiffel, è forse l’ultimo grande argomento di letteratura morselliana che ritroviamo anche in questo inconsueto libello: un re poteva fuggire la quotidianità e il cerimoniale di Stato nell’epoca delle corriere e dei lumi a olio, ma la bugia non regge nell’epoca dei treni a carbone e dell’elettricità. E non è un caso che il Re, nel viaggio d’andata, si senta mancare l’aria nello scompartimento riscaldato del convoglio tutto per lui prenotato. Non ansia per la fuga-vacanza, non straniamento di sentirsi, d’improvviso, uomo tra gli uomini, senza consacrazioni divine e altre corbellerie monarchiche, ma coscienza del tempo che passa, dell’inesorabile tempo che accelera vieppiù, e non c’è freno o morso che tirando la briglia, lui abile cavaliere, possa fermarlo.