Lo spettro dell’Apocalisse aleggia sull’umanità da tempo immemorabile. Sfumature di un’attesa messianica e di un inferno ormai prossimo si sono succedute nell’arco dei secoli sul mondo. Creature rivoltanti, divinità ed angeli vendicativi. Oppure un destino ineluttabile, frutto della deriva di un modello economico e sociale insostenibile incarnato dall’Occidente capitalista. Se Apocalisse sarà, avrà le sembianze di un’ecatombe nucleare o del collasso ecologico. Un senso di vecchiaia e di redenzione aleggiano nell’aria, rendono simili le proteste ecologiste al furibondo messianismo cristiano che precede la caduta dell’Impero romano d’Occidente, così come suggerito da Di Dario:
«L’uomo giunto al crepuscolo della propria vita può decidere di non vivere la propria vecchiaia, vagheggiando il passato, oppure può accumulare esperienze ‘nuove’ e forsennate.»
Spesso la letteratura ha affiancato e corroborato la filosofia nel delineare le traiettorie dell’uomo, rendendolo consapevole e cosciente del proprio futuro, scandendo le tappe del suo trionfo o del suo degrado. L’utopia ha lasciato spazio, nell’ultimo secolo, al terrore distopico. Giunti al culmine di un processo di crescita materiale ed economica senza precedenti, gli Occidentali si sono così interrogati sul senso del loro procedere. Hanno guardato al Destino, prospettando la fine delle ambizioni e dell’arroganza umane. La Natura, vittima e apparente sopravvissuta di tale – ed ultimo – scontro si è fatta ad un tempo nemica e agnello sacrificale.
Nell’attesa dell’umanità globalizzata e nelle sue schizofreniche ansie ambientaliste, fatte di multinazionali di vertici del sistema economico occidentale responsabili, in prima linea, del collasso climatico e dell’ecologismo di facciata, si innestano due capolavori del genere post-apocalittico: uno è La nube purpurea di Matthew Phipps Shiel; l’altro è Dissipatio di Guido Morselli. Strutturalmente simili, laddove un solo individuo si salva in circostanze del tutto fortuite dalla fine dell’umanità, rappresentano più che due diversi epiloghi, due diverse visioni del mondo. Quella dell’inglese fa capo agli ultimi bagliori dell’età vittoriana. Alla Belle Epoque, giunta al suo capolinea poco prima di conoscere gli orrori delle guerre mondiali e la fine della civiltà europea dell’Antico Regime. Rappresenta altresì la violenza che cova sotto la bigotta ed artificiosa società britannica dell’epoca. Un delirio di onnipotenza pronto a riversarsi contro ogni elemento umano e naturale. Con l’umanità, Shiel trascina la Natura. L’umanità è così dominante, così padrona, da aver ormai reso il pianeta un proprio fedelissimo servitore:
«Ricordo che secoli fa mi raccontarono che nelle praterie americane, teatro nei tempi antichi di terribili tempeste, queste tempeste erano diventate a poco a poco sempre meno tremende, a mano a mano che l’uomo procedeva nell’occupazione di quelle nuove terre; e così, se ciò fosse vero, bisognerebbe dedurre che la semplice presenza dell’uomo esercita un certo effetto calmante o mesmerizzante sulla turbolenza innata della Natura, e che uno dei risultati della sua assenza sia stato oggi quello di togliere un simile freno.»
La Natura fatta per l’uomo, non il contrario. Così, la Natura collassa con l’uomo, muore con lui. Il collasso climatico della civiltà umana è collasso del pianeta intero. La nube purpurea è in fondo una punizione totale. Il Signore che distrugge biblicamente il mondo intero, senza risparmiare nessuna delle sue creature. La Natura muore con l’uomo perché è percepita come estranea e del tutto inerte. La selva dantesca, ancora in Di Dario, è il simbolo di un’ostilità che è insita di messianismo. È punizione orrenda, oggi volta artificiosamente al servizio dell’uomo della modernità. In fondo, da nemica si è fatta vittima e sta sempre all’uomo il compito e l’onere di “salvarla”, quando l’unica salvezza ricercabile è per l’umanità stessa. Così la Natura leopardiana resterà in vita, senza rendersi conto della fine di una delle sue parti – forse neanche della più significativa. Incede, indifferente, nell’Apocalisse di Morselli, irridendo l’arroganza umana:
«La fine del mondo? Uno degli scherzi dell’antropocentrismo: descrivere la fine della specie come implicante la morte della natura vegetale e animale, la fine stessa della Terra. La caduta dei cieli. Non esiste escatologia che non consideri la permanenza dell’uomo come essenziale alla permanenza delle cose. Si ammette che le cose possano cominciare prima, ma non che possano finire dopo di noi.»
Sembra rispondere a Shiel e ad ogni scrittore post-apocalittico. Laddove gli animali e tutte le specie viventi collassano con l’umanità sotto i colpi della nube purpurea, l’uscita di scena dell’umanità in Morselli è silenziosa. Improvvisa. Nessuno se n’è reso conto. Metafora micidiale di quanto l’umanità sia una parte addirittura trascurabile della Natura e non la sua ultima realizzazione. Una parte che è Tutto e Nulla al tempo stesso. Ideale successore di Giordano Bruno o dello stesso Giacomo Leopardi, Morselli delinea un personaggio che al delirio sostituisce la rassegnazione e la filosofia. Lascia il messianismo, l’estremismo e la presunta onnipotenza ai post-apocalittici d’Oltreoceano e delle isole britanniche. Si fa interprete di una rispettosa accettazione. Di una riflessione disincantata sull’umanità, che dopo la Seconda Guerra Mondiale, si condensa in Occidente in un’opulenza sfrenata, di cui oggi paghiamo le conseguenze:
«Certo è che gli uomini, lo sapessero o non lo sapessero, volevano morire. Da anni, da decenni. Inquinamenti: agli inquinatori piaceva d’inquinare in primo luogo se stessi; “Io abito nel recinto della mia fabbrica, eppure ho una palazzina in città”, risponde un industriale. Violenza: in primo luogo era violenza contro se stessi.»
Oltre il castigo vi è una responsabilità collettiva, degli industriali e degli uomini dei vertici del sistema economico capitalista. Oltre il castigo vi è l’unica verità possibile: che il primo e l’unico a morire nell’apocalisse climatica o d’altra origine, sarà l’uomo. E la Natura permarrà intatta. Forse persino migliore, sottolinea Morselli. Forse, ciò che è venuto a mancare all’uomo è un timore reverenziale e sacrale nei confronti dell’elemento natura, che non si riduce ad artificiosi “ritorni alla natura” quanto ad una vera e sentita esigenza spirituale. Se la Natura è divinità ostile, “matrigna”, essa è anche spiritualmente contigua all’umano:
«La perdita del timore reverenziale che la natura vasta e incontaminata usava ispirare all’uomo, è una delle menomazioni vitali di cui soffriva la nostra epoca.»