L'editoriale

Morselli, il marxismo e gli intellettuali

«Il comunista» narra la storia di Walter Ferranini, deputato di Reggio, la «Kiev dell’Emilia» che senza brigare per la medaglietta si trova, in virtù delle sue capacità, ad esser inviato alla Camera per rappresentare le istanze del proletariato . E Ferranini si accorge che «si riesce meglio a mostrarsi eroici che a durare coerenti»; si rende conto che la tentazione borghese è forte, troppo forte, e lo travolge.
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È probabile che anche il 1978 sia l’anno di Guido Morselli, di cui la casa editrice Adelphi annuncia un nuovo romanzo dal titolo «Un dramma psicologico» impostato sui rapporti fra un padre e una figlia. E siamo curiosi di vedere come l’industria culturale reagirà a questo nuovo lavoro di un narratore che in vita giunse soltanto alle seconde bozze in correzione, e lì si fermò, stante la pruderie di una casa editrice che, cambiando direttore editoriale, altresì cambiò linea ideologica. Quest’«incompiuta» riguardò, «strano» a dirsi, tra i libri di Morselli il più «politico», quel «Il comunista» che ha mostrato come la nostra classe letteraria — fatte le rare, doverose, ma oramai conosciute eccezioni — soffra di quello strano morbo che si chiama conformismo, e che finisce col far tutti affogare nella stessa palude stagnante pur di non fare sentire in questo coro intellettuale la voce di un solista più o meno di grido.

E del resto, bisogna pur dirlo, Adelphi la combinò grossa con quel suo mischiare le carte facendo uscire romanzi che variavano dal «fantapolitico» («Roma senza papa») alla reinvenzione storica («Contro-passato prossimo»), al divertissement garbato ed ironico («Divertimento 1889»), tutti libri che ottennero messi di lodi e di consensi: scrittore geniale, abile mimetista, capace di toccare i tasti più disparati; circondato da quella morte data di propria mano che ne faceva anche un personaggio particolare, ce n’era di che discettare senza troppo scendere in soverchie analisi ideologiche. Poi, di colpo, appare «II comunista» e la pietra gettata nello stagno culturale giunge così violenta che sembra non gli si possa evitare di provocar tali e tanti cerchi sull’acqua da renderla ondosa per un bel po’. Anche perché si scopre che gli altri romanzi prima pubblicati, cronologicamente vengono dopo quest’ultimo, per primo causa di censura: e se la logica non è un’opinione, e la conseguenzialità un libero arbitrio, si può sospettare un rapporto di causa-effetto tra il contenuto del volume ed il veto che gli venne dato. Bollato una volta, bollato per sempre, sembra evidente: e si che Morselli godeva di stima in ambito letterario, ed a suo tempo aveva collaborato a testate di prestigio e scritto saggi di un certo interesse.

Lo stagno invece non si è mosso: la pietra è finita in una sottilissima rete tesa a pelo d’acqua, ed il romanzo è stato circondato di tanti e tali distinguo da sterilizzarlo come si fa con il malato prima dell’operazione. Cosa è allora questo «comunista» morselliano, quale monstrum il povero scrittore narrò, di quali colpe in effetti si macchiò? Esaminiamo un po’ questo lavoro; e poi riprenderemo le fila del caso giornalistico sopra di esso montatosi.

Il comunista (Adelphi) di Guido Morselli

«Il comunista» narra la storia di Walter Ferranini, deputato di Reggio, la «Kiev dell’Emilia» — come i suoi compagni ed amici tengono a sottolineare — che senza brigare per la medaglietta si trova, in virtù delle sue capacità, ad esser inviato alla Camera per rappresentare le istanze del proletariato. Ferranini è un lavoratore serio, quasi maniacale nella sua caparbietà. Non ha avuto un passato facile: antifascista, ha fatto la Spagna, sia pure quasi sempre tra malattie e retrovie, ed una volta sola assaporò la gioia che dà la prima linea e la fede di chi non ha paura. Dalla Spagna, prima in Francia, poi negli Stati Uniti: il passaggio è veloce, quasi senza strappi. Ma anche nella terra del capitalismo, Ferranini Walter, figlio di fuochista-ferroviere anarchico, comunista convinto inizia la sua esperienza visitando le tombe di Sacco e Vanzetti. A poco a poco però la società americana l’«american dream», l’agiatezza imborghesiscono questo operaio scontroso e taciturno, dal cuore «sfessato» per le fatiche giovanili. E Ferranini si accorge che «si riesce meglio a mostrarsi eroici che a durare coerenti»; si rende conto che la tentazione borghese è forte, troppo forte, e lo travolge. Si sposa, ma il matrimonio fallisce: lei è troppo presa dal sacro fuoco del patriottismo americano; lui vittima-carnefice di un rapporto che non riesce a far «quadrare», un’unione a due che in realtà rimane sempre «circolare». E cosi Ferranini riparte, torna in Italia, al suo paese: e qui riprende la frenetica attività di comunista che il dolce-amaro esilio americano gli aveva fatto dimenticare. Ecco che allora Ferrarini, che il «fascino discreto della borghesia» lo conosce perché lo ha subìto, diviene uno strenuo difensore di quella purezza rivoluzionaria che sola può salvare l’anima e il corpo del suo partito.

Deputato, si vergogna delle macchine, del compagno che giuoca alla bisca, che spende in vestiti: deputato del terzo partito comunista del mondo, «se [vuole] avere un minimo contatto con la vita dei lavoratori dev[e] andare a disturbare quelli là della tipografia. I deputati del PCI che frequent[a] sono dei notabili, dei borghesi, non sono dei lavoratori». Ma questo Ferranini che Morselli ci presenta in piena destalinizzazione, alle soglie degli anni ’60 (con l’occhio lungo però dell’autore che il romanzo lo ha scritto tra il ’64 ed il ’65), non è solo un tenace mastino della intransigenza rivoluzionaria: non é solo quello che, agli aspiranti federali in fregola con la borghesia, recita quel brano del Manifesto di Marx che ammonisce essere «la borghesia (…) formidabile come forza assimilatrice. Trasforma la gente a sua immagine e somiglianza. Anche quelli che dovrebbero, potrebbero, combatterla». No, non è solo questo, chè Morselli presta al suo personaggio motivazioni e spunti, ed illuminazioni che son suoi. Come dimenticare la figura della giovane intellettuale comunista, collaboratrice al «Menabò», che scrive di strutturalismo e di rapporti tra letteratura e industria? «L’introdursi della sconosciuta [la giovane, n.d.r.] gli parve istantaneamente emblematico di una decadenza, di un tradimento in atto. La quinta colonna degli intellettuali balordi nelle sedi del Nord». È la prima spia rossa che si accende: il ceto intellettuale, borghese, chè quello operaio non ha una sua autonoma cultura, è il vero effettivo padrone del partito. Non per nulla, quando Ferranini verra richiamato all’ordine, si accorgerà con disgusto di trovarsi ad esser giudicato da una casta di intellettuali.

Ma il libro è tutto costellato di queste luci rosse intermittenti che lanciano messaggi che puntualmente poi, a livello storico, si verificheranno. Ecco Ferranini inviato in missione giudicatrice in relazione ad un caso di deviazionismo nei riguardi del compagno Mazzola. Cosa ha affermato Mazzola di tanto grave? Che «nella Federazione giovanile comunista la crisi c’è. E ci sarebbe (…) come sintomo di una deficiente comunicazione, pratica e ideologica fra le nuove generazioni popolari, vibranti di intransigenza, ansiose di azione concreta e le gerarchie (…) paralizzate dall’attendismo o addirittura dal trasformismo. Invecchiate. Rinunciatarie. Deludenti, in ogni caso». Son parole profetiche: di lì a pochi anni avremo l’esplosione del ’68, la scissione del Manifesto, il formarsi dei gruppuscoli extraparlamenari.

Ma Morselli non vede, soltanto, la contestazione da «sinistra» al PCI, ne coglie acutamente anche l’involuzione strategica verso «destra». Per il suo Ferranini, al quale ad ogni piè sospinto bonariamente vien ricordato che «non sa» far politica, il compromesso è in atto, strisciante ma in atto: «Si fa tacere la base, si chiamano piazzaioli quelli che cercano di interpretare le aspirazioni della base, massimalisti ingenui quelli che si attaccano alla speranza di attuare il socialismo. E si ripiega sul tatticismo parlamentare, ci si accontenta di fare polemica coi riformisti e i dc, in attesa di offrirsi come alleati». Ma è proprio questa tattica attendista che porterà il PCI al potere, spiega allo scontroso Ferranini l’amico e «notabile» Amoruso; e glielo spiega durante un viaggio di studi in URSS (ironia involontaria della scelta della scena politica?): «In Italia abbiamo un turno di elezioni generali ogni due anni e mezzo circa. A ogni elezione il nostro partito guadagna un cinque per cento. Per cui entro quindici anni noi si arriva al potere (…) con tutte le comodità. Alla maniera della democrazia formale, e cosi diamo un esempio agli altri paesi del blocco occidentale e stabiliamo un precedente». Il compromesso storico, Morselli lo aveva previsto e teorizzato con una lucidità che ha del prodigioso.

Ferranini, comunque, dal Partito accetta tutto: è una Chiesa, e si deve ubbidire. Ovvero è un grande padre, cui non si può dire di no; e per un solitario per vocazione, come lui è, è anche il rifugio sicuro di chi sente il mondo circostante ostile, e ne ha assaggiato uno — che poi é quello dal suo partito più avversato — che gli ha lasciato la bocca amara. Per cui accetta di giudicare il compagno Mazzola, così come accetta di interrompere la relazione che ha con una donna separata dal marito industriale che ora corteggia il PCI. Il privato è politico, per dirla in termini attuali, e Ferranini non fa una piega. Ma il «comunista» di Morselli ha una testa, e non gli si può impedire di ragionare; e proviene dal sudore e dalla fatica, e non gli si può ordinare di dimenticare. Cosi, allorché in casa di amici, un personaggio come Moravia gli chiede un breve articolo da pubblicare su «Nuovi Argomenti», avente come tema il lavoro, Ferranini se la prende addirittura con Marx, e ne contesta il concetto di alienazione. Se per questi l’alienazione era «la sorte che nella società presente lega l’uomo alle cose una volta che, credendo di annettersele con quell’attività espansiva e conquistatrice che è il lavoro, sia entrato in rapporto con esse e non riesce più a far ritorno alla sua sfera umana»; per Ferranini, è tutto l’opposto. «La esperienza quotidiana ci insegna che il Mondo, esterno e fisico non dipende da noi, ma proprio al contrario (…). Siamo coatti. Lavorare, produrre, non è mai un qualcosa di spontaneo, non è l’affermarsi di una nostra personalità, è soltanto una necessità, che non dà tregua». E ancora: «vivendo ci rendiamo conto ogni giorno che lavorare (e dunque soffrire) è una legge che ci è imposta dal di fuori. ’Alienazione’? (…). Direi che non c’è modo di alienarci (ossia di perderci) fuori di noi (…). Il lavoro con la sua penosità è dunque una condizione universale e insopprimibile. Senza riscatto».

Ed ecco che Morselli lucidamente, ferocemente, distrugge il mito scientista del marxismo, ne sconvolge il concetto di «sovrastruttura», ne elimina la componente capitalista come malattia da estirpare per dare al mondo la felicità socialista. Tutto falso: Ia penosità del lavoro non è connessa alla alienazione ed allo sfruttamento capitalistico, ma è insita al lavoro stesso. Par quasi di sentire Evola e la sua demonia dell’economia, anche se le posizioni di quest’ultimo provengono e giungono per altri lidi. Ma una simile affermazione permette altresì a Morselli di marciare ancor più rapidamente verso quella visione di USA-URSS come due facce di una identica medaglia: nel primo «c’é la precarietà di tutti i rapporti, che rimangono rapporti condizionati, sempre revocabili. Apparenti. In contrasto con l’assolutezza dell’organizzazione. Quindi l’uomo per l’organizzazione, e non viceversa (…). Dall’altra parte, con opposte premesse risultati simili».

Ferranini viene convocato, ed ammonito: il Santo Uffizio che lo giudica non lo prende sul serio, si sente troppo forte per doversi preoccupare di un uomo solo che «disputa» sull’alienazione. Ha pronta una «cartata» di intellettuali per ribattere. Ma per Ferranini invece é il segnale che qualcosa non va, è la nuova spia rossa che Morselli fa lampeggiare: criticano il fatto che lui pensi con la sua testa, non la critica in sé. È un dissenso ideologico che non li disturba, perché si sentono corazzati; ciononostante, è meglio che Ferranini non pensi più da solo. Non c’è la condanna: ma lo svogliato richiamo all’ordine di chi, un po’ sorpreso, vede che esiste chi osa confutare i testi sacri.

Una vecchia edizione

Il partito é forte, e lo sa: un’ammonizione può bastare. E invece no, è proprio questo che nell’operaio Ferranini fa scattare la molla della ribellione, è proprio il vedere che quella Chiesa in cui si era rifugiato, ritenendosi gregario, in realtà gli sta stretta: per chi vuol vivere liberamente, è troppo poco. Morselli è pero troppo intelligente per fare del suo personaggio un ammalato di nostalgie borghesi, che riprende il primo aereo e torna al capezzale della moglie malata. I conti van chiusi tutti, quelli col presente e soprattutto quelli col passato. L’esagitato e pericoloso viaggio negli Stati Uniti che Ferrarini fa sapendo la moglie in gravi condizioni fisiche, serve a togliergli ogni illusione che sul «ricordo» si possa costruire qualcosa. Ferranini torna solo, accettando sé stesso e la sua indipendenza.

«Il comunista» di Morselli racconta dunque la crisi di una fede, la paura della eresia ma nel contempo I’assoluta necessità di rivedere ogni dogma codificato. Impostando la sua visione del Partito come Chiesa, egli si permette di fare una critica al comunismo come religione; non fa questioni di aperture di metodo o di crisi dovute a motivazioni politiche esterne: al contrario, la fede vien meno nel momento in cui l’ortodossia che «quella» Chiesa pretende, si rivela per il credente falsa perché verificabile nella sua falsità; ed in più una ortodossia che non ha dalla sua nemmeno il fascino dell’intransigenza assoluta, perché giudica il credente da punire non per il peccato in se, ma per l’importanza o meno del peccatore.

Conveniamone, il libro è d’eccezione nel panorama Ietterario di questi nostri tristi e triti anni ’70; e, particolare importante, è il primo romanzo che tocca un problema di tal genere, e dall’interno. Bene, all’apparire del volume si è assistito ad un soave balletto sulle punte della stragrande maggioranza della cultura italiana. Tralasciando le recensioni di un Pampaloni o di un Gianfranceschi, abbiamo avuto di tutto: ci si è affrettati a notare che «non é un romanzo di parte, a tesi, ideologico (…); non appare nemmeno ispirato da una vera passione politica; ci si è premurati di dire che «il borghese Morselli non é un volgare pamphlettista anticomunista», e di questa precisazione francamente non ne abbiamo ancora compreso la necessità; si è parlato di «un caso di dissenso ideologico», ma subito si è altresì avvertito che «non è un romanzo ideologico». Tutta questa pruderie, è stata del resto abbondantemente ripagata dal PCI che sul suo settimanale ufficiale, e per la penna di Lucio Lombardo Radice, ha tentato a sua volta un’operazione se non di accaparramento almeno di annacquamento. Radice, dopo gli elogi di prammatica, se l’è presa con Morselli perché, a suo dire, alcuni punti della vicenda suonerebbero falsi. Il fatto che il Partito intervenga nelle vicende private del protagonista, ad esempio: «L’episodio non sta in piedi. Anche se nel PCI, la percentuale dei matrimoni riusciti e stabili è, credo, superiore alla media nazionale, non è stata davvero mai legge la indissolubilità, il divieto di cambiare compagno». A parte il fatto che il «puritanesimo» di quel partito è cosa nota (e grosso modo negli anni in cui Morselli ambienta il romanzo Pasolini ne seppe qualcosa), si potrebbe obiettare che il critico dimentica che le pressioni su Ferranini esercitate, derivano anche dal fatto che il marito della donna con lui «convivente», è un industriale vicino al PCI e quindi utile per la battaglia comune. In quest’ottica non ci sembra che Morselli abbia calcato eccessivamente la mano.

Ma per Lombardo Radice, inoltre, se è «possibile un dibattito su natura e società, sul lavoro e alienazione tra comunisti italiani, nel 1958, [è] impossibile il finale ’amministrativo e dogmatico’. Il PCI non è mai stato un partito ortodosso e di ortodossi». Qui non si sa francamente se lo scrivente abbia in se una nascosta ed involontaria vena umoristica, o creda veramente in quel che dice. Comunque, baldanzosamente, Lombardo Radice ci viene a dire che la non comprensione del PCI da parte di Morselli è «da ricercare (…) nell’inquinamento anticomunista della vita italiana», «una propaganda menzognera» che influenzò «persino il giudizio di un uomo come Guido Morselli». Ma, conciliante, Radice fa carico al PCI di una certa qual dose di colpa, quella di un partito fatto da uomini «troppo gelosi di certe nostre libere discussioni interne, troppo preoccupati anche di un’unità esterna, ufficiale». È insomma il trionfo del «volemose bene», dell’«embrassons nous» totale.

Questi alcuni dei florilegi colti qua e là sulla stampa italiana: a dimostrare come su ogni critico aleggiasse, consapevolmente o no, la paura che dicendo bene di un romanzo che è anticomunista sia nel contenuto che nella persona di chi lo scrive, si venisse accusati di «lesa maestà». E sì che poco tempo dopo Adelphi tira fuori dal suo cappello a cilindro, quello che forse è il capolavoro dello scrittore, quel «Dissipatio H G» in cui la weltanschauung morselliana vien fuori completa e precisa.

«Dissipatio» è un romanzo singolare, lungo monologo interiore, documento-confessione di un solitario che svela sé stesso agli altri ben sapendo che non sarà mai una pubblica operazione; lungo pezzo di sofferta bravura sul dramma della solitudine, il voler morire e la condanna, una volta che il pensiero del suicidio ti tocca ma non lo attui, a vivere in un mondo di morti. La storia è presto detta: alla vigilia del quarantesimo anno di età, uno scrittore di non molta fama, ex giornalista, ex amante, ex tutto, decide il suicidio in spregio alla società, alle sue leggi, alla vita stessa. Al momento fissato la paura lo riprende, l’ignoto è più fosco ed alienante del già noto: meglio continuare a vivere, ovvero a vegetare. Ma proprio mentre sceglie la vita, questa scompare, si volatilizza dal mondo intero: i corpi evadono dalle case, dalle strade, dalle piazze, la dissipatio humani generis si attua così, dall’oggi al domani. Solo, completamente, monarca-anarchico di sé stesso e della terra, lo scrittore, inizialmente scettico, a poco a poco si convince che nel mondo di uomo é rimasto lui soltanto; il resto, l’umanità tutta si è involata, chissà dove e chissà per quale motivo. Lo strano è che la natura rimane viva e ben presente; cosi come «vivo» rimane anche Io scheletro di una società all’insegna della tecnica, del consumo, del progresso: luce, gas, macchinari, tutto continua a funzionare, per nulla turbato, minimamente deviato, con una sua logica indipendente da chi li progettò.

Nel suo monologo continuo, bizzarro, estraniante ed estraniato, l’ultimo uomo passa in rassegna sé stesso ed il mondo circostante: amicizie, luoghi, momenti; ora illudendosi di essere il prescelto in un’umanità che nella «dissipatio» trovò il suo castigo; ora l’escluso in un’umanità angelicata ed assunta a l’Empireo. Cosi, in un vagabondare spirituale e fisico, la nuova umanità che egli rappresenta, s’interroga, scopre, riscopre, rammenta, cancella: e nell’attesa-certezza di un altro uomo, un medico che in altri tempi lo curò dal male della solitudine, ritrova la calma e Ia tranquillità per bene vivere.

Anche qui Morselli svela in pieno il suo individualismo, la sua impossibilità a credere al sociale, al mito societario in quanto tale: «se penso, osservo, ecc., lo faccio e sono ben contento di farlo, soltanto per me. Io sono il destinatario, non il provvisorio consegnatario. Ancora un assioma che si smentisce: ’Pensiamo soltanto in funzione degli altri’. Il vecchio Durkheim, uno dei padri teorici del ’sociologisme extrême’, arrivava a dire che il concetto consiste nel sottomettere l’individuale al sociale; che sarebbe come se uno proclamasse: Sono nazionalizzate le fragoline di bosco». E ancora: «Sono sempre stato un nominalista: la società non esiste, ciò che esiste sono i gruppi, anzi l’individuo tout court».  L’individuo, dunque, in primo piano, politicamente, ed ironicamente, definibile «con tre sole coordinate: isolazionismo di intellettuale, vago anarchismo, conservatorismo piccolo borghese, quell’animus piccolo borghese in cui Lenin vedeva il nemico numero uno». Ma Morselli non solo è individualmente «asociale»; non crede neppure ad una solidarietà tra gli uomini, foss’anche imposta da necessità contingenti.

Anche in «Dissipatio», il no a consumismo e collettivismo è totale, sia pure con diverso stile, con ironica-malinconica elencazione dei propri odi e disgusti: «Nell’età della tecnologia se il radio-mondo tace, bisogna che la civiltà cosiddetta associata sia sospesa, per non dire perenta, che l’Organizzazione (…) si sia dissolta, che il polipo dell’Economia non allunghi più la miriade dei suoi tentacoli immondi… Alle due di stanotte ho chiuso la complicata ricevente giapponese, ho improvvisato al suo cospetto un epicedio alle genti. L’ideologia, oppio dei popoli, requiem; il consumismo, loro pane avvelenato, requiem; il dogma bugiardo «voi siete il prodotto della Produzione», requiem (…). La vostra schiavitù la volevate, ne eravate gli autori. E non poteva scomparire che con la vostra scomparsa».

Del marxismo, dunque, cosa poteva interessare Morselli, nel momento in cui ne rifiutava certezze e basi ideologiche? E come si può tentare di ignorare tutto questo, facendo passare l’attenzione che l’autore dedica al problema come un interesse a metà tra «sospetto e rispetto»?. Bisogna in verità esser grati al «Manifesto» che, a firma di Severino Cesari, nel tentativo di difendere il PCI, affidandosi alla psicanalisi, ha scritto in fondo alcune cose interessanti. E cioè che «è assoluta la sproporzione tra l’insistenza e l’angoscia con cui si presenta il motivo della sofferenza del lavoro (…), e la sua pretestuosità e inconsistenza «politica» da farci sospettare che ci sia dell’altro». Cesari lo scrive per esorcizzare Morselli, ed invece, rovesciando il suo discorso come un guanto, il quadro è perfetto. Il Partito, la massa, l’ortodossia, l’ideologia, a Morselli non bastano; i primi due cozzano contro la sua visione aristocratica ed individualista della vita, la terza contro chi rifiuta di accettare dogmi umani codificati, l’ultima, infine perché negata nei suoi presupposti e nelle sue mete finali. Certo che c’è «dell’altro» nel «Comunista» di Morselli; ed è che quel mondo, per quanto grande esso sia, gli va stretto, irrimediabilmente stretto. La stoffa della premiata ditta Marx-Engels non gli basta per confezionarsi un vestito; non solo, ma neppure gli piace.


“Mi è saltato per le mani  un vecchio saggio che feci per la rivista Intervento su Morselli…Doveva essere il 1977 o il 1978. Visto che siete in piena Dissipatio, ve lo giro, magari vi può essere utile, corsi e ricorsi della storia” (S.S).

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