La storia dei rapporti tra differenti popolazioni, etnie, religioni, sistemi socio-culturali o civiltà è stata caratterizzata da incontri, scontri, incomprensioni, dialogo, scambi commerciali, guerre, vendette, massacri e salvataggi. Una costante ricavabile da quella splendida (e bistrattata) disciplina quale è la storia può essere quella della complessità circa le relazioni internazionali tra stati diversi, superpotenze o addirittura grandi macro-aree geografiche e/o civiltà divise, principalmente ma non solo, dalla distinzione Nord-Sud o, quella molto più in voga, Oriente- Occidente. L’Europa, culla di mille cambiamenti, innovazioni, fermenti culturali, filosofici e artistici, è sempre stata considerata all’avanguardia per quanto riguarda il progresso, in tutte le sue molteplici accezioni – materiale, spirituale, economico, sociale e tecnologico- nella maggior parte dei casi a buon diritto.
Quando, dopo la fine del XVIII secolo, con l’avvio del processo di modernità scandito dalla Rivoluzione francese, le lancette della Storia – l’ordinamento concreto, ossia il nomos come avrebbe affermato un gigante mai superato quale Carl Schmitt – furono coordinate e gestite dall’emisfero cosiddetto Occidentale (da cui progressivamente si canonizzò il concetto e l’idea di Occidente) a livello comunicativo, mediatico e propagandistico l’idea di una classificazione delle civiltà, e all’interno di esse delle nazioni oramai nate e pienamente sviluppatesi, divenne sempre più importante. Gli studi naturalistici di Charles Darwin, ripresi e innalzati da un razionalismo becero e imperante, furono il brodo di cultura del primato dell’uomo bianco, quel fardello (“the burden”) definito da Rudyard Kipling: l’Impero di sua maestà britannica, in modo pionieristico, esportò la propria potenza e i propri commerci dall’India al Pacifico, con la precisa e radicata convinzione della superiorità dell’uomo bianco sull’uomo nero, dei costumi anglosassoni su quelli indiani, indonesiani o africani. Nasce il razzismo così inteso in chiave moderna; prolifera e diventa sistema di azione con l’apporto decisivo e insostituibile di Inghilterra, Francia e Stati Uniti, potenze illuminate, democratiche e protettrici del benessere del mondo. Il colonialismo occidentale e la nascita dell’Occidente, contrapposto ad un non meglio precisato oriente, furono due degli aspetti fondamentali dell’evoluzione dei rapporti e dell’equilibrio internazionale tra XVIII e XX secolo; aspetti che aprirono infiniti dibattiti e infinite conseguenze, le quali, ad elencarle tutte, non basterebbero una decina di volumi di approfondimento.
Le due Guerre Mondiali costrinsero tuttavia l’Occidente a fare i conti in casa propria, a risolvere (in particolare modo in Europa, ma non solo) secoli di conflitti regionali latenti per la divisione e la spartizione del territorio e dei confini tra stati nazione. Dopo il 1945 si entrò nel periodo della Guerra Fredda e il clima di contrapposizione “noi” e “loro”toccò vette esasperate e inimmaginabili; nel frattempo gli Stati Uniti si erano impadroniti del controllo militare, strategico e geopolitico delle Vecchia Europa in ricostruzione. Questo primato americano non è stato da allora più scalfito, ed è uscito persino rafforzato dopo l’implosione dell’Urss: nel 1989 cade il Muro di Berlino, nel 1991 l’Unione Sovietica viene ufficialmente sciolta. Il pericolo comunista può dirsi finalmente alle spalle, il mondo ancora una volta dirsi salvo. Fu così che, all’indomani del 1989, lo scontro di civiltà ritornò in auge con tutta la sua potenza dialettica, fatta di interviste, libri, opinioni, pamphlet, dichiarazione dei diritti umani e universali: l’Occidente, non si contentava più di aver vinto la sfida con l’Orso rosso, ma voleva ora imporre la sua visione del mondo – edonistica, unilaterale, liberistica e consumistica – a tutto l’orbe terracqueo conosciuto.
Se la globalizzazione e lo sradicamento sono dei fatti, come affermò nel 1999 l’allora presidente americano Bill Clinton, questi fatti vanno anche messi in pratica: in questa ottica (ma non solo) vanno decisamente lette le due guerre del Golfo (1991, 2003), la guerra in Afghanistan (2001- 2021, temporaneamente demodè presso i media mainstream) la guerra alla Libia (2011) e ancora alla Siria (2011-2018 almeno). I conflitti sopra citati, oltre a provocare vittime e stragi tra i civili, in particolar modo donne, bambini e anziani, e a perseguire interessi meramente geopolitici, petroliferi e territoriali, sono stati caldeggiati e giustificati agli occhi dell’opinione pubblica come guerre al terrore, all’inciviltà, ad una non meglio precisata area arabo-medio orientale per sua stessa natura ferma, inferiore e portatrice di odio tribale. La guerra del terrore lanciata da Bush Jr. dopo il tragico attentato dell’11 Settembre ha visto a reti unificate il trionfo di quegli opinionisti che, sulla scorta del libro del 1996 di Samuel P. Huntigton – Lo scontro di civiltà e il nuovo ordine mondiale – profetizzavano uno scontro inevitabile tra Occidente con i suoi valori e Oriente, andando in alcuni casi persino ben oltre e identificando questo Oriente – tout court e quasi apertis verbis- con il mondo musulmano e la religione islamica. Il libro di Huntington d’altronde lo aveva fatto intendere: l’Islam si rivelerà un pericolo per il quieto vivere dell’Occidente, impantanato tra una vetrina luccicante, l’ultimo modello di cellulare a disposizione o l’auto sportiva del momento da comprare a tutti i costi.
Pochi, già trenta anni fa, fecero notare che il cosiddetto Occidente (Europa più America del Nord) nella sua maggioranza aveva iniziato a estinguersi: l’Occidente Cristianità- Medioevo-Rinascimento-Rivoluzione Scientifica aveva cominciato a cedere il passo all’Occidente frutto di egoismo, de-sacralizzazione, secolarizzazione, consumo, produzione e accumulazione di ricchezza fine a se stessa. Occidente corpo e capitale, completamente fuori dal concetto di religio e da un credo spirituale, teologico e filosofico in grado solo di mitigare le storture di un sistema il cui il risultato è il trionfo di monadi e individui a scapito di collettività e solidarietà. Sradicato alle fondamenta, privato di un’identità vera, di una tradizione viva e in tensione pulsante, l’Occidente europeo trent’anni circa dopo si è ritrovato senza artigli e senza unghie necessarie per affrontare le sfide e i cambiamenti di un mondo in rapida mutazione: in molti casi si è anche spinto sull’acceleratore affermando che lo scontro con altri popoli, altre tradizioni e altre religioni (su tutte l’Islam) in fondo sarebbe dovuto essere inevitabile.
Il discorso tuttavia, si sarebbe potuto impostare al contrario, partendo dall’affermazione a chiare lettere che solo un popolo, una nazione e un’identità forte, riconosciuta e vissuta, possono portare ad un dialogo franco e produttivo: solo se l’Europa si riscopre e si rinnova Cristiana alle fondamenta può, in questo caso, avere concrete possibilità di un dialogo interreligioso e veramente interculturale, senza che ciò venga goffamente portato avanti da agenzie pseudo-governative, da prodotti di intrattenimento, da stili di vita americaneggianti – dollari, hamburger, cofane di caffè, smartphone e zucca di halloween. Senza queste premesse, senza una chiara conoscenza delle radici, del perché ogni città, paese, frazione, località abbia una Chiesa o un luogo di culto cristiano, come si può cercare di integrare l’altro-da-sè? Come si può credere di poter trasmettere valori, etica e tradizione se per primi ne difettiamo noi stessi? Il cortocircuito viene amplificato e perfezionato dagli attentati terroristici di matrice radicale islamica che, giocoforza, non possono non far attecchire la retorica della violenza naturaliter impressa nell’Islam: gli avvenimenti di Nizza e di Vienna, ultimi di una lunga e triste lista di cui in questi giorni ricorre l’anniversario, meritano una piccola riflessione, in continuazione con quanto fino a questo punto argomentato. Senza mettere in evidenza responsabilità o ricostruzione certa degli eventi ha avuto inizio l’individuazione da parte dei media e dei vari leader politici e d’opinione di alcuni cavalli di battaglia, pronti all’uso. L’attentatore di Vienna, era un cittadino austriaco di origine macedoni-albanesi convertitosi all’Islam e radicalizzatosi in breve tempo e, secondo le indiscrezioni, ha agito per conto dell’Isis, come tante altre volte era già capitato in alcune città europee (Berlino, Parigi, Barcellona). Nessuno, fino ad ora, si è chiesto come sia possibile che un cittadino abitante di uno stato del fiorente Occidente, pieno di comodità, diritti e opportunità, possa, previa (de)formazione, essersi così profondamente rivoltato al luogo in cui viveva e passava la maggior parte del suo tempo. Quanta integrazione vera si è in grado (o si è stati in grado) di garantire? Quanta capacità di inclusione culturale? L’immigrazione può essere veramente gestita solo con provvedimenti restrittivi e/o accoglienza senza programmazione ma con possibilità di lucro?
Chiaramente nessuno di questi interrogativi può minimamente giustificare quanto successo nella splendida Vienna, il cui modello di coesistenza plurietnico risulta cieco e in grado di non capire, perché totalmente in balia di paradigmi lobbistici e individualisti, l’importanza del sacro nella vita dell’uomo, i necessari limiti ad un laicismo senz’anima e asfissiante, la necessaria ridistribuzione della ricchezza, l’assoluta impellenza di un’etica comune condivisa. A Nizza è stata in precedenza colpita la Cattedrale di Notre Dame, vera Luce e vera Protezione – al di là di ogni retorica- dell’Europa in ogni tempo: proprio la Francia, per bocca del suo presidente Emmanuel Macron, ha dichiarato vicinanza a solidarietà a tutti i cattolici, dopo che molti governi transalpini hanno fatto di tutto per tagliare fuori religione, simboli, riti, tradizione e ricorrenze dalla vita pubblica e privata delle nazione.
La speranza viva è che tutto ciò possa essere propedeutico al recupero della dimensione divina, trascendente e culturale, per rifondare l’Europa post-Covid-19, l’Europa della Transizione Ecologica, senza così dover rinunciare alla nostra storia e al confronto con essa: come ad esempio agli scontri ma anche ai commerci e agli scambi filosofici, religiosi, scientifici e teologici tra Oriente e Occidente, tra mondo mediterraneo e mondo arabo, fra Islam e Cristianesimo. Per tutto ciò, è necessario ripartire non da Oriana Fallaci, citata più volte come difensore d’ufficio delle ragioni dell’Occidente con le sue teorie metà occidentali e metà newyorkesi, portatrici di guerre umanitarie e “missioni di pace” e capaci di stabilire inconsciamente attentati e morti di serie A e serie B, ma da Tiziano Terzani, attento conoscitore del mondo asiatico e orientale, di quella dimensione spirituale, mistica e solennemente misteriosa della storia del mondo. A Tiziano, un indovino disse che lo scontro di civiltà sarebbe stato un comodo concetto per eludere problematiche di più ampia complessità, uno scontro inesistente, rinfocolato dagli eventi, dagli eccidi, da una conveniente ignoranza e da un’ipocrisia – quella per davvero – tutta occidentale.