OGGETTO: Il leone del deserto
DATA: 14 Maggio 2023
SEZIONE: Geopolitica
AREA: Africa
La futura stabilizzazione della Libia, in un periodo di forti tensioni internazionali, passa attraverso la storia delle relazioni tra Roma e Tripoli.
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«Tu, spada sguainata e innalzata nel deserto,

che conferisci per sempre un’affilatura alle spade degli arabi,

i cui deserti dei beduini sono stati il fodero di ogni spada

che è stata ben allenata contro il nemico

e sono le tombe dei giovani valorosi omayyadi,

e dei loro padri, che vivono nella memoria e in Dio» 

Così suona la traduzione di un estratto dell’elegia composta da Ahmad Shawqi, noto poeta egiziano, in ricordo delle virtù eroiche del “leone del deserto”, Omar al-Mukhtar, condottiero della resistenza contro il colonialismo italiano del Ventennio. Una figura mitizzata da letterati e intellettuali del mondo arabo, accostata alla grandezza dei guerrieri della poesia araba di epoca medievale e impressa nella memoria collettiva di larga parte della popolazione libica in qualità di martire della Libia. E non solo: poiché, se da una parte è innegabile che l’impronta del “leone” rimanga scolpita nei nomi delle strade e nei monumenti delle città libiche, perpetuando il ricordo di un tempo segnato da leggendarie battaglie per l’autodeterminazione del popolo libico, dall’altra si serba memoria di al-Mukhtar anche ben oltre i confini di Tripolitania e Cirenaica, là dove, a distanza di decenni dagli anni della decolonizzazione, non si è mai affievolito un certo panarabismo con venature antioccidentali. 

Simbolo delle radici della Libia rurale e incontaminata, le cui comunità conservano l’eredità di una tradizione religiosa che resiste all’incessante modernizzazione sociale ed economica, il mito di Omar al-Mukhtar condensa in sé l’unità di un popolo fiero dei propri caratteri identitari, ma anche le contraddizioni del sostrato politico e culturale su cui si è innestata la moderna Libia, un «figlio delle Nazioni Unite», come l’ha definito l’analista John Wright nel suo A History of Libya (C. Hurst & Co. Publishers Ltd, 26 aprile 2012). A conferma dell’importanza che le gesta di al-Mukhtar hanno mantenuto fino alla storia più recente della Libia, Gheddafi fece un uso parco del mito dell’eroe, ideale per accattivarsi le fasce più anziane della popolazione, far leva sul panarabismo vagheggiato dai giovani libici e puntellare la sua energica propaganda antioccidentale, con la quale si combinava la causa palestinese contro Israele. Resta, però il fatto che il condottiero della resistenza libica costituiva pur sempre una bandiera dell’indipendenza della Cirenaica e un interprete dell’eredità dei Senussi. 

Nel discorso inaugurale di una conferenza internazionale, Gheddafi affermò che i giovani dovrebbero lasciarsi ispirare «nel loro lavoro dalle grandi azioni dei grandi leader del continente come Samori Toure, Omar al-Mukhtar e Gamal Abdel Nasser e altri che hanno attraversato la storia dell’Africa, che hanno rifiutato di accettare una vita di schiavitù e oppressione.» (H. K. Nassar, M. Boggero, Omar al-Mukhtar: the formation of cultural memory and the case of the militant group that bears his name, “The Journal of North African Studies”, 9 maggio 2008). Del “leone del deserto”, consegnato all’immaginario collettivo dal celebre film di Anthony Quinn, sembra aleggiare tutt’oggi il fantasma in quella Libia di cui incarna a pieno il carattere fiero, indomito e non assoggettabile. Carattere con cui l’Italia, fin dai primi decenni del secolo scorso, si è dovuta confrontare, dopo aver compiuto il passo decisivo nell’impostazione della proiezione coloniale rivolta alla “quarta sponda”. In quel gioco di incastri e congegni diplomatici che aveva preso sostanza fin dal Congresso di Berlino del 1878, il Regno d’Italia si mosse per tre decenni sul filo degli equilibri tra Stati-nazione europei ed entità statuali o protostatuali nordafricane. 

Quando il governo di Roma ebbe ottenuto le condizioni favorevoli per avviare una penetrazione coloniale al di là del Mediterraneo, con il primo rinnovo della Triplice Alleanza con Germania e Austria-Ungheria, gli Accordi Mediterranei con la Gran Bretagna, gli Accordi Venosta-Barrère con la Francia e l’Accordo di Racconigi con la Russia, fu il governo Giolitti a inaugurare una nuova stagione della politica estera italiana. Quella mossa caldeggiata da un vivace movimento nazionalista, di cui fu interprete anche Giovanni Pascoli con il discorso della “grande proletaria”, fu annunciata da Giolitti come una «fatalità storica», espressione che continua a riecheggiare nei palazzi del potere italiani fino ad oggi. La guerra contro l’Impero ottomano che scoppiò nel settembre 1911 era stata preparata con un progressivo ampliamento della presenza italiana sulla costa della Tripolitania, con acquisizioni di terra, creazione di attività economiche, missioni mediche e culturali e persino con l’introduzione di un moderno sistema postale. Con l’ascesa dei Giovani Turchi, tuttavia, i rapporti tra comunità italiane e autorità di Tripoli si inasprirono e il governo di Roma trovò il pretesto con cui portar guerra agli ottomani. 

Al termine di una guerra che il Regio Esercito vinse con pesanti perdite (e malgrado i tentativi di sabotaggio come l’incidente del blocco da parte della Marina italiana dei piroscafi francesi Manouba e Carthage diretti a Tunisi con a bordo materiale bellico e unità militari turche nel bel mezzo della Guerra libica del 1911-1912), Tripolitania e Cirenaica erano tutt’altro che saldamente dominate dal Regno d’Italia. Ma, a questo punto della ricostruzione storica sulle relazioni tra Italia e Libia, conviene soffermarsi su alcuni elementi rilevanti che emergono fin dai prodromi della storia delle relazioni italo-libiche e che costituiranno delle costanti cifre significative degli equilibri tra la penisola e la sua “quarta sponda”: oltre alla competizione mai sopita tra sfere di influenza delle rivali europee, specialmente le potenze a vocazione imperiale francese e britannica, si prefigurava già all’indomani del Trattato di Ouchy (1912) la profonda spaccatura tra regioni della futura Libia. 

Più organizzata ed efficace fu la resistenza imbastita attorno a Sayyad Ahmad al-Sharif, ritenuto non solo emiro della Cirenaica, ma pure legittimo governante della Libia per legittimazione califfale. Proprio la confraternita mistica della Senussiya, con malcelate ambizioni politiche, cercò prima di impedire la penetrazione italiana nell’entroterra, poi di accordarsi con italiani e britannici per mantenere gli antichi privilegi della confraternita. Mentre Ahmad al-Sharif, sconfitto nella Prima Guerra Mondiale dagli inglesi, trasferiva il controllo politico e militare della Cirenaica al cugino Muḥammad Idris al-Senussi, che sarebbe stato riconosciuto come sovrano indipendente delle oasi interne, la popolazione della regione otteneva piena cittadinanza italiana e l’istituzione di un parlamento. Ma in Tripolitania le forze in campo erano altre rispetto a quelle dell’est e si articolavano in una pluralità di fazioni tribali in lotta tra di loro. Quando a Idris fu offerto dalle tribù dell’ovest il titolo di emiro della Libia, il capo Senussi decise di rifugiarsi al Cairo, poiché, intanto, l’espansione coloniale italiana riguadagnava terreno sotto il regime fascista. 

La superiorità tecnologica e militare dell’esercito italiano, armato di fili spinati, veicoli corazzati, bombardieri, postazioni per mitragliatrici e mine antiuomo, non sminuì l’eroica resistenza del capo di una zawiya dei Senussi, proprio quell’Omar al-Mukhtar che avrebbe dato il nome a strade, università come la Omar al-Mukhtar University di al-Bida e ambiziosi progetti come il Great Man-Made River, un sistema di canalizzazione delle acque sotterranee presenti nel sud libico verso la costa fortemente voluto da Gheddafi. Le tattiche militari del “leone del deserto”, basate su attacchi rapidi e su scala limitata, seguiti da ritirate nel deserto, gli permisero di sfuggire alla cattura per vent’anni, fino al 1931. Eppure, il suo nome avrebbe animato la retorica audace del fondatore della “repubblica delle masse”. 

«[…] Si rimane colpiti dai ripetuti e potenti riferimenti alla nozione di una storia comune che ha contrapposto i libici all’Occidente. (…) I ricordi della brutalità dei fascisti, della cattura e dell’impiccagione di Omar al-Mukhtar e dell’allontanamento della popolazione locale dalla propria terra a favore di quella occidentale sono stati tutti punti focali della retorica di Gheddafi.

D. Vandewalle, A history of modern Libya, Cambridge University Press, 2006

Con tutto ciò, è opportuno esprimere un giudizio equilibrato sull’impronta lasciata dal colonialismo italiano in Libia, dato che, soprattutto in Tripolitania e Fezzan, i colonizzatori si preoccuparono di non privare le comunità autoctone delle loro terre. Più pervasiva fu la presenza in Cirenaica, dove ampi appezzamenti di terra furono sottratti alle tribù locali e messe a disposizione delle comunità italiane di agricoltori. Nella visione di Mussolini, che vide arrivare in Cirenaica ventimila coloni nel 1938 e altri dodicimila nel 1939, era un ritorno ai fasti dell’antica potenza romana. Positivo fu l’impatto della politica di realizzazione di opere pubbliche, che comprendeva una rete di 5200 km di strade e 400 km di ferrovie. Ma l’aspetto probabilmente più interessante del colonialismo italiano in Libia, che marca una differenza profonda con quello francese e britannico, fu la tolleranza usata dal regime fascista nei confronti dei nuovi cittadini musulmani dell’Impero italiano, provata dal fatto che l’amministrazione italiana si fece carico della cura di moschee e luoghi di culto e persino dell’assistenza all’organizzazione dei pellegrinaggi verso La Mecca e del divieto di vendita di alcolici durante il Ramadan. 

La dominazione italiana durò ben poco a causa degli sviluppi drammatici della Seconda Guerra Mondiale, nonostante il governo De Gasperi avesse tentato di minimizzare le privazioni imposte dal Trattato di Parigi. Francesi e inglesi gestirono la transizione libica nel secondo dopoguerra guardando al recupero delle rispettive sfere di influenza sul Mediterraneo, grazie all’esito favorevole della campagna d’Africa. Se, da una parte, nel gennaio 1943 si erano costituite già tre amministrazioni provvisorie dei britannici in Tripolitania e Cirenaica e dei francesi nel Fezzan, dall’altra il dibattito internazionale sul percorso di autodeterminazione dei popoli colonizzati infuriava alle Nazioni Unite. Neppure il tentativo estremo del piano Bevin-Sforza, che prevedeva anche un’amministrazione fiduciaria italiana, fu approvato dall’Assemblea Generale e la Libia arrivò in condizioni sociali ed economiche difficilissime al momento della sua indipendenza nel dicembre 1951, con re Idris I Senussi al vertice dello Stato. 

Dopo 18 anni di regno dei Senussi, che portò avanti la faticosa e incompiuta costruzione di un’unità delle molteplici anime della Libia e favorì importanti cambiamenti sociali e sviluppo economico, salì al potere con un colpo di mano il colonnello Muammar Gheddafi, che si affermò sulla scena nordafricana sull’onda dell’entusiasmo della rivoluzione egiziana degli Ufficiali Liberi e del nasserismo. Al di là della sua linea di politica interna, Gheddafi trasformò la Repubblica Araba di Libia in un elemento di destabilizzazione dell’assetto post-bellico architettato dalle potenze occidentali: sarà sufficiente ricordare il sostegno dato a gruppi e organizzazioni terroristiche a livello internazionale, l’implicazione nel caso Lockerbie e nella distruzione di uno UTA France Airlines nei cieli del Sahara, le continue schermaglie con la Marina americana nel Mediterraneo, il pluriennale intervento armato in Ciad e l’appoggio offerto al fronte Polisario nella sua lotta per l’autodeterminazione. Sebbene la Libia fosse uscita negli anni dalla “trappola del sottosviluppo”, diventando una delle nazioni più ricche al mondo, forte rimase la storica dipendenza economica dall’estrazione ed esportazione di greggio (50% del Pil e 75% delle entrate pubbliche) soggetta ad alta volatilità dei prezzi. 

Oggi, dopo più di dieci anni di instabilità istituzionale, politica e socioeconomica ereditata dalle Primavere arabe, la Libia trova nell’Italia il primo mercato di destinazione dell’export e il suo quinto fornitore commerciale con un interscambio di 6,37 miliardi di euro nei primi sette mesi del 2022. È pur vero che, se il governo di Roma sta puntando sul potenziamento delle forniture di petrolio proveniente da altri paesi, come Azerbaijan, Iraq, Arabia Saudita e Kazakhstan, e gas esportato da Algeria, Azerbaijan e Norvegia (oltre al GNL importato da Stati Uniti, Qatar, Nigeria, Mozambico), è per applicare un principio di prudente diversificazione delle vie di approvvigionamento. D’altronde, restano seri dubbi sugli sviluppi della polveriera libica, che grande allarme ha suscitato anche nel 2022. Nel frattempo, l’ambasciatore italiano in Libia, Giuseppe Buccino, ha preannunciato con soddisfazione il completamento della ricostruzione dell’aeroporto internazionale di Tripoli previsto per il 2024, segno di un impegno costante per la ripresa economica del paese. 

Meno confortanti sono stati gli esiti della recente visita del capo del governo italiano in Libia, subito dopo la tappa in Algeria del gennaio 2023: descritto come il più importante investimento in Libia degli ultimi vent’anni, l’accordo italo-libico del valore di circa otto miliardi di dollari per avviare lo sviluppo di due giacimenti di gas, al fine di aumentare la produzione di gas per il mercato interno libico e le esportazioni verso l’Europa non lascia ben sperare. «Lo stesso accordo Eni-National Oil Corporation è stato immediatamente contestato da alcune delle parti in causa e la sua realizzabilità potrà essere misurata solo nei prossimi anni, seguendo l’evoluzione della crisi interna», scrive l’analista Aldo Liga. L’Italia è presente nel contesto libico con 50 imprese operanti nel settore delle costruzioni, altri servizi alle imprese e industria estrattiva, ma non può trascurare la notevole concorrenza portata, tra gli altri, da Francia, Germania e Turchia. 

Manca, per giunta, una visione condivisa della comunità internazionale sul percorso verso la stabilizzazione istituzionale e politica di uno Stato oggi dimidiato che dal 2011 vive nel perenne timore, a metà tra lo scenario da failed State e lo “schema Siria”. La Libia è oggetto di attenzione massima per quasi tutti i maggiori attori del Mediterraneo, a maggior ragione ora che c’è il rischio di un allargamento del confronto russo-americano: tra le questioni più urgenti in ballo, la sicurezza energetica, tornata in cima alle agende dei governi con lo scoppio della guerra in Ucraina, e la stabilizzazione del Sahel, area segnata da migrazioni forzate, desertificazione e terrorismo islamico. La normalizzazione dei rapporti tra Egitto e Turchia potrebbe allentare le tensioni regionali sulla definizione delle ZEE e sugli opposti schieramenti appoggiati in Libia, mentre la Francia ha cercato di assumere un ruolo centrale nella composizione delle divisioni interne al paese nordafricano e continua a premere perché si svolga un regolare processo elettorale.

All’Italia, che non può tirarsi indietro di fronte alla “fatalità” di una grave e perdurante crisi nell’estero vicino, spetta l’onere di garantire il proprio impegno nelle missioni attive sul campo, in particolare IRINI, e non astenersi dall’adottare soluzioni diplomatiche innovative ed efficaci, che tengano conto del sostrato complesso e disomogeneo delle varie regioni libiche. 

«Piuttosto che affrontare la Libia come un unico e insormontabile problema, la sua scomposizione in parti più piccole può creare opportunità che convergano su una soluzione più ampia. Ciò richiede una divisione de facto (se non legale) del paese in componenti geografiche più piccole […]. Uno schema di supervisione internazionale temporanea potrebbe essere legalmente elaborato e attuato per garantire la neutralità e l’autonomia della Banca Centrale, dell’Autorità libica per gli investimenti e della NOC fino al ritorno di un minimo di sicurezza che consenta una riunificazione inclusiva e trasparente in qualsiasi forma i libici vogliano – una federazione, una confederazione o uno Stato unificato.»

K. Mezran, Libya: Thinking the Unthinkable, Atlantic Council, 25 febbraio 2016

In fasi storiche così burrascose come quella attuale, dalla diplomazia ci si può (e ci deve) aspettare anche l’impensabile, tutto purché i cannoni tacciano e l’arte della pace torni ad avere voce in capitolo.

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