OGGETTO: Russia e linee rosse
DATA: 10 Maggio 2021
Dopo il crollo del regime sovietico gli Stati Uniti sono entrati nel "giardino di casa" della Federazione.
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Il crollo dell’Unione Sovietica fu accolto come l’auspicio di un mondo libero dalle contese e abitato da nazioni avviate, mano nella mano, alla costruzione di una società globale umana, civile e democratica. Dopo il 1991, le compagini statali dell’Est Europeo, una volta sovietiche, ambivano ad un futuro occidentale, proiettato agli Stati Uniti e, magari, coronato da rapporti paritari con i paesi che si sarebbero apprestati, l’anno successivo, a costituire l’Unione Europea. Prosperità e democrazia erano ciò che il passato dominio russo aveva loro negato, e quanto di meglio il sogno occidentale aveva da offrire. La stessa Russia, una volta patria e del comunismo mondiale e contraltare della superpotenza americana, incedeva verso un percorso di liberalizzazioni politiche ed economiche, impaziente di cogliere i migliori frutti che quel nuovo mondo ad ovest poteva proporre. 

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Ad aprile di quest’anno, ammonta a 150mila unità il contingente militare russo disposto sul confine ucraino. Si tratta del più cospicuo dispiegamento di forze terrestri organizzato dalla Federazione Russa a partire dall’inizio del conflitto con lo stato ucraino, nel febbraio 2014. I maggiori analisti geopolitici sono divisi fra coloro che pronosticano un decisivo assalto russo e chi, al contrario, sospetta che la massiccia collocazione di truppe sul confine sia dettata da altri scopi. E, in effetti, la sovraesposizione mediatica che ammanta l’intera operazione militare è cosa oltremodo inusuale, specie per i reparti militari russi che, da sempre, prediligono l’effetto sorpresa. Non si è verificato difatti alcuno scontro: l’enorme plotone è stato piano piano ritirato, e l’escalation si è conclusa ad una velocità sorprendente. Ma, certamente, non si è trattato di un nulla di fatto. A tirare le somme del (mancato) conflitto è proprio Vladimir Putin, nel discorso alla Federazione del 21 aprile. Sebbene il resoconto del Presidente fosse principalmente dedicato agli affari interni, non è di certo la stringatezza dei minuti devoluti alle questioni internazionali (appena cinque minuti su 75) a limare l’irruenza dei messaggi rivolti ad un Occidente ricompattato sotto il fronte bideniano. Il messaggio è chiaro: una violenta reazione armata si abbatterà su chiunque dovesse oltrepassare le linee rosse tracciate dalla Federazione, demarcazione e sottolineatura degli interessi nazionali russi. Ancora una volta, il carisma di Putin veicola una narrazione consapevolmente propagandata, e funzionale alla preservazione dello status di grande potenza globale. Che valore ha avuto, allora, l’intera operazione russa sul confine ucraino? Comprendere le ragioni profonde che hanno mosso le scelte della Federazione significa capire lo stato geopolitico nel quale essa versa, al di là delle narrazioni scientemente divulgate.

Sin dal crollo del gigante sovietico, i rapporti fra russi ed Occidente a trazione americana sono stati profondamente instabili ed altalenanti. Da parte russa, questo non può sorprendere: durante tutta la storia dello stato slavo, dalla Rus’ di Kiev fino ai giorni nostri, un incessante moto di slanci ad occidente e ritirate ad est ha caratterizzato l’agenda politica interna ed estera. Se Ivan il Terribile edificò la nazione russa attorno a Mosca come Terza Roma, Pietro il Grande, educatosi in Europa, spostò la capitale a San Pietroburgo (“Finestra sull’Occidente”) e impose tasse su coloro che portavano la barba, in un moto di omologazione ai canoni europei. Fu Lenin, nel 1918, a ristabilire il primato di Mosca come capitale, ben più protetta di Pietrogrado da eventuali assalti controrivoluzionari di un Ovest non più da emulare. All’inizio degli anni ’90, invece, Boris El’cin inaugurò l’ennesimo ciclo di riavvicinamento all’Occidente, successivamente sviluppato da Putin, ma che parve esaurirsi in seguito alle frizioni con l’Amministrazione Obama e l’annessione di porzioni di territorio ucraino nel 2014. Secondo Michail Suslov, rinomato analista geopolitico, ciò sarebbe principalmente dovuto a fattori come la vastità territoriale dello stato russo e la sua collocazione eurasiatica, a cavallo tra due mondi, ma anche all’ambivalenza antropologica e culturale dei russi. Poiché l’intera agenda politica russa è da sempre improntata alla preservazione e allo sviluppo dell’indipendenza strategica, politica e militare, l’approccio che la Federazione adotta ad oriente e ad occidente è passibile di variazioni dettate dalla contingenza. Se la Russia non intervenne durante la Rivoluzione Arancione esplosa in Ucraina nel 2006, fu per la preservazione dei rapporti con un’Occidente che, ancora forte della vittoria nella Guerra Fredda, si imponeva come presente e futuro a cui tendere. Il fatto che Putin adottò l’approccio inverso nel 2014, innescando il conflitto russo-ucraino ancora in atto, è invece determinato dall’alterazione dei rapporti di forza risultata dalla Crisi del 2008. L’incessante sviluppo del peso economico e geopolitico della Repubblica Popolare Cinese trasformò l’Estremo Oriente nel principale teatro di competizione fra potenze globali. 

Nel frattempo, l’ascesa cinese ha sedotto in molti modi un’Europa Occidentale ancora rintontita dalle fiabe sulla società globale senza confini, che gli Stati Uniti brevettarono dopo la sconfitta dell’arcirivale comunista. Per l’idealismo democratico americano (come lo definisce Kissinger), l’accettazione universale dei valori occidentali non è scindibile dall’azione attiva della potenza americana in tutti i teatri globali, ed è quindi da intendersi come dominio mondiale incontrastato degli Stati Uniti. Peccato che gli stati europei abbiano tragicamente creduto che il mondo intero avrebbe spontaneamente goduto di uguaglianza e democrazia. Tragicommedia della teleologia europea che si vorrebbe razionale. Dopo la Crisi del 2008 e la nascita di altri centri di potere che ambiscono a rivaleggiare con gli USA, gli americani iniziarono ad organizzarsi per rinsaldare il loro dominio sul continente europeo. Forti di una Cortina di Ferro radicalmente spostata verso est, gli Stati Uniti sono letteralmente stanziati nel giardino di casa della Russia, potenza da sempre dedita alla dilatazione del proprio confine difensivo, allontanandolo il più possibile dal centro dello stato. Se, all’inizio del decennio scorso, Ucraina e Bielorussia erano i principali cuscinetti difensivi dei russi, le rivolte ucraine del 2014 segnarono il passaggio di Kiev nella sfera di influenza americana. Per Putin, l’annessione della Crimea era il minimo, vista la perdita di un territorio percepito come naturalmente russo. Anche sul piano strategico la vittoria americana fu clamorosa. Avendo sfilato ai russi il feudo che dà a strapiombo sul caldissimo Mar Nero, gli Stati Uniti godono oggi di un posizionamento ad est dal quale opprimono sensibilmente i russi e mettono pressione sui turchi, svalutandone il ruolo cardinale nel contenimento del gigante slavo. Non solo Ucraina: ciò che maggiormente rimpingua l’ineccepibile vantaggio americano sul continente sono le nazioni dell’Europa Centro-Orientale. Dalla Polonia ai Baltici, fino alla Romania, è possibile osservare stati nati appena trent’anni fa per volontà americana. Si tratta di popoli dalla memoria profondamente lacerata dall’oppressione sovietica, che concepiscono gli Stati Uniti come luogo di culto valoriale. Inoltre, l’estrema vicinanza russa contribuisce a mantenere viva la percezione di una minaccia incombente, impedendo a queste nazioni di cadere nel torpore che culla l’Europa Occidentale. In termini strategici, questi stati sono i più importanti alleati-feudi americani in Europa. Basti pensare al popolo polacco, in sintonia totale con qualsiasi governo americano a prescindere dal partito del momento. Proprio la Polonia, il cui legame spirituale con gli Stati Uniti sfocia spesso nel sentimentale, firmò nel giugno 2019 un accordo volto ad aumentare la presenza militare americana sul territorio, coadiuvata dall’installazione di sei o sette basi statunitensi a ridosso della Bielorussia. Ma è la Romania la destinataria del più grande investimento americano nel 2021: 130.5 milioni di dollari sono stati stanziati per la modernizzazione della base aerea di Câmpia Turzii, che detronizzerà per dimensioni la base Mihail Kogălniceanu nei pressi di Costanza. A ciò si somma il sistema di difesa missilistico Aegis Ashore, installato a Deveselu nel 2016 e prossimamente presente anche a Redzikowo (Polonia) dal 2022. In tal senso, Polonia e Romania sono alleati fedeli, mossi da profonda russofobia e adeguatamente equipaggiati. Ciò li rende pistole alle tempie dei russi e spine nel fianco per la Turchia. 

Gli americani possono strangolare i russi in ogni momento e, verosimilmente, con uno sforzo minimo. Basti pensare che l’unica personalità straniera citata nel discorso di Putin è Lukashenko, Presidente di una Bielorussia rimasta ultimo feudo russo in Europa. Il Capo di Stato parla esplicitamente di un colpo di stato ordito contro l’omologo bielorusso: ciò evidenzia il chiaro intento di preservare la Russia Bianca dall’ingerenza degli americani, che sarebbero pronti a strapparla dalla sfera d’influenza russa così come fatto con l’Ucraina. Come già detto, l’intenzione dell’Amministrazione Biden è, allo stato attuale, quella di ricompattare il fronte occidentale dinanzi alle maggiori potenze revisioniste. In questo senso, la narrazione di sé divulgata dalla Russia contribuisce a renderla un villain perfetto, verso il quale avventarsi ogni volta che occorre serrare i ranghi. Di tutte le linee rosse, quella principale sembra essere quella della pazienza dei russi. Nel suo pragmatismo, Putin è ben conscio del fatto che la Russia subisce lo strapotere strategico americano, ma sa anche che gli USA non giungerebbero mai allo scontro diretto. Proprio questa consapevolezza legittima una retorica esternabile da una potenza ai vertici dei rapporti di forza. In un crollo verticale di consensi, Putin rilancia l’immagine di una Russia temibile. Da una parte, ciò è funzionale alla narrazione americana, dall’altra alimenta l’orgoglio dei cittadini russi e lancia un ultimatum all’attivismo americano nell’Europa Orientale.


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