L’11 Gennaio 2021, il presidente Biden nominò William Burns a capo della CIA. Una figura esperta, con un curriculum di tutto rispetto, che il 23 Marzo, dopo la ratifica al Senato, giura alla presenza della Vicepresidente Kamala Harris. Pronti via e il 23 Agosto, neanche sei mesi dopo, Burns ha un abboccamento privato (e segreto) con Abdul Ghani Baradar circa le modalità della ritirata americana dall’Afghanistan. Un’operazione complessa, un azzardo di Biden (o chi per lui), ma le gambe di Burns non tremano affatto. D’altro canto, abbiamo ricordato, il curriculum di William Burns è consistente: a 26 anni inizia, nel Foreign Service, una lunga carriera che lo porterà in Giordania(1998-2001) e Russia (2005-2008). Proprio nei confronti della Russia, Burns nutre sentimenti contrastanti, come evidenzia in Spycraft and Statecraft, il suo ultimo articolo scritto per Foreign Affairs.
Un saggio scritto con lucidità e consapevolezza, in cui Burns passa in rassegna tutte le sue passate esperienze diplomatiche agganciandosi alle sfide future che la CIA, nelle vesti di garante degli interessi americani, non troverà ad affrontare. La Russia, insomma, sarebbe un gigante dai piedi di argilla, vittima delle ambizioni sfrenate del suo leader: “Un’economia unidimensionale, un’abilità militare sopravvalutata e un sistema politico corrotto”, gli ingredienti di un fallimento, quello in Ucraina, che non solo sarà fragoroso, ma spingerà la Russia, secondo Burns, irrimediabilmente tra le braccia della Cina. In quest’ottica, la resistenza ucraina va sovvenzionata con convinzione non tanto per la vittoria militare in sé, quanto perché il dilungarsi della guerra porterebbe l’establishment del Cremlino a rivoltarsi contro Putin e, nelle intenzioni non esplicite ma evidenti di Burns, a ritornare all’America come il figliol prodigo. Una valutazione che sembra cinica, ma gli Stati Uniti non sono mai andati per il sottile quando si trattava di mettere morti europei sul piatto della bilancia internazionale. Ad essere ironico è che Burns, nel 2008, aveva dato parere assolutamente negativo sull’eventuale allargamento della NATO in Ucraina; a suo dire: “In more than two and a half years of conversations with key Russian players, from knuckle-draggers in the dark recesses of the Kremlin to Putin’s sharpest liberal critics, I have yet to find anyone who views Ukraine in NATO as anything other than a direct challenge to Russian interests”.
In Spycraft and Statecraft, Burns sembra dare molta importanza a quelle potenze medie che, con le loro mire di potenza, possono minare un equilibrio di forze fragile ma ramificato. Neanche a dirlo, il secondo polo di questo equilibrio sarebbe la Cina, con cui gli USA intrattengono un rapporto di rivalità, non di guerra, ricca di interdipendenze economiche. Tutto ciò che traspare finora non è nulla di particolarmente nuovo, né di entusiasmante: gli Stati Uniti fanno la voce grossa, ma non temono la Russia. L’unica nazione al livello dello Zio Sam è la Cina, ma una guerra totale è, in questo momento, impraticabile. Meglio scatenare piccoli focolai di disturbo nel mondo pur mantenendo il controllo sulla situazione per evitare un’escalation. In realtà qualcosa d’innovativo Burns la dice: quando parla di divulgazione pubblica intenzionale dimostra una certa freschezza, non tanto perché la pratica sia, di per sé, innovativa, ma perché forse per la prima volta si da un nome a questo strumento di propaganda, dandogli una veste ufficiale, tecnica.
Il giovane Burns si è costruito tra Russia e Medioriente, e proprio sul Medioriente il vecchio Burns ha molto da dire, ma senza, anche in questo caso, inventarsi niente: Hamas è il nemico sia di Israele che dei Palestinesi e va estirpato, è impossibile pensare ad una pacificazione dell’area senza “normalizzare” i rapporti con Iran e Arabia Saudita, e tutto questo sarà possibile solo con una partecipazione americana attiva e presente nell’area. Tradotto: Israele resta l’interlocutore privilegiato, le basi americane rimangono dove sono e prima o poi, di riffa o di raffa, l’Iran (e con lui, gli Houthi) smetterà di essere un problema. La soluzione dei due stati, che dal punto di vista europeo (da leggere “di un’Europa in grado di curare le proprie politiche estere in maniera indipendente”) sembra essere senz’altro vantaggiosa, per Burns rimane un’occorrenza remota, o quantomeno, vincolata a certe condizioni.
Quando parla di “una pace duratura che garantisca la sicurezza di Israele e la statualità Palestinese” il ritratto che fa della situazione sembra sottindere che si aspetta di sostituire ad Hamas una qualche struttura di potere in grado di prenderne il posto. Eppure, a differenza del suo più diretto predecessore (che aveva fama di vera e propria macellaia, in linea con l’indurimento del pugno americano in politica estera di Trump) diversi commentatori hanno accordato a Burns una visione più squisitamente diplomatica dei rapporti internazionali. Sicuramente raffinato diplomatico, in chiusura del suo lungo saggio Burns appronta una disamina su come la smart technology ponga sfide nuove al lavoro della CIA sul breve periodo. Se è vero che “For a CIA officer working overseas in a hostile country, meeting sources who are risking their own safety to offer valuable information, constant surveillance poses an acute threat” è altrettanto vero che “The revolution in artificial intelligence, and the avalanche of open-source information alongside what we collect clandestinely, creates historic new opportunities for the CIA’s analysts”, soprattutto se si considera il recente perfezionamento dell’Intelligenza Artificiale, la quale, anche se non arriverà mai a sostituire del tutto gli agenti della CIA né sul campo, né tanto meno nell’ambito della costruzione dei dati raccolti, offre spunti interessanti soprattutto per l’analisi delle forze in campo.
Il saggio di Burns, che funge da dichiarazione di intenti, non sembra aggiungere nulla di particolare alla lettura della politica estera Statunitense, ma risulta comunque un documento interessante in quanto permette di dialogare in prima persona con un personaggio che ha fra le mani i rapporti fra gli americani e i suoi nemici. E ci dà un ulteriore chiarimento su quanto, in fondo, agli americani non interessi, almeno in questo momento, di tutto ciò che riguarda direttamente la stabilità dell’Europa.