In America la chiamano Opioid Overdose Crisis. Da noi invece, dove si parla solo da poco tempo di questa piaga che esiste già da più di vent’anni, il fenomeno viene più spesso associato ad un’epidemia. Secondo uno studio del 2016, l’80% degli oppioidi messi in commercio in tutto il mondo viene consumato negli Stati Uniti. Numeri alla mano, a partire dal 1999, i morti associati all’abuso di oppioidi e oppiacei superano gli 841.000. Giusto per fare un paragone: sempre negli Stati Uniti, la pandemia da Covid-19 ancora in corso ha mietuto 590.000 vittime. Geograficamente, invece, gli Stati dove il dato di morti da oppiacei e oppioidi è più alto sono California, Florida, Texas e tutti gli stati del Midwest. Questi ultimi sono gli stati della cosiddetta Rust Belt, una volta il cuore pulsante del capitalismo manifatturiero americano, culla di una classe media a stelle e strisce che ha ispirato generazioni di migranti, ed ora tristemente famosa per il declino di metà XX secolo, che ha lasciato disoccupazione e precarietà.
Conoscere le cause e gli effetti di questa piaga invisibile significa comprendere l’America di oggi, il suo spirito e le sue contraddizioni. Farlo, però, richiede che si mettano da parte i filtri europei, attraverso i quali, alle nostre latitudini, si giudica troppo spesso la totalità dei popoli intorno al globo. La grande crisi degli oppioidi è, infatti, un fenomeno totalmente americano, sviluppatosi in una concatenazione di fattori economici, politici e sociali. Le origini della piaga si fanno risalire al 1996, quando la casa farmaceutica Purdue Pharma mette in commercio l’OxyContin. Da noi conosciuto come ossicodone, si tratta di un farmaco antidolorifico ricavato dall’oppio, i cui effetti sono molto simili a quelli della morfina, ma tre volte più intensi. La casa farmaceutica, di proprietà della famiglia Sackler, sottolineò che il nuovo farmaco non poteva dare dipendenza, poiché in grado di rilasciare gradualmente la sostanza nell’organismo, evitando così un effetto euforico improvviso, la “botta”. Il farmaco agisce, essenzialmente, su alcuni recettori del cervello, fermando il dolore e regalando una sensazione di sollievo. La Purdue Pharma, inoltre, assicurò anche che l’effetto del farmaco aveva una durata di dodici ore. Un’ulteriore tutela sarebbe stata garantita anche dal fatto che l’acquisto del farmaco era vincolato da formale prescrizione medica.
Era il 1996. Il 24 novembre 2020, invece, la Purdue Pharma si è dichiarata colpevole di aver fatto pressione sui medici affinché prescrivessero l’OxyContin. Ciò sarebbe avvenuto non solo tramite il rilascio di informazioni mediche totalmente false, ma anche attraverso l’utilizzo di considerevoli quantità di denaro per corrompere i medici stessi. La casa farmaceutica, inoltre, ha dichiarato di aver sempre saputo che l’antidolorifico in questione era in grado di provocare una fortissima dipendenza. Ciò avviene a causa della presenza di una sostanza chiamata fentanyl, lo stesso oppioide sintetico che viene molto spesso utilizzato per tagliare l’eroina. E come se non bastasse, l’assicurazione sul fatto che l’effetto del farmaco avrebbe avuto una durata di dodici ora tralasciava una verità non da poco: proprio in virtù della dipendenza che il farmaco crea, la durata del suo effetto scende ad ogni assunzione. Sin da subito, le ore scendevano a dieci, e, altrettanto velocemente, il farmaco finiva per avere una durata di sole tre ore. Nel giro di 25 anni, milioni di americani si sono trasformati da malati in drogati, e almeno 841.000 tra questi hanno trovato la morte.
Questa storia spaventosa è stata il risultato di molteplici fattori. Sin da quando l’OxyContin è stato messo in commercio, la casa farmaceutica sapeva che avrebbe incassato un successo enorme. Tramite una pubblicità estremamente aggressiva, la Purdue Pharma raccomandava l’assunzione di ossicodone per coloro che soffrivano di un dolore fisico cronico. Si tratta di qualcosa di particolarmente comune soprattutto nelle zone della Rust Belt, dove intere generazioni hanno lavorato nella manifattura pesante tipica degli stati del Midwest. Per chi lavora o ha lavorato in fabbriche pesanti, miniere di carbone, nell’edilizia, nell’industria del legno o in catene di montaggio, è praticamente impossibile non avere alcun tipo di dolore cronico. Nel 2016, uno studio del CDC (Centers for Disease Control and Prevention) stimò che il 20.4% degli americani adulti, circa 50 milioni di persone, registrava dolori cronici, mentre l’8%, pari a 19.6 milioni, aveva dolori cronici gravi. Sebbene le sopracitate condizioni lavorative abbiano avuto un impatto significativo, ciò che incide maggiormente in questi dati è il rapporto che gli americani hanno con il dolore. Secondo uno studio dell’International Social Survey Programme, il 34.1% degli americani dichiara di provare dolore spesso o molto spesso.
Se è vero che il dolore è una sensazione universale, comune a tutti gli esseri umani, è invece molto variabile il rapporto che si ha culturalmente con esso. Non solo varia il modo in cui ci si approccia, come lo si tratta e come lo si supera, ma non esiste neanche un vero minimo comune denominatore su cosa sia definibile dolore. In Africa, ad esempio, il dolore è qualcosa da nascondere e, specialmente fra gli uomini, non riuscirci è un evidente segnale di debolezza. Ciò è il risultato di molteplici fattori, che vanno dai valori sociali e culturali all’oggettiva scarsità e arretratezza delle cure mediche disponibili. Nelle società occidentali, invece, il dolore è vissuto come un aspetto della vita da limitare il più possibile, qualcosa che esiste in quanto accidente naturale e che i moderni sviluppi tecnologici e scientifici possono alleviare. Ciò è ancora più vero negli Stati Uniti, dove le leggi che regolamentano le prescrizioni mediche e l’acquisto di farmaci sono ben più allentate che in molti paesi europei. Innumerevoli americani entrarono in contatto con i farmaci antidolorifici per trovare finalmente sollievo, la fine dei loro dolori. Perché mai avrebbero dovuto farne a meno?
Non è di secondaria importanza, inoltre, il fenomeno della de-industrializzazione che travolse la Rust Belt nella seconda metà del XX secolo. Da un lato, l’economia americana stava cambiando radicalmente, abbandonando la sua vocazione manifatturiera e approdando al settore terziario e al primato dell’high tech. Dall’altro lato, invece, la maggior parte delle fabbriche che per decenni avevano dato lavoro agli americani del Midwest iniziarono a spostarsi in Messico, in Cina o negli stati americani del sud, alla ricerca di manodopera a costi più ridotti. In Pennsylvania, West Virginia, Ohio, Michigan, Illinois e nell’Indiana, invece, furono pochissime le città che riuscirono ad adattarsi al cambiamento. La maggior parte di quelli che ne avevano la possibilità iniziarono ad emigrare, ma chi non poteva si scontrò con la disoccupazione e la precarietà, finendo molto spesso per rifugiarsi nella droga e negli psicofarmaci. Per questa ex-classe media, composta in prevalenza da bianchi con un livello di educazione medio-basso, la tossicodipendenza arrivò con la forza di un treno. In America, dove i ricchi vivono in periferia e i poveri nei centri delle grandi città, e dove l’abuso di droghe viene tendenzialmente ricondotto ai neri di bassa estrazione sociale, un esercito di uomini bianchi di mezza età, poco educati ed abitanti delle periferie, si ritrovò tossicodipendente senza sapere come fosse successo. Figli, genitori, lavoratori e disoccupati caddero nel sollievo degli psicofarmaci, e, una volta resisi conto del loro problema, non ne parlavano con nessuno, non andavano a curarsi e si convincevano che a loro non sarebbe mai potuta toccare quella fine. Ciò riguarda anche il particolare approccio che gli americani hanno nei confronti della tossicodipendenza. Un bagaglio valoriale a metà fra il puritanesimo e l’individualismo libertario li conduce, d’istinto, a considerare il drogato come un fallito, un debole, più che come un malato. Per molti, sia medici che pazienti, il modo per uscire dalla dipendenza è, semplicemente, smettere di drogarsi. Ciò ha spinto molti a non recarsi da un medico, cercando di frenare da soli i propri disagi, senza riuscirci quasi mai.
Anche se dall’Europa non ce ne accorgiamo, gli effetti di questa piaga decennale si riflettono in politica. Questa ex-classe media della Rust Belt votò in massa Barack Obama nel 2008 e nel 2012, attirati dalla promessa di un ampliamento dei programmi di sanità pubblica e dei sussidi di disoccupazione. Tutte queste cose arrivarono, e in tantissimi ne trassero beneficio. Ma le grandi campagne condotte dalle amministrazioni democratiche in materia di immigrazione e di diritti delle minoranze ebbero effetti dirompenti. Generazioni di americani disoccupati, malati e disillusi, si scontrarono con la retorica della tolleranza: loro erano i bianchi privilegiati, da sempre fortunati e prediletti. Ma, di certo, si sentivano tutto tranne che privilegiati. Quando le grandi aziende americane, sulla scia delle campagne governative, dichiararono di volersi impegnare maggiormente per assumere e tutelare neri, asiatici, ispanici e nativi, per tanti cittadini della Rust Belt qualcosa si ruppe.
Se Trump non fosse stato conscio di questo sentimento, Hillary Clinton avrebbe vinto le elezioni del 2016. Ma il Midwest è la pancia del paese, e, in quasi tutte le elezioni, è il vero fattore determinante. Da noi non è stato capito, ma quando Trump attacca Big Pharma, accusando le case farmaceutiche di arricchirsi sulla pelle dei malati, grida alla concorrenza sleale della Cina, modifica il NAFTA, l’accordo di libero scambio con Messico e Canada, sa bene con chi sta parlando. Vinse per pochissime decine di migliaia di voti, grazie ai grandi elettori di quasi tutti gli stati del Midwest. Mantenne alcune promesse, ma fallì in quella di riportare la manodopera nella Rust Belt, e così venne sconfitto quando molti di quegli stati si schierarono con Biden. Capire la crisi degli oppioidi significa capire uno degli aspetti più oscuri dell’anima americana, ma al contempo uno dei più centrali, perché ha investito quell’America profonda con la quale ogni presidente deve necessariamente confrontarsi.