OGGETTO: So long, Afghanistan
DATA: 19 Aprile 2021
SEZIONE: inEvidenza
Finisce dopo vent’anni Enduring Freedom: se in Afghanistan c’è stata una guerra, non se n’è accorto nessuno
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C’è un’aria d’indifferenza palpabile attorno a Joe Biden mentre annuncia il ritiro delle ultime truppe USA dal teatro afghano. Vent’anni d’impegno militare continuo, ad oggi la campagna più lunga mai intrapresa dalle forze armate a stelle e strisce, si concludono con uno sbadiglio. La supposta rilevanza del momento si perde nel tono piatto e monocorde del Presidente; idem pure per il simbolismo della data ultima – l’11 settembre, anniversario degli attacchi suicidi contro le Torri Gemelle – entro la quale gli americani intendono lasciare l’Afghanistan.

Quella che sarebbe stata una notizia da prima pagina è oggi roba da trafiletto, non più di una nota a margine nel caos del mondo pandemico. È difficile pensare che qualcuno farà lo sforzo d’immaginarselo, questo ritiro; farlo è arduo anche per chi scrive, a tal punto che è in effetti più semplice figurarsi come non sarà. Non ci saranno, è certo, le tortuose colonne corazzate che nel 1989, snodandosi verso il confine tra l’URSS e il martoriato vicino come un lungo serpente grigioverde, riportarono gli ultimi coscritti sovietici nella patria già moribonda, stroncata dal vano tentativo di portare il socialismo tra le montagne di quello strano regno di mezzo. I militari USA, in tutto 2500 tra operatori delle forze speciali, aviatori, qualche fante e il personale logistico, se ne andranno in sordina, probabilmente trasportati alla famigerata base aerea di Bagram e da lì fatti volare negli States insieme al cargo. Come cargo. All’arrivo non ci saranno bande o parate: troppa fatica. L’apatia della politica è in definitiva quella di un Paese che dell’Afghanistan si è scordato da un pezzo. 

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Ripensare alla prime fasi dell’invasione è straniante. “Tutto il mondo ci sentirà”, ebbe a dire all’epoca George W. Bush: sono parole che risuonano quasi beffarde nell’annoiato silenzio generale di oggi. L’obiettivo, in quell’ottobre del 2001, era chiaro. Si trattava di rovesciare il regime talebano che dava asilo a Bin Laden: ci vollero due settimane, e pazienza se Osama l’avrebbero trovato solo un decennio più tardi in Pakistan, presunto Paese amico. La logica avrebbe voluto che, stroncati i fondamentalisti islamici e constata la latitanza del capo dei Al Qaeda, si tornasse a casa con armi e bagagli. Ma dato che la geopolitica segue ragioni proprie, invece di cessare la presenza USA nel Paese si fece sempre più intensa. Nel giro di un anno lo schieramento di truppe iniziale triplicò; a queste se ne sarebbero aggiunte altre nel biennio successivo, con un picco di 20mila nel 2004. Non abbastanza per controllare un territorio vasto e impervio come quello afghano: lo sapeva bene il Pentagono, e ancora meglio gli insurgents talebani. Lentamente, i guerriglieri cominciarono ad alzare il livello dello scontro. Si moltiplicarono via via le imboscate, gli attentati e gli immancabili ordigni improvvisati, atroce leitmotiv delle campagne USA in Medio Oriente. Quando il neoeletto Obama arrivò alla Casa Bianca, all’inizio del 2009, la situazione era sfuggita di mano. Il contingente venne rafforzato fino a contare 67mila effettivi (senza contare le truppe della International Security Assistance Force, tra cui 4mila italiani, 52 dei quali mai tornati), con altri 33mila pronti a partire per il 2010, anno apicale della guerra. Il Presidente aveva ricevuto il Nobel per la Pace in virtù della promessa di tirar fuori l’America dall’ennesimo pantano; invece, nel giro di qualche mese si toccò la soglia psicologica dei 100mila soldati al fronte. Arroccati nelle FOB, piccoli avamposti sparsi nel mezzo della desolazione afghana, i G.I. perennemente accerchiati lanciavano piccole sortite mirate a tenere salda la posizione e farsi amici i locali. Impossibile non pensare alle missioni search and destroy e alla strategia cuori e menti di quarant’anni prima: lo spettro terribile del Vietnam, paventato con sempre più insistenza negli anni precedenti, era diventato una realtà concreta, con le morti sempre più numerose e la tensione costante troppo spesso scaricata su civili inermi. 

L’idea, presso le stanze dei bottoni del Pentagono, era stata di restare giusto il tempo necessario affinché gli afghani potessero gestirsi autonomamente; quanto fosse questo tempo, però, nessuno lo sapeva più per certo. Allo stallo delle operazioni belliche si cercò allora di porre rimedio spendendo fiumi copiosi di denaro per mettere su almeno la parvenza di uno Stato. Un trilione di dollari, mille miliardi in vent’anni: è il nation building, bellezza. Cosa esattamente si dovesse costruire in Afghanistan, se scuole e ospedali o un senso d’unità e appartenenza in un popolo dalla tradizione tribale, non si era capito; ma era evidente che più si andava avanti, più la strada si faceva tortuosa. I traguardi raggiunti avevano l’effetto paradossale di evidenziare tutte le deficienze di una nazione in larga parte ferma al Medioevo. Per ogni passo in avanti se ne facevano due indietro: a casa la gente faceva finta di nulla, contenta di ripetersi che i ragazzi in prima linea stavano facendo qualcosa d’importante. Poi divenne solo qualcosa; infine, sulla guerra eterna cadde il silenzio dell’abitudine. “Il Corpo dei Marines è in guerra, non l’America; l’America è al centro commerciale”, riassumeva cinicamente qualche giovane sulle pareti di compensato di una latrina. È ciò che in inglese si chiama complacency. Traducibile come compiacimento, è “un senso di soddisfazione arrogante ed acritica di sé e dei propri raggiungimenti”. Comunemente è sinonimo d’indifferenza. Due decenni, tre trilioni di dollari e 2300 morti dopo (le vittime civili sarebbero circa 35mila), l’unico traguardo raggiunto è essersene andati, per giunta in ingiustificabile ritardo. 

I talebani, mai realmente sconfitti, oggi cantano vittoria. Se l’offensiva intrapresa all’inizio del 2019 gli aveva consegnato il controllo di due terzi del Paese, consolidandone così la posizione militare, gli accordi di pace siglati con Trump un anno fa – a tutto credito peraltro di una Turchia sempre più lontana dall’orbita USA – hanno garantito loro una legittimità politica semplicemente impensabile. Gli studenti islamisti sono diventati interlocutori diplomatici alla pari degli Stati Uniti, ed è un posto che si sono presi col sangue: una bella differenza rispetto al letargico ed inefficiente governo filo-occidentale di Kabul, che mai è riuscito davvero ad accreditarsi presso la popolazione. Tira aria di resa dei conti, e non è da escludere un’altra guerra civile come quella che negli Anni ’90 aveva portato i mujahideen al potere. In ogni caso, l’Afghanistan si avvia a tornare una base operativa sicura per il terrorismo internazionale. Al Qaeda, pur con la schiena spezzata, vi ha sempre mantenuto una certa presenza, mentre preoccupano le voci di una rinascita dell’ISIS, che espulso dalla Siria potrebbe qui trovare un comodo rifugio. E poi c’è il Pakistan, da sempre terreno fertile per l’islamismo radicale: senza la presenza delle truppe estere, ci si può aspettare una migrazione dei tagliagole da una parte e dall’altra del confine.

Il dossier pakistano impensierisce il Dipartimento di Stato anche per la crescente vicinanza di Islamabad a Pechino; il Pakistan è un aderente entusiasta della Belt and Road Initiative cinese, e la crescente influenza della Città Proibita rischia di farne un pericoloso satellite attraverso cui Xi e i suoi potrebbero ragionevolmente arrivare a controllare, per via indiretta, quello stesso Afghanistan da cui oggi gli Stati Uniti si ritirano. La Cina sarebbe allora in condizione di imporsi nel tassello chiave dell’Asia centrale, e da lì minacciare gli interessi americani sia nel Medio che nell’Estremo Oriente. Roba, questa sì, da guerra, per la quale la Difesa USA cerca da tempo di prepararsi dopo gli effetti atrofizzanti di vent’anni di controinsurrezione. Ironia della sorte, a Biden tocca contare sull’odiata Russia perché contrasti le spinte espansionistiche dell’infido vicino; una posizione scomoda che, coi midterm già all’orizzonte, potrebbe avere conseguenze di rilievo per una presidenza fragile.

Enduring Freedom è, in definitiva, un fallimento su tutta la linea. La misura del ventennale disastro è sì militare e geopolitica, ma anche e soprattutto culturale: il conflitto ha fatto a brandelli la sensazione d’invincibilità dell’America post-’89 tanto quanto gli attentati del 2001 e strangolato un’intera scuola di pensiero diplomatico e strategico. La libertà dello straniero non è quella di tutti gli altri, e imporla con la forza – sia essa delle armi o dei soldi – è controproducente se non impossibile. In Afghanistan tutto è rimasto com’era: non si può rifare un Paese ad immagine e somiglianza del proprio, men che meno se chi lo abita non vuole. È una lezione con cui tutte le grandi potenze hanno dovuto confrontarsi; poche sono sopravvissute. Se l’Afghanistan sarà la tomba anche dell’impero americano è difficile a dirsi: di certo però vi è sepolta una certa idea che gli Stati Uniti avevano di sé e il mondo aveva degli Stati Uniti. La guerra è arrivata sulla soglia di casa, tra il dramma vecchio dei reduci disadattati e quello nuovo degli oppiacei che, partendo dai campi di papaveri afghani, nella calma apparente della suburbia fanno più morti delle bombe. Il tutto in un clima di disinteresse surreale, sintomo e sintesi di una normalità distorta che ha preso il sopravvento sulla vita collettiva americana e che oggi potrebbe davvero mettervi fine. Complacency kills, direbbero da quelle parti.


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